Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2012-03-01, n. 201201192

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2012-03-01, n. 201201192
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201201192
Data del deposito : 1 marzo 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05095/2008 REG.RIC.

N. 01192/2012REG.PROV.COLL.

N. 05095/2008 REG.RIC.

N. 05431/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5095 del 2008, proposto da:
Eni spa, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati M S e C O, elettivamente domiciliata presso l’avvocato M S in Roma, viale Parioli, 180;

contro

Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato, non costituita in giudizio;

nei confronti

Curatela del Fallimento Eurozolfi, non costituita in giudizio;
Zolfital spa, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Gian Luigi Tosato e Filippo Satta, elettivamente domiciliata presso l’avvocato Filippo Satta in Roma, Foro Traiano, 1/A;



sul ricorso numero di registro generale 5431 del 2008, proposto da:
Esso Italiana srl, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Gian Paolo Zanchini, Mario Siragusa, Francesca Maria Moretti, elettivamente domiciliata presso l’avvocato Gian Paolo Zanchini in Roma, piazza Venezia, 11;

contro

Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato, non costituita in giudizio;

nei confronti

Curatela del Fallimento Eurozolfi, Eni spa, Erg Petroli spa, non costituite in giudizio,
Zolfital spa, rappresentata e difesa dagli avvocati Gian Luigi Tosato e Filippo Satta, elettivamente domiciliata presso l’avvocato Filippo Satta in Roma, Foro Traiano 1/A;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. -OMISSIS-/2008, resa tra le parti, concernente VIOLAZIONE DELLA CONCORRENZA MERCATO DELLA DISTRIBUZIONE DELLO ZOLFO GREZZO.


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in entrambi i giudizi di Zolfital spa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 31 gennaio 2012 il consigliere R V e uditi per le parti gli avvocati Osti, Sanino, Siragusa e Satta;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

Con distinti ricorsi in appello le società Esso Italiana e Eni (già Agip Petroli spa) chiedono la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tar del Lazio ha respinto i ricorsi proposti avverso la deliberazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in avanti: Autorità) n. 3/816 del 29 ottobre 1998, avente ad oggetto addebito di violazione dell’art. 2, comma 2, lett. b), l. 10 ottobre 1990, n. 287.

I) Il procedimento sfociato nel provvedimento oggetto del ricorso di primo grado ha preso le mosse dalla segnalazione in data 19 dicembre 1996, con la quale la società Eurozolfi ha denunciato all’Autorità l’esistenza di rapporti di fornitura in esclusiva tra la società Zolfital e alcuni produttori di zolfo grezzo, che si sarebbero ripetutamente rifiutati di fornire direttamente, senza l’intermediazione di Zolfital, gli utilizzatori finali, i quali sarebbero così stati costretti a rifornirsi all’estero, con connessi maggiori oneri.

A seguito dell’istruttoria avviata il 16 ottobre 1997 ai sensi dell’art. 14 della legge citata, l’Autorità ha accertato l’esistenza di intese restrittrici della concorrenza tra Zolfital ed Esseco (che governano il settore della distribuzione dello zolfo grezzo nel mercato nazionale), e i produttori Erg, Agip Petroli ed Esso, che rappresentano più del 70% della produzione nazionale di zolfo. A causa di tali accordi, la Zolfital, in virtù del complesso meccanismo di determinazione del prezzo finale, è in grado di alterare i diversi costi sopportati per favorire la società capo gruppo Esseco, con la quale costituisce un unico centro di distribuzione nazionale, e fare in modo che tale società acquisti lo zolfo ad un prezzo nettamente inferiore a tutte le altre imprese consumatrici, committenti della stessa Zolfital. L’Autorità ha pertanto accertato la violazione dell’art. 2, comma 2, l. n. 287 del 1990 da parte delle società Agip Petroli (ora Eni spa), Esso Italiana., Erg, Esseco e Zolfital in relazione al loro coinvolgimento in un “fascio di intese verticali” che avevano arrecato pregiudizio alla concorrenza nei mercati dell’approvvigionamento e della distribuzione dello zolfo grezzo.

Ritenendo, peraltro, che la proposta presentata da Zolfital ed Esseco nel corso del procedimento, consistente nella loro separazione societaria, fosse sufficiente a rimuovere le infrazioni così accertate, l’Autorità non applicava alcuna sanzione né provvedeva alla diffida prevista dall’art. 15 della suddetta legge.

Avverso la determinazione conclusiva del procedimento hanno proposto distinti ricorsi le società Eni ed Esso, respinti dal Tar del Lazio con la sentenza oggi in esame.

II) In quanto proposti avverso la medesima sentenza, va disposta la riunione degli appelli, alla definizione dei quali le ricorrenti hanno interesse, in relazione alle domande risarcitorie spettanti al fallimento Eurozolfi.

III) Un primo gruppo di censure riguarda il procedimento seguito dall’Autorità;
Eni, in particolare, deduce la violazione del principio di contestazione dell’infrazione, poiché l’esatta violazione non sarebbe contenuta nella comunicazione di avvio del procedimento, datata 16 ottobre 1997, ma solo nella comunicazione delle risultanze istruttorie del 12 agosto 1998, intervenuta in periodo estivo, con vanificazione del diritto di difesa.

