Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-09-12, n. 201805349

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-09-12, n. 201805349
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201805349
Data del deposito : 12 settembre 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 12/09/2018

N. 05349/2018REG.PROV.COLL.

N. 09302/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9302 del 2014, proposto dalla società Isamarilina a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati A M e D M, elettivamente domiciliata presso il loro studio, in Roma, Corso Trieste, n. 109;

contro

Roma Capitale, in persona del Sindaco in carica pro tempore , rappresentata e difesa dall’avv. S S, elettivamente domiciliata presso la sede dell’avvocatura comunale in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per il Lazio - Roma, Sezione II bis , n. 3031 del 19 marzo 2014, resa inter partes , concernente risarcimento danni in seguito a diniego di permesso di costruire.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 luglio 2018 il consigliere Giovanni Sabbato e uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, gli avvocati D M e Nicola Sabato, su delega dichiarata di S S;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. La società Isamarilina a r.l. (in prosieguo la società) ha chiesto, davanti al T.a.r. per il Lazio - Roma, Sezione II bis , la condanna del Comune di Roma, in persona del suo legale rappresentante pro tempore , al risarcimento dei danni ex art. 30 del d.lgs. n. 104 del 2 febbraio 2010 nella misura di € 2.691.400,00

2. La società ha articolato tale domanda evidenziando che il Comune di Roma, dopo aver rilasciato la concessione edilizia n. 753/90 (ovverosia n. 753/C/91 e successive varianti in corso d’opera) per la realizzazione di box interrati, aveva respinto la domanda di permesso di costruire, avanzata nel 2003, per la edificazione di un edificio residenziale in area destinata a zona B, emettendo un provvedimento di diniego (determinazione dirigenziale n. 231/2003) annullato dal T.a.r. per il Lazio-Roma con la sentenza n. 8771 del 2008 passata in giudicato, all’esito della quale soltanto a seguito di approfondita istruttoria riesaminava l’istanza edificatoria alla luce della nuova disciplina urbanistica [art. 46, comma 3, lett. f) del nuovo PRG] nelle more intervenuta e ritenuta preclusiva con la determinazione dirigenziale n. 427/2011.

3. Costituitasi Roma Capitale, il Tribunale, con la sentenza in epigrafe (n. 3031 del 19 marzo 2014), ha così deciso:

- ha respinto il ricorso evidenziando che l’originaria concessione edilizia n. 753/90 era stata rilasciata a condizione che la parte sovrastante l’autorimessa (sviluppantesi su tre piani interrati) venisse sistemata a verde con riporti di terra vegetale e arredo urbano, in maniera da risultare tale sistemazione incompatibile con la realizzazione di un edificio sulla medesima area;

- ha compensato le spese di giudizio tra le parti.

4. In particolare, il Tribunale ha osservato che:

- “ la concessione edilizia n. 753/90 viene rilasciata, sul progetto proposto dalla ricorrente per la realizzazione di un’autorimessa sotterranea su area di proprietà […] sul presupposto dell’impegno a che la parte sovrastante l’autorimessa venisse sistemata a verde con opportuni riporti di terra vegetale e arredo urbano, sistemazione poi realizzata ed, evidentemente, incompatibile con la successiva realizzazione di un edificio sulla medesima area ”;

- “ la mancata realizzazione del progetto trova dunque un diretto ed autonomo nesso causale nella condizione a suo tempo imposta dall’amministrazione, ed espressamente accettata dalla ricorrente, che, ai fini di un diverso progetto edilizio poi effettivamente realizzato, imponeva una sistemazione a verde dell’area interessata, non compatibile con la successiva pretesa di realizzarvi invece un nuovo immobile ”;

- << l’assunzione di un atto d’obbligo ovvero l’accettazione di una condizione vincolante nell’ambito della realizzazione di un progetto edilizio da parte di un privato […] impedisce all’interessato di potersi successivamente dolere delle connesse limitazioni di nuove e diverse pretese di certezza del diritto e di tutela della buona fede, devono ritenersi necessariamente conformate ai predetti limiti, secondo il principio, connaturato ad ogni Stato di diritto “pacta sunt servanda” >>.

