Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2023-05-08, n. 202304596

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2023-05-08, n. 202304596
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202304596
Data del deposito : 8 maggio 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 08/05/2023

N. 04596/2023REG.PROV.COLL.

N. 02169/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2169 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato V D, domiciliato presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro 13;

contro

Comune di -OMISSIS- (Na), non costituito in giudizio;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Seconda) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’accertamento dell'esistenza in capo al ricorrente del permesso di costruire e/o per l'annullamento della delibera di adozione del P.U.C., nella parte in cui è stata assegnata al suolo di proprietà la destinazione “B2”.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2023 il Cons. Luigi Furno e uditi per la parte appellante l’avvocato Duello, come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

I fatti rilevanti ai fini del decidere possono essere riassunti come segue.

Con istanza prot. n. 21349 del 13 giugno 2008 il sig. -OMISSIS- chiedeva al Comune di -OMISSIS- il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di un capannone a carattere commerciale/artigianale sul suolo riportato nel catasto dei terreni al foglio di mappa -OMISSIS- particella -OMISSIS-, ricadente in Zona "G" (Commerciale Terziaria di Supporto Autostradale) del P.R.G. approvato con decreto del Presidente della Giunta Regionale in data 16 novembre 1987.

Il Comune di -OMISSIS-, con nota prot. U/2842/PT del 21 dicembre 2009:

- comunicava al sig. -OMISSIS- “che dall’istruttoria della pratica così come integrata e della normativa soprarichiamata, si evince che la pratica è conforme alla normativa vigente”;

- rappresentava che “per procedere al rilascio del P.d.C. in oggetto, è necessario che siano versati i seguenti importi i quali dovranno essere versati prima della stipula della convenzione”;

- infine, richiedeva «di precisare il numero del personale residente nel Comune di -OMISSIS- che si prevede di assumere in rapporto al numero totale del personale da assumere».

Il sig. -OMISSIS- ricorreva dinanzi al Tribunale amministrativo per la Campania, contestando la quantificazione degli importi relativi agli oneri urbanizzazione e di costruzione contenuti nella predetta nota.

Il ricorso veniva accolto con sentenza -OMISSIS-, nella quale si riconosceva che la realizzazione dei parcheggi obbligatori, nella misura richiesta dalla legge, era esonerata dall'onere di pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.

Nelle more del giudizio, il Comune di -OMISSIS-, con delibera consiliare n. 16 del 31 maggio 2012, adottava il P.U.C., assegnando all'area in esame la destinazione "B2", ovvero “satura residenziale di fatto per abusivismo edilizio, soggetta ai piani di recupero ai sensi della L. 47/85”.

Con ulteriore ricorso al Tribunale per la Campania, il sig. -OMISSIS- chiedeva l’accertamento dell’avvenuto perfezionamento del procedimento di rilascio del titolo edilizio in data anteriore all’adozione del P.U.C., per effetto della predetta comunicazione del 21 dicembre 2009.

In subordine, impugnava la delibera di adozione del P.U.C. nella parte relativa alla classificazione del proprio terreno. A sostegno della domanda di annullamento adduceva che l’amministrazione avesse immotivatamente respinto in blocco la sua e tutte le altre osservazioni presentate dai proprietari incisi dal piano ed avesse omesso di richiedere, pur essendovi tenuto in qualità di comune situato in zona sismica, il necessario parere del competente ufficio tecnico regionale ai sensi dell’art. 89, comma 1, del D.P.R. n. 380/01

Con delibera di Giunta comunale n. 111 del 19 settembre 2013 veniva adottato un nuovo P.U.C. che imprimeva all’area in esame la nuova destinazione urbanistica “U4.r – Insediamenti residenziali in contesto U4” ragione per la quale, il ricorrente, ravvisando un’incompatibilità della sua richiesta di permesso di costruire con le sopravvenute previsioni urbanistiche, proponeva motivi aggiunti finalizzati ad impugnare anche il nuovo piano, in base alle considerazioni per cui l’amministrazione non gli aveva comunicato il provvedimento di sospensione del procedimento di rilascio del titolo edilizio, in applicazione delle misure di salvaguardia , per contrasto con l’asserito anteriore perfezionamento del permesso di costruire, per l’esistenza di plurimi profili di illegittimità della contestata scelta pianificatoria e, infine, per l’omessa acquisizione del parere ex art. 89, comma 1, del D.P.R. n. 380/01.