La censura non è fondata.

Come ha rilevato questo Consiglio di Stato, anche nella sentenza ricordata dall’appellante (sez. VI, 2 ottobre 2007, n. 5085), nel sistema delineato dalla legge 287 del 90 la fase istruttoria serve proprio a individuare la corretta imputazione degli addebiti, e l’imputazione (o se si vuole la contestazione degli addebiti) si cristallizza appunto con la comunicazione delle risultanze istruttorie, alla quale segue il termine di cinque giorni previsto dall’art. 14 dpr n. 217 del 1998 per l’audizione degli interessati che ne facciano richiesta. Anche tale fase si situa all’interno del sub procedimento istruttorio, al cui esito soltanto viene adottato il provvedimento finale.

Le parti, pertanto, dopo la comunicazione delle risultanze istruttorie hanno ampio margine per esercitare il diritto di difesa, contestando l’imputazione e fornendo prove a discarico, ed è ovvio che il provvedimento finale non può contenere imputazioni diverse da quelle contestate con tale comunicazione, che costituisce la definitiva delimitazione dell’imputazione: ove emergessero ulteriori elementi nella fase procedimentale successiva, sarebbe necessario, per modificare l’imputazione, procedere a nuova contestazione, in quanto la decisione finale deve riferirsi alle imputazioni contestate, in analogia a quanto si verifica nel processo penale.

Le conclusioni qui raggiunte sono coerenti con quanto affermato dalla sezione nella sentenza 2 ottobre 2007, n. 5085, in cui si legge che “la contestazione iniziale in base alla quale sia stata portata a termine una corrispondente istruttoria, non consente di pervenire, all’interno dello stesso procedimento, e dopo la conclusione dell’istruttoria stessa, alla legittima contestazione di ulteriori fatti ipotizzati come autonomi illeciti, assumendoli come rilevanti nell’unico procedimento già instaurato ed inserendoli in tale procedimento nello stato in cui esso si trova in relazione alla prima contestazione” (in termini, Cons. St., sez. VI, 20 maggio 2011 n. 3013).

Nella fattispecie in esame, il principio del contraddittorio e la garanzia del diritto di difesa non risultano conculcati dall’invio della comunicazione nel periodo estivo (che non può essere preclusa, dato che ai procedimenti amministrativi non è applicabile la sospensione dei termini prevista per i procedimenti giurisdizionali), atteso che, comunque, tra la comunicazione (12 agosto 1998) e l’audizione finale (16 settembre 1998) è trascorso oltre un mese di tempo, sufficiente per il dispiegarsi dell’attività difensiva.

IV) Entrambe le società appellanti ripropongono la contestazione, disattesa dal Tar, della definizione del mercato rilevante operata dal provvedimento dell’Autorità;
in particolare, sostenendo che l’identificazione del mercato dovrebbe precedere la definizione dell’intesa, mentre, secondo il Tar, in caso di intese la individuazione del mercato rilevante sarebbe un posterius rispetto alla individuazione delle intese stesse, anziché un prius . In ogni caso la definizione del mercato rilevante operata dall’Autorità sarebbe affetta da vizi logici, poiché prende in considerazione un settore che consiste nella autoproduzione dello zolfo e quindi è estraneo al mercato. Contrariamente a quanto ritenuto dall’Autorità, Agip (ora Eni) non sarebbe e non vuole essere attiva nel mercato della commercializzazione dello zolfo.

Sarebbero inoltre stati mal disegnati dall’Autorità i confini geografici del mercato rilevante, come mercato nazionale, trattandosi invece di un mercato internazionale, anche considerato l’allineamento dei prezzi dello zolfo prodotto in Italia e di quello importato dall’estero.

La stessa Commissione europea avrebbe ravvisato la dimensione europea del mercato dello zolfo.

Sarebbe inoltre dimostrato che i piccoli-medi consumatori non avrebbero avuto difficoltà a importare lo zolfo dall’estero e che inoltre una percentuale del 30% dello zolfo grezzo consumato in Italia sarebbe di importazione.

Neppure tali censure meritano accoglimento.

L’art. 2 l. n. 287 del 1990, nell’occuparsi delle intese restrittive della libertà di concorrenza, le definisce come le intese tra imprese che abbiano per oggetto, o per effetto, quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza “all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”.

A differenza di quanto avviene nel campo di indagine relativo all’abuso di posizione dominante, in cui l’ambito del mercato rilevante deve essere definito in via preliminare, nella materia delle intese la problematica dell'individuazione del mercato rileva in un momento successivo dal punto di vista logico, quello dell'inquadramento dell'accertata intesa nel suo contesto economico giuridico, in modo che l'individuazione del mercato non appartiene più alla fase dei presupposti dell'illecito, ma è funzionale alla decifrazione del suo grado di offensività.

A tal fine, per mercato rilevante si intende quella zona geograficamente circoscritta dove, dato un prodotto o una gamma di prodotti considerati tra loro sostituibili, le imprese che forniscono quel prodotto si pongono tra loro in rapporto di concorrenza.