5. Avverso tale pronuncia la società ha interposto appello, ritualmente notificato il 5 novembre 2014 e depositato il 18 novembre 2014, articolando quattro motivi di gravame (pagine 19-47) nei termini di seguito sintetizzati:

I) il Tribunale è incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere posto a base della pronuncia reiettiva la sussistenza del patto d’obbligo sottoscritto in occasione del rilascio del permesso di costruire n. 753/C/91 non addotto dalla controparte al fine di contrastare la domanda risarcitoria;

II) il Tribunale ha inoltre violato il giudicato implicito formatosi in ordine alla mentovata sentenza del T.a.r. per il Lazio n. 8771 del 2008 “ sulla irrilevanza del patto d’obbligo assunto dalla ricorrente ai fini del rilascio del permesso di costruire ”;

III) il Tribunale ha indebitamente attribuito alla predetta pattuizione una efficacia che trascende il procedimento amministrativo sfociato nella concessione n. 753/C/91 tanto da configurare una servitus altius non tollendi sganciata dai principi che ne autorizzano la costituzione ”;

IV) vengono quindi riproposti i motivi di diritto sollevati in prime cure intese a configurare i presupposti dell’illecito aquiliano lesivo della posizione giuridica dell’appellante secondo i suoi elementi costitutivi soggettivi e oggettivi evidenziando, tra l’altro, che “ a fronte dello jus superveniens opposto dalla P.A, non è risultato più conseguibile il titolo edilizio a costruire (ovvero il bene della vita) ”.

6. In data 24 novembre 2014 Roma Capitale si è costituita in giudizio con memoria di stile.

7. In data 23 maggio 2018 la difesa dell’Amministrazione appellata ha depositato documentazione ritenuta utile ai fini del giudizio.

8. In vista della trattazione nel merito del ricorso, entrambe le parti hanno presentato memorie insistendo per le rispettive conclusioni;
la difesa comunale ha in particolare reiterato le eccezioni di tardività, secondo il termine di cui all’art. 30 c.p.a., e di inammissibilità della domanda risarcitoria per la mancata impugnazione nel termine di 60 giorni della d.d. n. 427 dell’11 maggio 2011, con la quale è stata respinta l’istanza di riesame.

9. Il ricorso, discusso alla pubblica udienza del 5 luglio 2018, non merita accoglimento.

9.1. L’infondatezza dell’appello consente alla Sezione di prescindere dalla disamina delle eccezioni in rito sollevate dalla difesa di Roma Capitale.

9.2. Prima di accedere alla disamina delle critiche sollevate con l’appello in esame occorre ripercorrere i passaggi salienti della vicenda di causa nei termini che seguono:

a) con D.D. n. 1634 del 30 novembre 1990 la Regione Lazio rilasciava, su progetto della società appellante, autorizzazione ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939 per la realizzazione di un’autorimessa sotterranea su area di proprietà sita in Roma, via Macedonia n. 106;

b) tale autorizzazione conteneva l’espressa condizione che la parte sovrastante l’autorimessa venisse sistemata a verde mediante riporti di terra vegetale e arredo urbano;

c) la società, dietro parere favorevole della Soprintendenza accompagnato dalle medesime prescrizioni impartite dalla Regione Lazio, conseguiva il permesso di costruire n. 753 del 20 aprile 1991, con il quale veniva autorizzata la realizzazione di un’autorimessa con la predetta condizione;

d) tale sistemazione veniva realizzata ad opera della società costruttrice tanto da trasformare l’area secondo la destinazione assegnatagli;

e) la società presentava quindi istanza, acquisita al protocollo dell’Ufficio Comunale con n. 3275/2003, al fine di ottenere un permesso di costruire per la realizzazione di un edificio residenziale in sopraelevazione del parcheggio interrato già autorizzato con concessione n. 753/91 e realizzato ai sensi della legge n. 122/89, nell’immobile sito in Roma alla via Macedonia;

