Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-08-06, n. 201404193
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N. 04193/2014REG.PROV.COLL.
N. 00746/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 746 del 2012, proposto da:
D.G.MAC. s.r.l., in persona del legale rappresentante
pro tempore,
rappresentata e difesa dagli Avvocati G S, F V, con domicilio eletto presso G S in Roma, via Luigi Luciani, 1;
contro
Comune di Crispano, in persona del Sindaco
pro tempore,
rappresentato e difeso dagli Avvocati F S, A O, con domicilio eletto presso A O in Roma, Via Alessandro III, 6;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA - NAPOLI: SEZIONE II n. 03014/2011, resa tra le parti, concernente diniego rilascio permesso di costruire.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Crispano;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 maggio 2014 il Cons. Giuseppe Castiglia e uditi per le parti gli Avvocati G S e G. Valla (su delega di A O e di F S);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La società D.G.MAC. s.r.l. è proprietaria di un suolo nel territorio del Comune di Crispano, sul quale insiste un edificio industriale dismesso, già destinato all’allevamento e alla macellazione dei pollami. Per la realizzazione sull’area di un complesso con destinazione residenziale, la società ha chiesto il rilascio del permesso di costruire, che l’Amministrazione comunale ha negato con provvedimento n. 1486 dell’11 febbraio 2010, ritenendo il progetto presentato non conforme alla normativa urbanistica della zona.
La società ha dunque impugnato l’atto di diniego - insieme con gli atti connessi e, per quanto occorra, il regolamento edilizio comunale in parte qua - proponendo ricorso che il T.A.R. per la Campania, sez. II, ha respinto con sentenza 8 giugno 2011, n. 3014.
La società ha interposto appello contro la sentenza chiedendone anche la sospensione dell’efficacia esecutiva.
L’appellante premette che l’area in discussione – classificata, secondo il P.R.G. vigente, come D3 (attività industriali e commerciali esistenti) – sarebbe completamente inglobata nella zona omogenea residenziale B3. In quanto tale, sarebbe oggetto di un particolare regime di salvezza, previsto dal piano per cinque fabbricati preesistenti collocati all’interno delle zone omogenee A e B. In particolare, l’art. 7 delle N.T.A. al P.R.G. - relativo alla zona A (vecchio centro), ma con previsione espressione di un principio generale e perciò applicabile anche alla zona B - contemplerebbe la conservazione delle industrie attualmente esistenti;se demolite, l’area sarebbe integrata e sottoposta alla normativa di zona in cui ricade.
1. Nel merito, con ampia argomentazione la società contesta l’interpretazione data dalla sentenza al P.R.G. comunale. Le norme di zonizzazione sarebbero dirette al futuro e non riguarderebbero l’uso esistente;in presenza di un preuso, impedirebbero ulteriori accrescimenti;dismessi e demoliti gli opifici considerati, riprenderebbe automaticamente in vigore la classificazione di zona circostante. D’altronde, se così non fosse, l’area della società sarebbe ingiustamente sottoposta a un regime di immodificabilità e inedificabilità assoluta, non potendo essere ripristinata la precedente destinazione d’uso né costruito un nuovo opificio e neppure un edificio residenziale. Il rischio di aumento del carico urbanistico, paventato dal T.A.R., sarebbe in concreto inferiore a quello connesso all’esercizio della precedente attività industriale e comunque comporterebbe solo l’onere di corrispondere i contributi previsti dalla legge. Infine, l’esclusione dell’area dal novero di quelle destinate a standard ne dimostrerebbe la piena suscettività edificatoria secondo i parametri propri della zona B3.
2. Il funzionario responsabile avrebbe del tutto omesso di valutare le controdeduzioni opposte dalla società al preavviso di provvedimento negativo. Ne sarebbe seguita la sostanziale elusione delle garanzie partecipative del privato al procedimento amministrativo. Questo motivo sarebbe stato trascurato dalla sentenza: da ciò, dunque, la censura di violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato.
3. L’appellante ripropone quindi i motivi considerati assorbiti dal giudice territoriale, replicando alle valutazioni di carenze documentali contestate dal Comune.
Alla camera di consiglio del 27 marzo 2012, la società appellante ha chiesto la riunione al merito della domanda cautelare, che tuttavia ha in seguito riproposto, sulla premessa di non essere riuscita a ottenere la fissazione dell’udienza di merito.
Il Comune di Crispano si è costituito in giudizio per resistere all’appello.
Con ordinanza 10 aprile 2013, n. 1303, la Sezione ha dichiarato inammissibile la nuova domanda cautelare.
In vista dell’udienza di discussione, le parti hanno depositato memorie, nelle quali sostanzialmente ribadiscono le proprie argomentazioni.
In particolare, la società appellante contesta la configurabilità di un’autonoma zona omogenea D3, che violerebbe il principio di tipicità delle zonizzazioni urbanistiche ( ex art. 7, n. 2 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e art. 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444) e rappresenterebbe un ibrido atipico tra le zone A e B, da un lato, e la zona D, dall’altro, esprimendo solo la funzione di tutela del preuso degli opifici preesistenti al P.R.G.
All’udienza pubblica del 27 maggio 2014, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.
DIRITTO
L’appello si fonda su una particolare lettura dell’art. 7 delle N.T.A. al P.R.G. del Comune, ricordato in narrativa. Questo – a dire della società appellante – esprimerebbe un principio generale, destinato a valere per tutte le diverse zone omogenee nelle quali si trovano i cinque edifici preesistenti, oggetto di una specifica clausola di salvezza, classificati come aree D3: una volta venuto meno l’edificio, la zona omogenea circostante si espanderebbe, ricomprendendo le aree in precedenza intercluse e assoggettandole alla medesima destinazione che a essa è propria.
La tesi appare come il probabile frutto di una petizione di principio e non può essere seguita.
L’art. 7, appena ricordato, pone una disciplina differenziata con un riguardo a un ambito territorialmente definito.
In termini letterali, la norma vale per quello che espressamente dice. Si limita, cioè, alla zona A - e anzi alla sola parte della zona denominata “vecchio centro”: art. 1 -;dunque nulla dispone per le aree esistenti nelle diverse zone residenziali B2 e B3 (quale è quella che qui viene in questione).
Proprio per i termini in cui è concepita, quella dell’art. 7 appare una disposizione singolare, pertanto non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica.
Nemmeno può essere fatta questione della legittimità di simile diverso trattamento, per come disposta dal piano. E ciò, sia per l’amplissima discrezionalità che – per giurisprudenza costante e salve specifiche eccezioni – caratterizza le scelte compiute in sede di pianificazione urbanistica, sia per l’assorbente ragione che il P.R.G. non è stato fatto oggetto di impugnativa per il profilo di specie.
Indipendentemente dalla sorte dell’edificio che sorge su di essa, l’area di sedime contestata mantiene comunque la classificazione D3 e rimane destinata a insediamento di attività industriali, commerciali o simili, sotto la disciplina dell’art. 13 N.T.A.
Del tutto a ragione, dunque, il Comune ha considerato la richiesta di permesso di costruire incompatibile con la destinazione urbanistica della zona e ne ha negato il rilascio.
Valgono, quanto al resto, le considerazioni svolte dal T.A.R., alle quali il Collegio, condividendole, ritiene sufficiente fare rinvio.
Dalle considerazioni che precedono, discende che – coma anticipato – l’appello è infondato e va perciò respinto, con conferma della sentenza di primo grado.
Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.
Le spese seguono la soccombenza, conformemente alla legge, e sono liquidate come da dispositivo.