Il Comune di -OMISSIS-, in data 12 giugno 2014, si costituiva in resistenza nel giudizio di primo grado per il tramite di una memoria con la quale chiedeva di dichiarare il ricorso infondato nel merito.

Con provvedimento dirigenziale prot. U 224/PT del 3 febbraio 2016, infine, il Comune rigettava definitivamente la domanda di permesso di costruire in base all’argomento per cui, ai fini del rilascio del titolo abilitativo, occorreva la previa adozione di un piano attuativo.

Il ricorrente, quindi, impugnava, con un nuovo atto per motivi aggiunti, anche quest’ultimo provvedimento di cui lamentava la contraddittorietà con la comunicazione del 21 dicembre 2009, a suo dire espressiva di un provvedimento implicito di accoglimento dell’istanza di permesso di costruire.

Da ultimo, con memoria del 30 maggio 2016, il ricorrente rappresentava che, a seguito del parere contrario espresso dalla Provincia di Napoli, il PUC era stato rielaborato ed adottato nuovamente con deliberazione n. 9 del 28 gennaio 2016 con la quale veniva assegnata all'area di sua proprietà una destinazione ancora una volta incompatibile con quella in base alla quale era stata presentata l’istanza di permesso di costruire;
tuttavia, soggiungeva che, in considerazione del fatto che la rielaborazione del PUC era avvenuta oltre il termine perentorio fissato, a pena di decadenza, dal regolamento regionale n. 5/2011sicché, il relativo strumento urbanistico sarebbe venuto meno.

Da qui il suo perdurante interesse a veder annullato l'atto di rigetto della richiesta di permesso di costruire.

Il Tribunale amministrativo per la Campania, con la sentenza appellata, ha respinto il ricorso.

Appare utile ripercorrere, nei suoi tratti essenziali, i principali passaggi argomentativi attraverso i quali il giudice di prime cure è giunto alla predetta statuizione reiettiva.

In Tribunale Amministrativo Regionale ha, in particolare, ritenuto:

-che, nel caso sottoposto al suo esame, contrariamente a quanto statuito nei precedenti richiamati dalla parte ricorrente, non può sostenersi che con la nota del dicembre 2009 l’amministrazione abbia espresso, implicitamente , la propria valutazione definitiva sulla domanda di permesso di costruire, consumando il relativo potere. Mancherebbe, invero, nella predetta nota un’espressa manifestazione di accoglimento dell’istanza come dimostrerebbe il suo oggetto recante una mera “richiesta integrazione”. Essa assumerebbe mero valore endoprocedimentale come ulteriormente attesterebbe la richiesta «di precisare il numero del personale residente nel Comune di -OMISSIS- che si prevede di assumere in rapporto al numero totale del personale da assumere». Da questa premessa il giudice di primo grado fa discendere il rigetto di tutte le censure che, nel ricorso introduttivo e nei motivi aggiunti, fanno leva sulla tesi dell’avvenuto rilascio di un provvedimento abilitativo implicito, compreso il motivo con cui si sostiene che il diniego di permesso di costruire adottato col provvedimento prot. U 224/PT del 3 febbraio 2016 costituirebbe atto di ritiro illegittimo, sotto qualsiasi forma, del titolo edilizio asseritamente già formatosi nel 2009:

- ha dichiarato improcedibili tutti i motivi aggiunti con i quali sono stati censurati i PUC adottati nel 2012 e nel 2013, essendo gli stessi sono venuti meno nelle more;