f) tale istanza, in data 4 febbraio 2003, veniva respinta poiché ritenuta in contrasto con l’art. 5 delle NTA del 1965;

g) con sentenza del T.a.r. per il Lazio – Roma n. 8771 del 6 ottobre 2008, detto diniego veniva annullato in quanto fondato su una previsione urbanistica, il citato art. 5, ormai espunto dall’ordinamento a seguito della pronuncia di questo Consiglio n. 17 del 1978, con conseguente ordine di riesame rivolto all’Amministrazione comunale;

h) dopo aver disposto la riapertura dell’istruttoria, con nota prot.n. 57897 del 9 settembre 2009, ed acquisiti i pareri necessari (anche a mezzo di Conferenza di Servizi), l’istanza edificatoria veniva nuovamente respinta con D.D. n. 427 dell’11 maggio 2011 rilevando profili di contrasto con il nuovo P.R.G., approvato dal Consiglio comunale in data 12 febbraio 2008.

9.3. I motivi di appello sollevati con il gravame in esame, siccome intimamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente e disattesi.

L’appellante lamenta che il Giudice di prime cure avrebbe travalicato i limiti entro i quali potevano spiegarsi le proprie competenze decisionali sia per il mancato rispetto della domanda giurisdizionale rivoltagli, ex art. 112 c.p.c., sia per aver violato il giudicato implicito formatosi in ordine alla sentenza n. 8771 del 2008. Il Tribunale, a parere della parte appellante, avrebbe poi operato la innaturale commistione tra il procedimento innescato dalla domanda edificatoria tardivamente delibata e quello sfociato nella originaria concessione edilizia n. 753/C/91.

9.4. La disamina di tali prospettazioni richiede l’analisi della disciplina di riferimento che governa l’intrapresa azione risarcitoria. L’appellante lamenta che l’irrealizzabilità del progetto per il sopravvenuto contrasto con il su richiamato art. 46 non sarebbe stata opponibile alla società ove l’Amministrazione si fosse tempestivamente e legittimamente pronunciata sulla domanda edificatoria del 16 gennaio 2003 così articolando un’azione di risarcimento per danno da ritardo colposo.

Orbene, una domanda siffatta, secondo il costante orientamento seguito in sede pretoria, è riconducibile al paradigma dell’art. 2043 c.c., alla stessa stregua del risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, sulla base della considerazione che il tempo dell’azione amministrativa non costituisce un bene della vita a sé stante e pertanto la situazione soggettiva lesa è l’interesse legittimo pretensivo (Cons. Stato, Ad. Plen., 15 settembre 2005, n. 7). Questo Consiglio ha più di recente rilevato, che “ Ai fini della sussistenza della responsabilità dell'Amministrazione Pubblica per i danni che il privato ha subito a causa della ritardata emanazione di un provvedimento favorevole, rilevano gli stessi elementi dettati dal paradigma generale dell'illecito aquiliano di cui all' art. 2043 cod. civ. ” (Cons. Stato, sez. V, 18 giugno 2018, n. 3730). L’inquadramento giuridico della domanda risarcitoria ha inevitabili riflessi processuali, in quanto, come del pari rilevato da questo Consiglio, la riconduzione della pretesa risarcitoria relativa al danno da ritardo allo schema generale dell’art. 2043 c.c. comporta “ l’applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo, sancito in generale dall' art. 2697 comma 1, c.c. , opera con pienezza, e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento;
il risarcimento del danno da ritardo, relativo ad un interesse legittimo pretensivo, implica una valutazione concernente la spettanza del bene della vita e deve, quindi, essere subordinato, tra l'altro, anche alla dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole e, quindi, alla dimostrazione della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse e, di conseguenza, non è di per sé risarcibile il danno da mero ritardo
” (cfr. Cons. Stato sez. IV, 17 gennaio 2018, n. 240;
30 giugno 2017, n. 3222;
9 febbraio 2017, n. 563;
28 dicembre 2016, n. 5497;
12 novembre 2015, n. 5143).