Ciò non significa che vi sono tanti mercati di riferimento quante sono le operazioni economiche avvenute, ma comporta solamente la diversità del criterio di individuazione del mercato, che non assume mai valore assoluto, ma relativo (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 2004, n. 926).

In sostanza, mercato rilevante è il più piccolo contesto (insieme di prodotti ed area geografica) nel cui ambito sono possibili, tenuto conto delle esistenti possibilità di sostituzione, intese che comportino restrizioni consistenti della concorrenza.

Il Consiglio di Stato ha già, più volte, avvertito che non di rado tale operazione di contestualizzazione implica margini di opinabilità, atteso il carattere di concetto giuridico indeterminato delle nozioni delle quali deve farsi applicazione: le valutazioni che nelle singole fattispecie conducono l’organo competente all’individuazione del mercato rilevante non sono pertanto sindacabili nel loro merito intrinseco dal giudice amministrativo, al quale non è consentito sostituire le proprie valutazioni a quelle riservate all’Autorità.

Il giudice amministrativo, in sostanza, deve valutare i fatti, onde acclarare se la ricostruzione di essi operata dall'Autorità sia immune da travisamenti e vizi logici, e accertare che le norme giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate;
laddove residuino margini di opinabilità in relazione ai concetti indeterminati, il giudice non può comunque sostituirsi nella definizione del mercato rilevante, se quella operata dall’Autorità è immune da travisamento dei fatti, da illogicità, da violazione di legge (per tutte, Cons. St., sez. VI, 9 febbraio 2011 , n. 896 e 14 luglio 2011, n. 4283).

Nel caso specifico la ricostruzione del mercato rilevante, contenuta nei paragrafi da 101 a 113 del provvedimento impugnato, è immune da vizi logici e da travisamento dei fatti.

Il settore interessato dal procedimento è quello dell’industria dello zolfo grezzo ottenuto come scarto dai processi di raffinazione del greggio.

L’Autorità ha in primo luogo evidenziato che lo zolfo grezzo è un prodotto di scarto derivante dalla raffinazione degli idrocarburi, che per le raffinerie rappresenta principalmente un costo, data la necessità di una sua rapida esitazione al fine di non interrompere l'attività principale;
inoltre, indipendentemente dal suo mantenimento allo stato liquido o dalla sua trasformazione allo stato solido, lo zolfo è utilizzato in numerosi processi industriali.

Tali caratteristiche del processo produttivo si riflettono direttamente nell'individuazione del mercato rilevante in senso geografico.

In particolare, dato il basso valore dello zolfo, assumono particolare rilevanza i costi di trasporto, con la conseguenza che, secondo l’Autorità, l’ambito geografico nel quale si possono incontrare la domanda e l’offerta dipende dal livello dei costi di trasporto e quindi dalla localizzazione, rispettivamente, delle raffinerie e delle imprese consumatrici di zolfo.

Altro elemento rilevante è poi la dimensione dei quantitativi di zolfo richiesti dagli utilizzatori finali in quanto essa incide sulla scelta dei mezzi di trasporto (l’Autorità ha in particolare evidenziato che il trasporto via nave non è conveniente per le piccole e medie imprese) e, di conseguenza, sugli effettivi costi di trasporto che devono essere sostenuti.

Dagli elementi istruttori raccolti dall’Autorità risulta che, all’epoca di cui è causa, esisteva in Italia una significativa produzione nazionale, particolarmente concentrata nell’area meridionale e in Sicilia, idonea a soddisfare circa il 70% della domanda, ubicata prevalentemente al Nord Italia.

Relativamente all’esistenza di flussi commerciali internazionali, l’Autorità ha poi osservato che l’incidenza dei costi di trasporto rendeva particolarmente oneroso per le piccole e medie imprese rivolgersi a questo canale alternativo di approvvigionamento.

Quanto alla possibilità, per tali imprese, di costituire un “pool” per l’approvvigionamento dall’estero, particolarmente enfatizzata dalle ricorrenti, l’Autorità ha riscontrato che, di fatto, anche le importazioni erano all’epoca interamente canalizzate dalle due grandi imprese consumatrici (Nuova Solmine ed Enichem Marghera) e dai distributori Agip e Zolfital/Esseco.

E’ in ogni caso evidente, che, rispetto ad un prodotto il cui prezzo è fortemente influenzato dai costi di trasporto, la localizzazione delle raffinerie e delle imprese consumatrici di zolfo finisce con l’assumere peculiare rilevanza.

L’Autorità ha pertanto ritenuto, con determinazione esente da vizi logici, che, in virtù della significativa produzione nazionale, dello scarso valore unitario del prodotto, della rilevanza degli elevati costi di trasporto, dei consistenti flussi commerciali di zolfo dal Sud al Nord Italia, il territorio nazionale configura un mercato geografico distinto rispetto al mercato internazionale.

Né può ritenersi che il mercato rilevante sia di dimensione internazionale, in forza della mera esistenza di flussi di commercio internazionale del prodotto considerato.