- infine, con riferimento all’ultimo atto per motivi aggiunti, con il quale è stata lamentata l’illegittimità del provvedimento di diniego del permesso di costruire, ha osservato che quest’ultimo provvedimento è stato adottato dall’amministrazione in conformità alla più recente giurisprudenza della Sezione (viene a tal fine richiamato il precedente di TAR Campania, Napoli, sez. II, 11 settembre 2015, n. 4424), che nelle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea (anche abusiva), ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di recupero o completamento della zona, non è applicabile il principio giurisprudenziale secondo cui, prescindendo dalla preventiva redazione del piano attuativo prevista dal vigente strumento urbanistico, è consentito l'intervento costruttivo diretto purché si accerti la presenza sull’intero comprensorio di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria, tale da rendere del tutto superflua o inutile la formazione dello strumento attuativo (essendo state completamente realizzate le finalità cui quest’ultimo è preordinato). Né per giungere a diverse conclusioni, argomenta ulteriormente il giudice di primo grado, sarebbe possibile valorizzare la possibilità di edificare attraverso lo strumento della “concessione edilizia convenzionata”, quando il grado di urbanizzazione può dirsi sufficiente (cfr. deliberazione Comm. Straord. n. 111 del 4 aprile 2006) sulla base di una perizia giurata a firma di un tecnico abilitato e salva l’ulteriore verifica del reale grado di urbanizzazione a cura del competente ufficio comunale, perché siffatti presupposti sono stati invocati dal ricorrente in via puramente astratta, senza allegare e tanto meno provare che anche la richiesta di permesso di costruire di cui in questa sede si tratta fosse, in effetti, una domanda presentata ai sensi di quella disciplina ed idonea a soddisfarne le condizioni per il rilascio del titolo edilizio.

Tale decisione è oggetto del presente giudizio di appello.

L’appellante contesta la pronuncia di primo grado, riproponendo e sviluppando parte dei motivi del ricorso di primo grado.

Il Comune di -OMISSIS- non si è costituito nel presente giudizio.

All’udienza dl 23 febbraio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

L’appello è infondato per le ragioni che seguono.

Con il primo motivo di appello vengono dedotti i seguenti vizi: “ error in iudicando e in procedendo ;
omesso esame di un punto decisivo della controversia;
violazione del principio della domanda e del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato;
motivazione insufficiente ed illogica.”

Assume in particolare l’appellante che, secondo un autorevole indirizzo giurisprudenziale, nel caso in cui la determinazione della P.A. abbia un contenuto sintomatico della manifestazione di volontà di accoglimento della domanda di concessione, il rilascio del documento formale di concessione edilizia, pur necessario, diventa atto esecutivo e dovuto, a contenuto ricognitivo, che conterrà elementi che incidono solo sull’efficacia e non sull’esistenza e validità della concessione medesima (vengono in particolare richiamati i precedenti costituiti dalla decisione del T.A.R., Abruzzo, Pescara, I^, 13.12.2011, n. 693 e del C.d.S., sez. IV, 30.6.2005, n. 3594).

Ad ulteriore sostegno della propria impostazione la parte appellante evidenzia che se la nota del 21.12.2009 avesse avuto carattere endo-procedimentale, il ricorso (rg. -OMISSIS-) promosso avverso la pretesa di pagamento degli oneri concessori non sarebbe stato accolto, ma sarebbe stato dichiarato inammissibile per mancanza dell’attualità e concretezza della lesione.

Inoltre, ad avviso dell’odierno appellante, del tutto erronea sarebbe l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui la nota de qua sarebbe una mera “richiesta integrazione”.

E ciò in quanto il titolo della predetta nota non corrisponderebbe al suo contenuto, dal momento

che nella comunicazione del 2009 non vi sarebbe alcuna richiesta di integrazione documentale.

Sotto tale profilo, non potrebbe assumere la valenza di una richiesta di integrazioni quella parte del della nota del 2009 in cui ai afferma <<...che «per procedere al rilascio del P.d.C. in oggetto, è necessario che siano versati i seguenti importi i quali dovranno essere versati prima della stipula della convenzione», e, dall’altro, si rivolge ancora a chiedere “di precisare il numero del personale residente nel Comune di -OMISSIS- che si prevede di assumere in rapporto al numero totale del personale da assumere”>>.