9.5. Tali coordinate interpretative che presiedono all’applicazione del principio di responsabilità sono state ribadite ed ulteriormente argomentate di recente da questa Sezione (Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2018, n. 3657;
v. anche sez. VI, 10 luglio 2017, n. 3392) osservando che le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, con la nota pronuncia n. 500 del 1999, capostipite di tutta la giurisprudenza successiva, hanno evidenziato “ come sia possibile pervenire al risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo soltanto se l'attività illegittima della pubblica amministrazione abbia determinato la lesione del bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. Il rilievo centrale, quindi, è assunto dal danno, del quale è previsto il risarcimento qualora sia ingiusto, sicché la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria ma non sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. in quanto occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima e colpevole dell'amministrazione pubblica, l'interesse materiale al quale il soggetto aspira. E' soltanto la lesione al bene della vita, infatti, che qualifica in termini di "ingiustizia" il danno derivante dal provvedimento illegittimo e colpevole dell'amministrazione e lo rende risarcibile. La pretesa al risarcimento del danno ingiusto derivante dalla lesione dell'interesse legittimo, insomma, si fonda su una lettura dell'art. 2043 c.c. che riferisce il carattere dell'ingiustizia al danno e non alla condotta, di modo che presupposto essenziale della responsabilità non è tanto la condotta colposa, ma l'evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall'ordinamento ed affinché la lesione possa considerarsi ingiusta è necessario verificare attraverso un giudizio prognostico se, a seguito del corretto agire dell'amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente spettato al titolare dell'interesse. In particolare, per gli interessi pretensivi, occorre stabilire se il pretendente sia titolare di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la conclusione positiva del procedimento, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile era destinata, in base a un criterio di normalità, ad un esito favorevole. L'obbligazione risarcitoria, quindi, affonda le sue radici nella verifica della sostanziale spettanza del bene della vita ed implica un giudizio prognostico in relazione al se, a seguito del corretto agire dell'amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente o probabilmente ( cioè secondo il canone del "più probabile che non") spettato al titolare dell'interesse;
di talché, ove il giudizio si concluda con la valutazione della sua spettanza, certa o probabile, il danno, in presenza degli altri elementi costitutivi dell'illecito, può essere risarcito, rispettivamente, per intero o sotto forma di perdita di chance
”. Va conclusivamente rilevato sul punto che l’azione risarcitoria è suscettibile di essere favorevolmente apprezzata quanto sia stato positivamente dimostrata la spettanza del bene della vita e ciò sulla base di una linea interpretativa, innescata dalla Suprema Corte, che riconnette l’ingiustizia al danno invece che alla condotta, come invece precedentemente opinato, e tale indefettibile presupposto si traduce, in caso di danno da ritardo, nella necessaria “ dimostrazione che l'aspirazione al provvedimento sia destinata ad esito favorevole ” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17 gennaio 2018, n. 240).

9.6. Nella fattispecie in esame non è quindi priva di rilievo la circostanza, correttamente valorizzata dal Tribunale, dello stridente contrasto tra la domanda edificatoria e l’atto d’obbligo che ha accompagnato il rilascio del titolo edilizio originario avendo di mira l’appellante la realizzazione delle opere in progetto sull’area da destinare a verde pubblico secondo le prescrizioni dell’Autorità preposta alla tutela del paesaggio.

9.7. Non ricorre pertanto il vizio di extrapetizione, in quanto si palesa un obiettivo collegamento tra la domanda edificatoria ed il precedente permesso di costruire del 1991, tanto che il suo rilascio costituiva un elemento in fatto posto a sostegno dell’azione risarcitoria proposta in primo grado. Né può configurarsi la violazione del pronunciamento del T.a.r. per il Lazio, essendosi tale Giudice limitato a verificare l’inattitudine della norma urbanistica, ormai espunta dall’ordinamento, a sostenere il diniego interposto dall’Amministrazione comunale senza compiere alcuna valutazione circa la conformità dell’intervento con la restante disciplina urbanistica e/o paesaggistica. In altre parole il perimetro del decisum non comprendeva altro che la perdurante vigenza della norma urbanistica avendo questa fondato l’impugnato provvedimento di diniego e pertanto non è tale estendersi anche ad altre questioni che costituiscano “ presupposto logico essenziale ed indefettibile della decisione stessa ” (Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd. 27 febbraio 2015 n. 159)