In definitiva, alla luce del provvedimento dell’Autorità, gli elementi addotti dall’appellante Eni risultano smentiti, quanto a:

- pretesa estraneità di AGIP dal mercato, dato che AGIP comunque era produttore e, quindi, venditore di zolfo grezzo, e successivamente acquirente per alcune società del gruppo;

- pretesa dimensione internazionale del mercato in considerazione dell’allineamento dei prezzi nazionali e esteri, atteso che tale allineamento era proprio il frutto dell’intesa restrittiva, in mancanza della quale i prezzi dello zolfo grezzo prodotto e commercializzato in Italia avrebbero dovuto essere inferiori a quelli dello zolfo importato dall’estero, data la minore incidenza dei costi di trasporto.

Né è rilevante la possibilità, per i clienti finali, di importare lo zolfo dall’estero, perché, a causa del comportamento censurato, il prezzo dello zolfo nazionale ha raggiunto quello dello zolfo importato, nonostante il minor costo dovuto ai minori costi di trasporto.

La definizione nazionale del mercato rilevante operata dall’Autorità è, in conclusione, immune dai vizi in relazione ai quali è consentita al giudice l’indagine, come ha puntualmente riscontrato la sentenza impugnata, che merita anche per tale parte piena conferma.

V) L’appellante Eni sostiene che non vi sarebbe nessuna prova che Agip abbia limitato le fonti di approvvigionamento, elemento mai indicato nel corpo del provvedimento ma solo nel dispositivo, e che neppure vi sarebbe alcuna prova della ripartizione del mercato, anch’essa contestata dal provvedimento impugnato in primo grado.

Agip avrebbe fornito una spiegazione alternativa del perché riforniva direttamente due clienti finali appartenenti al suo stesso gruppo e non aveva interesse al rifornimento diretto di altri piccoli clienti finali.

Mancherebbe, poi, la prova del “rifiuto di fornitura” che Agip avrebbe opposto ai clienti finali, e l’Autorità si sarebbe basata solo sulle dichiarazioni di Eurozolfi.

A fronte, poi, di una unica richiesta scritta di Eurozolfi, Agip non si sarebbe rifiutata, ma avrebbe risposto con una offerta dettagliata, giudicata non congrua dall’Autorità senza congrua motivazione.

Al contrario, sarebbe plausibile che Agip fornisca a prezzi diversi lo zolfo alle società infragruppo, che lo acquistano liquido, e ai piccoli clienti finali, che lo acquistano solido, atteso che Agip non dispone di impianto di solidificazione.

Il motivo va respinto, in tutte le sue articolazioni.

Le censure sono in parte comuni a quelle di cui al precedente motivo, per quanto attiene ai rapporti Agip-Zolfital, e la fornitura diretta di Agip a società del gruppo.

La spiegazione alternativa fornita da Agip non regge a fronte delle prove, anche documentali, poste a base del provvedimento dell’Autorità;
in particolare, nel paragrafo 64 del provvedimento impugnato si citano due documenti da cui risulta chiaramente una “grande alleanza” tra Agip e Zolfital, anche finalizzata a impedire che società del gruppo di Agip si rifornissero da terzi diversi da Agip, e risulta chiaramente l’intento di ripartire il mercato (si legge in un documento che “Zolfital è il controllore del mercato grazie (…) alla collaborazione con Agip (Esseco vende ad esempio a Sisa Caravaggio solo perché azionista di Zolfital a sua volta partner di Agip) – Zolfital è l’arma più efficace per “bruciare” Medea”.

Ancora, nel paragrafo 65 si fa menzione di documenti ispettivi da cui emerge uno stretto collegamento tra Zolfital, Esseco e Agip, anche in ordine alle strategie di mercato: note interne di Esseco si riferiscono a riunioni cui partecipano i rappresentanti delle tre imprese, aventi ad oggetto i prezzi al cliente Agip, i costi di trasporto, i ricavi derivanti per le tre imprese.

Da tali elementi l’Autorità ha correttamente desunto il “particolare ruolo e interesse” di Agip, che non agiva per favorire le imprese dello stesso gruppo, ma piuttosto per avvantaggiarsi di avere clienti infragruppo come sbocco del proprio zolfo (paragrafo 66).

E, ancora, si legge nel paragrafo 67 che in una prospettiva di sostituzione di Zolfital ad Agip nella fornitura dei clienti finali di Agip (società dello stesso gruppo) ciò non sarebbe avvenuto in base a logiche concorrenziali, ma assicurando ad Agip il precedente margine di profitto.

Sono parimenti infondate le censure con cui si lamenta che mancherebbe la prova che Agip avrebbe rifiutato di fornire direttamente clienti finali.

Nei paragrafi 72-77 del provvedimento impugnato si dà ampia prova di tale rifiuto, con riferimento:

- alle dichiarazioni di Eurozolfi;

- alle dichiarazioni rese all’Autorità da altre imprese (Manica, ICS, Chimeco, Gruppo Dalton);

- alla circostanza che prima che fossero stipulati gli accordi tra raffinerie e Zolfital – Esseco, le raffinerie fornivano direttamente molti clienti finali;
in particolare, Eurozolfi era un cliente importante di Agip;

- alla circostanza che solo dopo detti accordi, le raffinerie hanno rifiutato di fornire i clienti finali e segnatamente Eurozolfi.

