Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2015-02-02, n. 201500468

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2015-02-02, n. 201500468
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201500468
Data del deposito : 2 febbraio 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 03891/2014 REG.RIC.

N. 00468/2015REG.PROV.COLL.

N. 03891/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3891 del 2014, proposto da:
Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture in persona del presidente in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Centro Meridionale Costruzioni s.r.l. in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dall'avvocato F L, con domicilio eletto presso Massimo Frontoni in Roma, via Guido d'Arezzo, 2;

nei confronti di

Unisoa s.p.a.;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III n. 2197/2014, resa tra le parti, concernente dichiarazione di decadenza attestazioni soa - annotazione nel casellario informatico - applicazione sanzione pecuniaria


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Centro Meridionale Costruzioni s.r.l.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 gennaio 2015 il consigliere Roberta Vigotti e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Fico e l’avvocato Liccardo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture (d’ora in avanti: Autorità) chiede la riforma della sentenza, in epigrafe indicata, con la quale il Tribunale amministrativo del Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla società Centro Meridionale Costruzioni avverso i provvedimenti relativi all’accertamento della colpa grave nell’utilizzazione di documentazione non veritiera per il conseguimento di specifiche attestazioni di qualificazione, a conclusione del procedimento ex art. 40, comma 9-ter, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 ( Codice degli appalti ), con conseguente decadenza dell’attestazione di qualificazione, inserimento della relativa notizia nel casellario informatico, anche agli effetti dell’art. 38, comma 1, lettera m-bis del medesimo decreto legislativo, e applicazione della sanzione pecuniaria di 3.000 euro.

I) La vicenda oggetto del ricorso ha preso avvio dalla verifica, da parte dell’organismo di attestazione Unisoa s.p.a., di due certificati di esecuzione lavori presso la stazione appaltante RFI s.p.a. e di un terzo presso la stazione appaltante Aeronautica Militare, da cui risultava la mancata conferma dei dati utilizzati dalla società Centro Meridionale Costruzioni per il rilascio delle attestazioni necessarie alla partecipazione alle gare;
nella documentazione risultata non veritiera sono state riscontrate alterazioni e difformità rispetto ai dati in possesso delle stazioni appaltanti, sostanzialmente riguardanti l’indicazione delle categorie di lavorazione (OG11 invece che OG1 e OS28 invece che OG1).

All’esito della verifica, la Unisoa ha comunicato all’Autorità la sussistenza dei presupposti per la decadenza delle attestazioni di cui trattasi (n. 161/31/00 e n. 3977/31/00), in quanto rilasciate sulla base di certificati di esecuzione lavori disconosciuti dalle stazioni appaltanti;
l’Autorità, a conclusione del procedimento avviato ai sensi dell’art. 40, comma 9 quater del Codice degli appalti, ha adottato il provvedimento sanzionatorio n. 200-S, avendo accertato l’imputabilità alla società, in termini di colpa grave, della presentazione, ai fini dell’ottenimento delle attestazioni Soa, di documentazione non comprovata. La società, in sostanza, non avrebbe attivato i controlli sulla corrispondenza dei dati riportati sui certificati, controlli esigibili in base al parametro della diligenza professionale di un operatore del settore. L’Autorità, quindi, ha irrogato la sanzione pecuniaria già specificata e ha intimato alla Unisoa di provvedere a dichiarare, ai sensi dell’art. 40, comma 9 ter del codice, la decadenza delle attestazioni di cui è causa, e delle successive emissioni.

II) Il Tribunale amministrativo del Lazio ha accolto il ricorso presentato dalla società sanzionata, avendo rilevato che il provvedimento impugnato in principalità risulta inficiato dai vizi di carenza di istruttoria e di motivazione. In sintesi, la sentenza in esame ha ritenuto non condivisibile l’assunto dell’Autorità, secondo il quale qualunque omissione di controllo che dà luogo all’utilizzo di documentazione poi rivelatasi non veritiera al fine del conseguimento di una attestazione di qualificazione si connota in quanto tale del requisito della gravità, “sia in quanto conseguente alla violazione dei doveri professionali di ordinaria diligenza esigibili nei confronti dell’imprenditore medio sia perché i relativi effetti si riversano su una attestazione caratterizzata da un’efficacia probatoria di particolare rilevanza e durata”.

Il primo giudice non ha condiviso tale impostazione, che ha ritenuto configurare il carattere oggettivo della gravità della colpa, individuabile, quindi, ogni qualvolta una documentazione rivelatasi poi non veritiera si riverbera sull’attestazione conseguibile dall’impresa, laddove l’art. 40, comma 9 quater d.lgs. n. 163 del 2006 dispone che l’indagine dell’Autorità deve incentrarsi in concreto sul comportamento specifico dell’agente.