9.7.1. Il tenore dei rilievi sollevati dall’appellante impone di verificare la tassonomia delle modalità di intervento del giudice amministrativo nelle controversie risarcitorie alla luce del principio della domanda che, come ribadito di recente dall’Adunanza plenaria (sentenze nn. 4 e 5 del 2015), vale come principio generale da applicare, per effetto del rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a., anche al rito amministrativo attraverso il combinato disposto di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c.. Ebbene, se nelle domande impugnatorie il perimetro delle competenze decisionali del giudice amministrativo è tracciato dalla parte ricorrente attraverso la enucleazione dei motivi di ricorso e la loro eventuale graduazione, ciò non può accadere anche nel caso di proposizione di una domanda di risarcimento del danno involgendo questa la descrizione di un fatto illecito secondo i suoi indefettibili elementi costitutivi. La domanda risarcitoria è unica, invece che articolata secondo distinti motivi di censura rispetto ad un atto che si presume legittimo, di tal che il giudice è chiamato a verificare la effettiva sussistenza del fatto illecito, nella sua integrale latitudine, alla luce degli elementi di prova forniti dall’attore in adempimento dell’onere allo stesso incombente. Poiché tra gli elementi costitutivi, come sopra rilevato, ricorre la spettanza del bene della vita, il giudice, investito dalla domanda risarcitoria, non può esimersi dal verificarne la sua sussistenza proprio in ragione della domanda proposta.

9.8. L’appellante, nel criticare ulteriormente la sentenza impugnata, lamenta, valorizzando i riflessi civilistici della vicenda, che il Tribunale avrebbe assegnato all’atto d’obbligo, quale pattuizione inter partes , una “stravagante” valenza ultrattiva cioè al di fuori della posizione soggettiva coinvolta dal procedimento amministrativo conclusosi con il rilascio della concessione edilizia n. 753/C/91 nonché una servitù di non sopraelevazione in mancanza degli elementi costitutivi che tale fattispecie necessita.

9.8.1. Nemmeno tali rilievi sono convincenti.

9.8.2. Giova premettere, in punto di natura giuridica della fattispecie consensuale associata al titolo edilizio che i cd. “ atti d’obbligo ”, con i quali i privati, in vista e a fronte dell’emanazione del titolo edilizio, assumono obbligazioni volta a volta di fare o di dare, non rivestono autonoma efficacia negoziale, in quanto confluiscono nel procedimento edilizio e con esso sono funzionalmente collegati, divenendone elemento accidentale, così da risultare attratti alla giurisdizione esclusiva amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre 2013, n. 5628). La valenza almeno indirettamente pubblicistica della fattispecie consente di escludere che essa abbia una valenza cogente soltanto inter partes in quanto inerisce in modo indissolubile all’atto autorizzativo che abilita all’esercizio allo jus aedificandi cosicché non può essere trasgredito senza che ciò non refluisca sull’atto abilitativo. In altre parole l’atto d’obbligo, poiché rimane connaturato al titolo edilizio tanto da condizionarne gli effetti, è destinato a conformare la posizione giuridica del soggetto abilitato introducendo limiti, obblighi o divieti con effetti erga omnes che trascendono il singolo procedimento cui il titolo inerisce.

9.8.3. Nemmeno è dato configurarsi, secondo le prospettazioni dell’appellante, un’atipica servitus altius non tollendi , in quanto il rilascio del titolo edilizio per la realizzazione di un’autorimessa completamente interrata, con l’obbligo di attrezzare a verde l’area sovrastante, non avendo il manufatto autorizzato alcuna proiezione in altezza, comporta un vero e proprio divieto di edificare in esecuzione del vincolo consensualmente assunto.

10. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.

11. Le spese del giudizio di appello seguono la soccombenza e, liquidate complessivamente in euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre accessori di legge, sono poste a carico dell’appellante e a favore dell’amministrazione appellata.

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