Quanto alla asserita disponibilità di Agip a fornire Eurozolfi, si tratta di elemento non significativo, dato che tale circostanza si è verificata solo dopo l’avvio dell’istruttoria da parte dell’Autorità.

Vanno infine disattese le censure con cui si lamenta che per Agip non vi sarebbe la prova della limitazione delle fonti di approvvigionamento.

I paragrafi 79 e seguenti del provvedimento imputano la limitazione delle fonti di approvvigionamento a tutte le raffinerie, Agip compresa, considerando tale limitazione un effetto delle intese raggiunte tra le raffinerie ed Esseco/Zolfital.

Tali intese hanno avuto per effetto che lo zolfo intermediato da Esseco/Zolfital fosse pari al 70% dello zolfo nazionale;
se si considera che un’altra percentuale era fornita direttamente da Agip a società del medesimo gruppo, è evidente come vi sia stata, per i clienti finali, una limitazione delle fonti di approvvigionamento.

VI) Le censure sollevate da Esso nel proprio ricorso sono, in parte, riportabili a quelle già esaminate: ciò dicasi per quanto riguarda l’ambito del mercato rilevante, la completezza istruttoria, la mancata valorizzazione delle deduzioni dell’interessata nel procedimento.

L’appellante, in particolare e inoltre, censura l’interpretazione dei contratti di fornitura, i dati sui ritiri di zolfo e sulla destinazione delle vendite, l’asserito rifiuto di Esso di vendere zolfo a Eurozolfi, elementi che sarebbero frutto di erronea interpretazione da parte dell’Autorità, avallata apoditticamente dal Tar.

Invece, secondo l’appellante, la vendita dello zolfo da Esso a Esseco avrebbe una giustificazione alternativa lecita: l’impianto di Esseco, munito di meccanismi di stoccaggio dello zolfo liquido, si trova nei pressi della raffineria di Trecate, e così consente ad Esso una rapida esitazione dello zolfo prodotto, senza bisogno di solidificarlo (Esso non disporrebbe di impianti di solidificazione) e senza costi di trasporto. Essenzialmente per “ragioni di accessorietà” la produzione di zolfo dello stabilimento di Vado Ligure, assai marginale, verrebbe parimenti venduta a Esseco: gli accordi tra Esso ed Esseco, se anche in astratto restrittivi della libertà commerciale delle parti contraenti, sarebbero pienamente giustificati e proporzionati rispetto agli scopi perseguiti, e perciò leciti secondo la giurisprudenza comunitaria.

In ogni caso e in subordine, la produzione complessiva di Vado Ligure e Trecate era pari all’1-2% del mercato italiano e pertanto i relativi accordi sarebbero stati irrilevanti ai fini del diritto antitrust, secondo il principio de minimis .

Quanto allo zolfo prodotto nello stabilimento di Augusta, esso veniva in parte ceduto ad Esseco e in parte ad Icec, che lo destinava all’esportazione.

Tali elementi non dimostrerebbero, ad avviso dell’appellante, una esclusiva in favore di Esseco;
la prassi di vendere sempre e solo ad un’impresa non varrebbe a costituire un’esclusiva di fatto, che ricorrerebbe solo se l’insieme di clausole e sanzioni gravanti su ciascuna parte è composto in modo che il fornitore non possa che vendere alla controparte in un dato ambito territoriale.

In difetto di forme dirette o indirette di coercizione, non vi è alcuna esclusiva contraria alla concorrenza;
sarebbe stato onere dell’Autorità dimostrare che le parti avessero, dopo gli accordi, tenuto un comportamento univoco in senso anticoncorrenziale.

All’esame di tali rilievi deve essere premesso che, in via generale, in materia di intese restrittive della concorrenza singoli comportamenti delle imprese (ciascuno dei quali, considerato di per sé, potrebbe apparire privo di specifica rilevanza) possono rivelarsi elementi di una fattispecie complessa, costitutiva di un'unica infrazione da ricondurre in parte al concetto di « accordo », in parte a quello di « pratica concordata », ai sensi e per gli effetti dell'art. 81 del Trattato (ora art.101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea – Tfue, entrato in vigore il 1° dicembre 2009) e degli articoli 1, 2 e 3 della l. n. 287 del 1990;
in tale situazione i dati singoli debbono essere considerati quali tasselli di un mosaico, i cui elementi non sono significativi di per sé, ma come parte di un disegno unitario qualificabile come intesa restrittiva della libertà di concorrenza o abuso di posizione dominante. In tale ipotesi, è sufficiente che l'Autorità garante tracci un quadro indiziario coerente ed univoco, a fronte del quale spetta ai soggetti interessati fornire spiegazioni alternative alle conclusioni tratte nel provvedimento accertativo della violazione concorrenziale (Cons. Stato , sez. VI, 8 febbraio 2008 , n. 421).