Inoltre, secondo il Tribunale amministrativo, l’elemento soggettivo della colpa, cui fa riferimento la norma ora richiamata, non può essere valutato sugli effetti della condotta, ma deve soffermarsi unicamente sull’azione posta in essere dal soggetto interessato: nella fattispecie in esame, solo per l’appalto RFI l’Autorità risulta aver approfondito l’esame delle certificazioni sotto l’aspetto considerato, ma un solo episodio di omissione di controllo non giustifica l’esistenza della colpa grave.

III) L’appello svolto dall’Autorità è fondato.

Va innanzitutto rilevato che, come del resto sottolinea la sentenza in esame, il provvedimento impugnato si dà carico di argomentare circa il potenziale interesse dell’impresa agli esiti della rinvenuta contraffazione dei certificati di cui all’appalto RFI, rinvenendo, per uno, l’interesse ad essere ritenuta l’unica subappaltatrice (con omissione del secondo subappaltatore al 50%) e a far rientrare le diverse tipologie di interventi eseguiti nella sola categoria OG11, e, per l’altro, nell’interesse a vedersi riconosciuto l’intero importo. In relazione al terzo certificato di cui all’appalto dell’Aeronautica militare, in ordine all’indiscutibile alterazione della categoria delle lavorazioni (OS8 in luogo di OG1), l’Autorità ha rilevato, in sintesi, che la tesi dell’impresa, secondo cui ben potevano essere stati emessi due diversi certificati di esecuzione lavori, riportanti uno la categoria di lavorazioni effettivamente eseguita e l’altro la categoria risultante dal bando, è smentita dalla circostanza che la doppia emissione riporta la medesima data.

Non è, pertanto, condivisibile quanto ha ritenuto il primo giudice, nel senso che l’Autorità avrebbe recepito una definizione indiscriminata della colpa, svincolata dalle concrete risultanze del singolo caso esaminato, e derivante oggettivamente dalla mera considerazione degli effetti della condotta: al contrario, il provvedimento in esame ha considerato lo specifico comportamento tenuto dall’impresa e ne ha sottolineato la rilevanza in termini di colpa grave, consistente nell’omissione delle verifiche in ordine alla veridicità e al contenuto della documentazione presentata, sulla base del parametro della diligenza professionale. Come rileva l’appellante, nell’ambito degli accertamenti relativi all’imputabilità ai sensi dell’art. 40, comma quater del codice dei contratti, l’Autorità non ha i poteri necessari per svolgere accertamenti dettagliati e specifici in ordine all’elemento psicologico attinente alla consapevolezza e all’intenzionalità della falsità in capo all’utilizzatore del documento contraffatto, sicché la sussistenza del dolo è soltanto presumibile, sulla base del concreto interesse alla contraffazione. Nella fattispecie in esame (in disparte la carenza di interesse della società ricorrente in primo grado ad argomentare sul mancato accertamento del dolo nella condotta esaminata), nonostante che, per un certificato di esecuzione lavori, la stazione appaltante stessa avesse dichiarato che l’impresa aveva corretto la categoria riportata nel documento rilasciato a suo favore, l’Autorità non è giunta a evidenziare l’intenzionalità della condotta;
peraltro, l’accertata omissione delle verifiche esigibili in base all’ordinaria diligenza l’ha condotta, del tutto ragionevolmente, a formulare l’imputazione in termini di colpa grave. Del resto, il comportamento del soggetto che, dopo aver dichiarato il possesso dei requisiti necessari per la qualificazione, e prima di dimostrarne il possesso mediante la presentazione dei relativi certificati, non ne controlla il contenuto e la veridicità, è inequivocabilmente connotato da profili di negligenza, cioè di colpa, che, data la rilevanza, l’importanza e la durata temporale degli effetti riconnessi dalla legge alle attestazioni di cui è causa, non possono che essere qualificati come gravi, con ciò rispondendo al criterio indicato dal menzionato art. 40, comma 9 quater. Questa norma, infatti, specifica che la colpa grave (così come il dolo) può essere desunta dalla rilevanza o dalla gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, con ciò evidenziando un concetto di “colpa” del tutto indipendente dall’elemento soggettivo, e declinato unicamente sull’effetto e sulla portata della condotta in esame. Nella fattispecie in discorso, in cui la condotta imputata all’impresa consiste nell’omissione della diligenza professionale, la rilevanza dei fatti si colora di particolare rilievo dato che i necessari controlli non postulavano che la semplice consultazione della documentazione in possesso della stessa società interessata, in relazione ad elementi di facile rilevazione, come le categorie dei lavori effettivamente effettuati rispetto a quelle indicate nella documentazione presentata all’organismo Soa. Rispetto a questa considerazione, la circostanza, sottolineata dall’appellata, che tutti i tre certificati siano stati utilizzati per ottenere l’attestazione del 25 febbraio 2005 (mentre per le successive emissioni essa si è limitata a richiamare l’elenco dei certificati già prodotti), lungi dallo scolorire la rilevanza della condotta omissiva, ne corrobora anzi la connotazione di gravità nei termini di cui alla norma di riferimento, giacché ne sottolinea la perduranza degli effetti nel tempo.