Ad avviso della parte appellante, infatti, il Tribunale amministrativo per la Campania in più occasioni avrebbe espresso il principio per cui, ove sopravvenga l’adozione di una strumento urbanistico generale, le condizioni la domanda di permesso di costruire in precedenza presentata possa trovare favorevole definizione sono due: che l’intervento edilizio sia conforme al piano vigente ed inoltre che non sia in contrasto con il piano adottato (tra le tante: sentenza 30.5.2014, n. 3026 e 3031 riguardanti dinieghi di permessi di costruire manufatti in zona G e D2 del P.R.G. del Comune di -OMISSIS-).

Alla luce di tale formante giurisprudenziale, osserva l’appellante, e in considerazione del fatto che la domanda di rilascio del permesso di costruire si poneva in contrasto sia col P.U.C. del 2012 che con quello del 2013, sarebbe stato un vero azzardo versare gli oneri quantificati nella comunicazione del 2009, peraltro in costanza di un ricorso giurisdizionale finalizzato proprio alla contestazione della relativa quantificazione.

In relazione a questi ultimi argomenti il Giudice di primo grado, deduce ulteriormente la parte appellante, non si sarebbe pronunciato.

Il motivo è infondato.

È destituita di fondamento la tesi dell’appellante secondo cui il permesso di costruire sarebbe stato adottato implicitamente dall’amministrazione.

Come noto, secondo un costante indirizzo interpretativo, nel diritto amministrativo si ammette la sussistenza del provvedimento implicito quando la P.A., “pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente, congiungendosi tra loro i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e della possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà” (C.d.S., A.P. 20 gennaio 2020, n. 3;
Sez. VI, 2 novembre 2020, n. 6732;
id., 27 novembre 2014, n. 5887;
Sez. V, 24 gennaio 2019, n. 589;
id., 19 febbraio 2018, n. 1034;
Sez. IV, 24 aprile 2018, n. 2456).

E’ stato ulteriormente precisato sul punto che la presenza di un atto implicito possa “desumersi indirettamente ma univocamente da altro provvedimento o dal comportamento esecutivo dell’amministrazione, di modo che esso se ne possa dire l’antecedente dal punto di vista logico – giuridico” (C.d.S., Sez. V, 19 aprile 2019, n. 2543) e come si abbia un atto implicito “le quante volte (….) emerga senza equivoco un collegamento biunivoco tra l’atto adottato o la condotta tenuta e la determinazione che da questi si pretende di ricavare, onde quest’ultima sia l’unica conseguenza possibile della presupposta manifestazione di volontà” (C.d.S., Sez. V, n. 589/2019, cit.).

Nulla di tutto ciò è dato rinvenire nella fattispecie in esame.

Depongono decisamente in senso difforme rispetto alla prospettazione dell’appellante:

- la circostanza per cui, ai fini del rilascio del permesso di costruire sono prescritti determinati requisiti formali, quali l’indicazione dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori, e quindi l’atto non può desumersi da altro atto, dovendo avere espressamente un certo contenuto, come emerge chiaramente dall’art. 15, d.p.r n. 380/2001;

- l’art. 11 della legge n. 10/77 che riporta al momento del rilascio del permesso di costruire la determinazione degli oneri concessori;