E’ allora evidente come, alla luce dei rilievi e dei dati di fatto emersi nel corso dell’istruttoria e puntualmente specificati nel provvedimento oggetto del ricorso di primo grado, la deduzione dell’Autorità circa l’esistenza di un accordo non consentito tra le imprese coinvolte e l’effetto dello stesso in senso distorsivo della concorrenza sia logica, coerente e suffragata da dati di fatto rilevanti e concordanti, tale da resistere alle censure opposte dall’appellante.

Contrariamente a quanto pretende Esso, l’Autorità ha invero fatto oggetto di approfondita e puntuale analisi le giustificazioni addotte dalle società sottoposte a verifica, partendo dalla corretta considerazione secondo la quale, al fine di verificare l’esistenza di una restrizione alla concorrenza non è necessario dimostrare che i comportamenti delle imprese siano stati volontariamente diretti a restringere la concorrenza, quanto che tali comportamenti abbiano effettivamente e obiettivamente avuto questo effetto. La possibile spiegazione alternativa rispetto allo scopo concorrenziale non assume, pertanto, valore dirimente;
in ogni modo del tutto correttamente l’Autorità ha valorizzato la circostanza che tutte le raffinerie hanno contratto con Zolfital o Esseco sulla base di una loro libera scelta, non essendo riuscite a dimostrare di essere state costrette da vincoli tecnici o tecnologici. Ed è appena il caso di osservare che quanto addotto a giustificazione da Esso (la vicinanza tra la raffineria di Trecate e l’impianto di Esseco, la marginalità della produzione di Vado Ligure) non configura una ipotesi di “costrizione tecnica” tale da poter essere apprezzata in termini di necessarietà strumentale al fine da raggiungere. Pertanto, tenuto anche conto che la produzione di zolfo relativa allo stabilimento di Augusta veniva, per la parte destinata al mercato italiano, interamente ceduta da Esso a, e commercializzata da, Esseco (a Icec solo la parte da esportare), logica e coerente con le risultanze istruttorie è la conclusione dell’esistenza, per gli anni dal 1992 al 1997 sottoposti ad esame, di un reciproco impegno delle raffinerie a vendere e di Esseco/Zolfital a ritirare tutti i quantitativi prodotti in tali stabilimenti e della conseguente distorsione del meccanismo di determinazione del prezzo, allineato senza giustificazione a quello dello zolfo importato.

Anche per quanto riguarda il rifiuto di fornire direttamente le imprese che ne avevano fatto domanda, l’istruttoria si sottrae alle censure avanzate con l’appello, essendo risultato, come si è già detto, che il rifiuto ha riguardato (non un caso isolato e giustificato, ma) un comportamento protratto per anni, dal 1993 al 1997, e riguardante non la sola Eurozolfi, mentre in precedenza, dagli anni ottanta fino ai primi anni novanta, le raffinerie avevano fornito alcune imprese clienti. Solo a seguito dei contratti stipulati da ciascuna raffineria con Esseco-Zolfital si registra un rifiuto di fornire direttamente le imprese consumatrici come Eurozolfi.

Tutte le circostanze sopra sintetizzate risultano oggetto di analitico accertamento da parte dell'Autorità, le cui conclusioni al riguardo non possono dirsi frutto di travisamento ed appaiono al contrario congrue, prive di vizi logici ed esaurientemente motivate, nei termini riportati - con amplissima e dettagliata disamina - nella sentenza appellata, mentre le deduzioni opposte dall’interessata, nel corso del procedimento e in giudizio, non sono convincenti.

Le censure avanzate dall’appellante si rivelano, invero, fuorvianti e sostanzialmente infondate, in quanto introduttive di una visione "parcellizzata" dei fatti e relative al comportamento di una sola impresa, al di fuori dell'ampio e documentato quadro complessivo, che scaturisce solo dalla connessione fra le singole vicende, nei termini coerentemente esposti nel provvedimento in contestazione. Come rileva la sentenza impugnata, l’Autorità ha infatti preso in considerazione i rapporti di fornitura di zolfo grezzo tra tutte le raffinerie presenti in Italia e Zolfital/Esseco, ciascuno dei quali integra un’intesa ai sensi dell’art. 2, comma 1, l. n. 287 del 1990, e ha poi proceduto alla valutazione dell’effetto complessivo dell’insieme di intese unitariamente considerato, giungendo alla conclusione che tale sistema di fornitura in esclusiva, in quanto realizzato mediante un’unica impresa distributrice, ha avuto l’effetto di ridurre, nel periodo considerato, le fonti di approvvigionamento nel mercato della distribuzione dello zolfo.