Infine, neppure l’accertata non imputabilità all'impresa delle false dichiarazioni vale, comunque, a impedire l'adozione di un provvedimento di decadenza di un'attestazione rilasciata in base alla documentazione di cui sia oggettivamente emersa la non veridicità, poiché l'acclarata falsità oggettiva giustifica e impone — indipendentemente da ogni ricerca sull'imputabilità soggettiva del falso — il ritiro dell'attestazione di qualificazione rilasciata sulla base dei documenti riconosciuti come falsi (così Consiglio di Stato, sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5922).

IV) La rilevata fondatezza dell’appello non è scalfita dalle censure riproposte dalla società appellata, attinenti ai motivi assorbiti in primo grado.

La prima di esse riguarda la pretesa violazione del principio del contraddittorio, in quanto il Regolamento dell’Autorità in materia di procedimento ex art. 40, comma 9 quater (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 21 luglio 2011) consentirebbe al Consiglio di deliberare sulla eventuale esistenza della responsabilità prima che il privato abbia potuto svolgere compiutamente le proprie difese. La censura non ha pregio, sol che si consideri che il Regolamento prevede la comunicazione di avvio, la successiva attività istruttoria, l’audizione dell’impresa interessata prima dell’adozione del provvedimento finale, la comunicazione alla stessa del contenuto dell’emanando provvedimento, ove emergano elementi per la contestazione del dolo o della colpa grave, l’assegnazione di un termine per la presentazione di eventuali elementi probatori e/o memorie a difesa.

Come è evidente, lo svolgimento del procedimento prevede e consente, quindi, l’adeguata partecipazione dell’interessato;
né la pretesa violazione del diritto di difesa può essere riferita al caso di specie, in forza della mancata considerazione della memoria depositata dall’appellata a seguito della comunicazione del 23 gennaio 2013. Nel testo del provvedimento conclusivo l’Autorità dà infatti atto della presentazione di tale memoria, e la mancata valorizzazione delle tesi ivi contenute non significa la loro mancata considerazione, sicché nessun significato in tal senso può assumere la circostanza che il provvedimento conclusivo ricalchi le conclusioni assunte dal Consiglio nella ricordata seduta.

Neppure può essere valorizzata la durata del procedimento, che l’appellata, con il successivo motivo, assume sia stato concluso oltre il termine stabilito dall’art. 7 del citato Regolamento. Come ha stabilito questo Consiglio di Stato (per tutte, sez. VI, 27 febbraio 2012, n. 1084), il carattere della perentorietà può essere attribuito ad una scadenza temporale solo da una espressa norma di legge, sicché le conseguenze della decadenza della potestà amministrativa, o della illegittimità del provvedimento tardivamente adottato, “si potrebbero verificare, pure senza una norma ad hoc , solo ove un effetto legale tipico fosse collegato all'inutile decorso del termine, ma … non avrebbero senso nell'ipotesi generale, perché la cessazione della potestà, derivante dal protrarsi del procedimento, potrebbe nuocere all'interesse pubblico alla cui cura quest'ultimo è preordinato, con evidente pregiudizio della collettività" (Cons. Stato, VI, 19 febbraio 2003, n. 939;
Cons. giust. amm. 14 febbraio 2001, n. 77).

Tale orientamento, seguito dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, è stato anche autorevolmente avallato dalla Corte costituzionale, la quale in più occasioni ha precisato che il mancato esercizio delle attribuzioni da parte dell'Amministrazione entro il termine previsto per la fine del procedimento non comporta ex se , in difetto di espressa previsione, la decadenza del potere (Corte cost., 18 luglio 1997, n.262 e l7 luglio 2002, n. 355).

Deve quindi ribadirsi che, in assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell'Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio;
il suo superamento non determina, perciò, l'illegittimità dell'atto, ma una semplice irregolarità non viziante, poiché non esaurisce il potere dell'Amministrazione di provvedere: se tale conclusione vale con riferimento ad una norma di legge, è tanto più valida laddove, come nella fattispecie in esame, il termine finale sia stato previsto dalla stessa Amministrazione procedente.

V) In conclusione, l’appello è fondato e deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso di primo grado.

Le spese del giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

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