- il fatto che non ricorre, nel caso di che trattasi, la fattispecie esaminata dal precedente n. 3594/2005 di questo Consiglio, atteso che in quest’ultima decisione si era verificata la circostanza, esclusa nel caso qui in esame, per cui l'Amministrazione comunale, aveva formalmente comunicato al richiedente che la sua domanda “è stata accolta alle seguenti condizioni e prescrizioni …”. Di contro, nel caso oggetto della presente l’amministrazione, con una comunicazione che reca per oggetto una mera richiesta integrazione si è limitata a chiarire che “ dall’istruttoria della pratica così come integrata e della normativa soprarichiamata, si evince che la pratica è conforme alla normativa vigente»), puntualizzando ulteriormente che «per procedere al rilascio del P.d.C. in oggetto, è necessario che siano versati i seguenti importi i quali dovranno essere versati prima della stipula della convenzione», e, richiedendo all’odierno appellante inoltre «di precisare il numero del personale residente nel Comune di -OMISSIS- che si prevede di assumere in rapporto al numero totale del personale da assumere». Proprio tali ulteriori richieste documentali depongono decisamente in favore della natura meramente endo-procedimentale della comunicazione in esame.

Né a diverse conclusioni è possibile giungere valorizzando, come fa la parte appellante, l’argomento per cui se la nota del 21.12.2009 avesse avuto carattere meramente endoprocedimentale, il ricorso recante rg. N. -OMISSIS- promosso avverso la pretesa di pagamento degli oneri concessori non sarebbe stato accolto, ma sarebbe stato dichiarato inammissibile per mancanza dell’attualità e concretezza della lesione.

L’argomento, per quanto suggestivo, non è idoneo a sostenere la tesi che intende far valere. In senso contrario la Sezione osserva che in taluni casi anche l’atto infraprocedimentale è suscettibile di immediata impugnazione.

Vero è che, in linea di massima, un atto endoprocedimentale non è impugnabile in via autonoma, in quanto la lesione della sfera giuridica del destinatario è di regola imputabile all'atto che conclude il procedimento (ex pluribus Cons. Stato, sez. VI, 28 giugno 2016, n. 2862).

Tuttavia questa regola generale subisce eccezioni in casi particolari, in relazione ad atti di natura vincolata idonei a determinare in via inderogabile il contenuto dell'atto conclusivo del procedimento ovvero, come nella specie, ad atti interlocutori che comportino un arresto procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 296;
sez. V, 6 ottobre 2009 n. 6094;
sez. IV, 16 maggio 2011, n. 2961;
sez. IV, 4 dicembre 2012, n. 6188).

Questo è precisamente quanto si è verificato nel caso di specie, in cui la nota del Comune di -OMISSIS- recante una richiesta di integrazione ha prodotto un arresto del procedimento di rilascio del permesso di costruire.

Con un secondo motivo di appello viene lamentato l’errore di giudizio contenuto nella sentenza impugnata per non aver accolto il vizio, fatto valere con il ricorso in primo grado, di eccesso di potere per contraddittorietà del provvedimento che ha respinto la richiesta di permesso di costruire.

Tale vizio, nella prospettiva dell’appellante, sarebbe integrato anche laddove si aderisse alla tesi della natura endoprocedimentale della predetta nota del comune di -OMISSIS- del 2009

A sostegno dell’assunto l’odierno appellante richiama l’insegnamento giurisprudenziale a mente del quale sarebbe illegittimo per eccesso di potere, sotto il profilo della contraddittorietà, il provvedimento che presenti contraddizioni od incongruenze rispetto a precedenti valutazioni dello stesso Ente o quando sussistano più manifestazioni di volontà dello stesso ente che si pongano tra loro in contrasto.

Alla stregua di siffatto orientamento interpretativo, apparirebbe evidente, nella prospettiva dell’appellante, che la P.A. ha adottato due decisioni ( la predetta nota del 2009 e il provvedimento di rigetto prot. U 224/PT del 3 febbraio 2016) nell’esercizio del medesimo potere e nei confronti dello stesso soggetto, incompatibili tra loro.

Né per giustificare la decisione di rigetto della domanda di permesso potrebbe essere valorizzata la qualificazione del provvedimento di rigetto del 2016 alla stregua di un provvedimento di autotutela.

A giudizio dell’appellante, infatti, quand’anche si dovesse qualificare il provvedimento in esame come atto di secondo grado, comunque occorrerebbe giungere alla conclusione della sua illegittimità per violazione dei principi che presiedono all’esercizio dei poteri di autotutela,

primo fra tutti quello relativo al limite temporale, rappresento dai “diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici” (D.L. 12.9.2014, n. 133, conv., con mod., dalla L. 11.11.2014, n. 164).