E’ già stato più volte osservato in sede giudiziale che, in materia di intese restrittive della concorrenza, singoli comportamenti delle imprese (ciascuno dei quali, considerato di per sé, potrebbe apparire privo di specifica rilevanza) possono, come nella fattispecie in esame, rivelarsi elementi di una fattispecie complessa, costitutiva di un'unica infrazione da ricondurre in parte al concetto di accordo, in parte a quello di pratica concordata, ai sensi e per gli effetti dell'art. 81 del Trattato (ora art. 101 Tfue) e degli articoli 1, 2 e 3 della più volte citata legge n. 287 del 1990;
in tale situazione i dati singoli debbono essere considerati quali tasselli di un mosaico, i cui elementi non sono significativi di per sé, ma come parte di un disegno unitario, qualificabile come intesa restrittiva della libertà di concorrenza o abuso di posizione dominante: è sufficiente, a tal fine, che l'Autorità tracci un quadro indiziario coerente ed univoco, in presenza del quale spetta alle imprese interessate fornire spiegazioni attestanti l'assenza di coordinamento fra le condotte rilevate, con risultati elusivi della concorrenza (cfr. per i diversi profili indicati, fra le tante, Corte di Giustizia, 8 luglio 1999, cause 49/92 Anic, C-235/92P Montecatini e C-1999/92P Huls;
Cons. St., sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 10,, 10 febbraio 2006, n. 548, 23 giugno 2006, n. 4017 , 2 marzo 2004, n. 926, 30 agosto 2002, n. 4362).

Nella situazione in esame, gli elementi indiziari appaiono, in effetti, numerosi, convergenti e di inequivoca lettura, soprattutto in considerazione degli oggettivi dati finali dell’alterazione dei costi, in favore delle società del gruppo Esseco.

A questo proposito, gli elementi addotti da Esso per contrastare le conclusioni dell’Autorità non sono tali da fornire una diversa spiegazione del proprio comportamento. In particolare:

- non la necessità di sollecita esitazione del prodotto, posto che quello che le si è imputato è, precisamente, di non aver ceduto lo zolfo alle imprese che ne avevano fatto richiesta, al di fuori dell’intermediazione di Zolfital;

- per la stessa ragione, non la pretesa incapacità dei piccoli utilizzatori di zolfo a gestire il ciclo di raffinazione, posto che sugli acquirenti sarebbero ricadute le vicende successive alla vendita;

- non la pretesa estraneità di Esseco rispetto a Zolfital, appartenenti, al contrario, al medesimo gruppo di controllo, come è pacifico in causa e come ha dimostrato la stessa proposta risolutiva di separazione societaria, accettata dall’Autorità in esito al procedimento in quanto misura idonea a realizzare condizioni di concorrenza nel mercato di distribuzione dello zolfo.

VII) Sostiene ancora Esso che l’Autorità avrebbe dovuto rimettere alla Commissione delle Comunità europee la valutazione della fattispecie sottoposta ad esame, poiché il regolamento CEE n. 1983/83 della Commissione contiene un’esenzione di categoria per gli accordi di distribuzione esclusiva che, pur presentando aspetti restrittivi della concorrenza ai sensi dell’art. 81.1 del Trattato CE (ora 101.1 Tfue), siano esentabili ai sensi dell’art. 81.3 (ora 103.3 Tfue), nonché dell’art. 1, comma 4, l. n. 287 del 1990. La mancata valorizzazione di tale omissione da parte del Tar determina la necessità della riforma della sentenza;
analogamente, secondo l’appellante, la presente controversia deve essere rimessa alla valutazione della Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 234 (già 177 e ora 267 Tfue) del Trattato che prevede l’obbligo per i giudici di ultima istanza di rinviare a tale organo la decisione pregiudiziale sulla validità e interpretazione dei regolamenti comunitari.

In merito all’interpretazione dell’art. 234 del Trattato, ricorda il Collegio che dell’obbligo suddetto la giurisprudenza, comunitaria e nazionale, ha da tempo precisato i limiti.

A partire dalla sentenza della Corte di Giustizia del 6 ottobre 1982, resa su rinvio pregiudiziale operato dalla Corte di Cassazione con ordinanza del 27 marzo 1981, vertente appunto sull’interpretazione dell’art. 177, terzo comma, del Trattato, è stato chiarito che l'obbligo di rinvio pregiudiziale avanzato innanzi ad una giurisdizione nazionale di ultima istanza non è illimitato, potendo venir meno ove il giudice di ultima istanza abbia constatato che la questione non è pertinente, ovvero che la disposizione comunitaria ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte di Giustizia, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. La configurabilità di tale eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenza di giurisprudenza all'interno della comunità. I giudici interni non sono pertanto tenuti a sottoporre alla Corte una questione di interpretazione di norme comunitarie se questa non è pertinente (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull'esito della lite), se la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla Corte o se comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso, o se la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata (cfr, Corte Giust., CE, 6 ottobre 1982, C 283/81, Cilfit).

Su tale principio si è consolidato un univoco indirizzo giurisprudenziale (per tutte, Cassazione civile, sez. III, 21 giugno 2011, n. 13603 e Consiglio di Stato, sez. IV, 19 giugno 2006, n. 3623).

Tanto premesso, l’indagine circa la sussistenza, nel caso di specie, dell’obbligo di rinvio coincide con quella relativa alla pertinenza della normativa comunitaria e/o alla evidenza della sua applicazione, anche in relazione alla giurisprudenza comunitaria eventualmente formatasi sulla medesima o su analoga fattispecie, e deve essere, quindi, funzionale all’esame dei singoli motivi di ricorso, che andranno indagati alla luce della specifica disciplina volta a volta rilevante.

Diventa allora evidente che l’interpretazione del regolamento 1983/83, che l’appellante vorrebbe rimessa obbligatoriamente all’esame pregiudiziale della Corte di giustizia, non è questione che nella fattispecie possa assumere rilevanza.

La tesi della ricorrente, ove accolta, comporterebbe infatti l’esclusione dell’accordo accertato dall’Autorità dall’ambito del divieto posto dall’art. 81.1 del Trattato (ora art. 101Tfue), che, come noto, riguarda “tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”. L’accoglimento della tesi, con il riconoscimento dell’esenzione prevista dal citato regolamento 1983/83, costituirebbe, quindi, un’eccezione al generalizzato divieto di stipulare accordi anticoncorrenziali.

Ne deriva che tale questione è inammissibile (condizione che, alla luce dei consolidati principi che si sono già ricordati, spetta al giudice nazionale rilevare), posto che la disciplina della quale l’Autorità ha fatto applicazione, vale a dire l’art. 2 legge n. 287 del 1990, e la decisione che ne è scaturita si pongono, nella stessa interpretazione della ricorrente, (non in contrasto, ma) addirittura come misura di maggior garanzia per la tutela della concorrenza.

La questione della compatibilità del provvedimento dell’Autorità e della disciplina normativa della quale è stata fatta applicazione con i principi comunitari di tutela della libera concorrenza e della libera prestazione dei servizi (di cui, tra l'altro, agli art. 49, 81, 82, 83, 84, 85, 86 del Trattato Ce, ora artt. 56, 101 e seguenti Tfue) non assume, in conclusione, la valenza del ragionevole dubbio idoneo a giustificare la domanda di rinvio pregiudiziale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28 marzo 2008, n. 1275;
Cass. civ., sez. I, 5 marzo 2008, n. 5962) e ciò perché non può essere tacciata di contrarietà alla disciplina comunitaria antitrust una misura che, al contrario, riporta nell’alveo di tale disciplina comportamenti anche in tesi esclusi. D’altra parte, in tema di tutela della concorrenza e del mercato, ai sensi dell'art. 1 l. n. 287 del 1990 la definizione dei rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento interno è data dalla dimensione comunitaria o nazionale dell'illecito concorrenziale, nel senso che la cognizione dell'illecito comunitario è devoluta alla Commissione delle Comunità europee, mentre quella dell'illecito rilevante nel solo mercato nazionale – quand’anche la relativa condotta rientri nella previsione di un regolamento comunitario - spetta all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, di cui all'art. 10 della medesima legge (Cass. civ., sez. un., 29 aprile 2005, n. 8882), Autorità che, nella fattispecie in esame, ha qualificato l’ambito del mercato preso in considerazione come nazionale, con determinazione scevra da vizi, come sopra si è visto.

Avvalora la conclusione alla quale si è pervenuti anche il regolamento 1/2003/CE del Consiglio del 16 dicembre 2002 che, seppure entrato in vigore in epoca successiva a quella in cui si sono svolti i fatti di cui è causa, specifica, a chiarimento della ripartizione degli ambiti di rispettiva competenza tra Stati e Comunità, che gli Stati membri possono adottare e applicare nel proprio territorio norme nazionali più rigorose che vietino o sanzionino le condotte delle imprese.

In tal senso, la sentenza impugnata merita una precisazione ulteriore, laddove considera che i regolamenti di esenzione per categoria contribuiscono all’applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza, ragione per la quale sia i giudici nazionali che le Autorità degli Stati membri sono competenti a verificare direttamente se un’intesa soddisfi o meno le condizioni di applicazione del regolamento e possa, quindi, beneficiare di un’esenzione. Tale considerazione è del tutto condivisibile in via generale;
essa costituisce parametro di giudizio, peraltro, per il caso in cui sia stata riconosciuta dall’Autorità o dal giudice nazionale un’esenzione, mentre si rivela ultronea nel caso inverso, nel caso cioè in cui, come nella fattispecie in esame, non si tratti della legittimità di un’esenzione concessa o ritenuta legittima, ma, all’opposto, del giudizio di anticoncorrenzialità di una condotta.

VIII) Va, in conclusione, riconosciuto che la determinazione impugnata in primo grado ha operato una ricostruzione dei fatti ragionevole, in base ad un apparato istruttorio ampiamente sufficiente e pertinente, ed ha operato, altresì, una corretta qualificazione giuridica della fattispecie esaminata in base a valutazioni rigorose e attendibili: più in là non può spingersi il sindacato del giudice il quale, pur nell’ambito della giurisdizione esclusiva che gli compete ai sensi dell’art. 133 cod. proc. amm., non deve giungere fino ad esprimere proprie autonome scelte, perché altrimenti assumerebbe egli la titolarità del potere (Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 2004, n. 926).

Per tutti i motivi sopra illustrati, e per quelli evidenziati dalla sentenza impugnata, che il Collegio condivide e in ordine ai quali le censure delle appellanti non hanno apportato argomenti convincenti, gli appelli sono infondati, e devono essere respinti.

Non è luogo a pronuncia sulle spese, non essendosi costituite le controparti intimate.

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