Il motivo è infondato.

Tradizionalmente la contraddittorietà si configura quando si riscontra un contrasto fra più manifestazioni di volontà della stessa amministrazione nell’esercizio del medesimo potere.La contraddittorietà può sussistere all'interno di un provvedimento amministrativo oppure tra più provvedimenti amministrativi. La prima ipotesi, altrimenti detta contraddittorietà intrinseca, ricorre quando non vi è coerenza tra le parti di uno stesso atto amministrativo, specie tra il dispositivo e le sue premesse motivazionali .

La figura consente di addivenire ad un sindacato talvolta penetrante, che va al di là della motivazione formalmente resa.

Come è stato a più riprese affermato in giurisprudenza, non rileva in questi casi solo l'ampiezza della motivazione, ma anche la consequenzialità logica tra premesse e conclusioni;
consequenzialità che può e deve essere valutata in sede di giudizio di legittimità, pena l'inaccettabile conclusione che la discrezionalità non può essere censurata anche se esercitata in modo illogico o arbitrario( cfr. . Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2003, n. 2614. Ancora Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2003, n. 2614).

Al fine di ravvisare una contraddittorietà intrinseca occorre che, con riguardo alla cura di un medesimo interesse, l'amministrazione si sia determinata in modo logicamente incompatibile con un proprio precedente intervento, in maniera che l'uso del potere amministrativo per una finalità conforme a quella dello schema normativo non possa essere ravvisato in entrambi i casi, l'uno confliggendo insanabilmente con l'altro. Secondo tale consolidato indirizzo ermeneutico, è corretto parlare di contraddittorietà tra atti di un medesimo procedimento amministrativo solo se tra più atti successivi sussista un contrasto così inconciliabile da far dubitare su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione. Si ritiene, in tale ottica interpretativa, che il divieto di contraddire precedenti determinazioni, in mancanza di una plausibile giustificazione, sia applicazione del principio di coerenza dell'attività amministrativa, a sua volta legato al valore della certezza del diritto. Si comprende così perché parte della dottrina abbia voluto configurare la contraddittorietà come una specie, "più immediatamente evidente", dell'illogicità (Cons. Stato, sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5013.)La seconda ipotesi, altrimenti detta contraddittorietà estrinseca, astrattamente rilevante nella fattispecie in esame, può ricorrere non solo tra due provvedimenti non direttamente collegati fra di loro (ad esempio, provvedimento sanzionatorio che segue la redazione di note informative favorevoli), ma anche tra un provvedimento e i suoi atti preparatori (ad esempio, superamento di un concorso da parte di un candidato le cui prove sostenute risultino insufficienti dai verbali della commissione esaminatrice), nonché tra un provvedimento e un previo atto amministrativo di carattere generale, quale una circolare, una direttiva o altri atti di autolimitazione. E’ stata reputata contrassegnata da tale vizio, ad esempio, la fattispecie in cui, dopo una serie di giudizi favorevoli circa un pubblico dipendente sotto il profilo dell'attitudine alle mansioni superiori, all'improvviso interviene al riguardo un giudizio totalmente negativo (Cons. Stato, sez. I, 21 marzo 1975, n. 571/73, in Cons. Stato, 1977, I, 662;
Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 1991, n. 436, in Foro amm., 1991, 1069 Cons. Stato, sez. IV, 29 dicembre 2014, n. 6387)

Applicando tali coordinate al caso di specie, reputa la Sezione che non sussiste il vizio di contraddittorietà denunciato dalla parte appellante.

Giova sul punto considerare che il provvedimento di diniego del titolo abilitativo è stato adottato a distanza di circa 4 anni dal precedente atto endoprocedimentale e soprattutto nel quadro di un mutato assetto regolatorio, atteso che nelle more era venuto meno il piano urbanistico comunale. Per le ragioni in precedenza indicate, che valorizzano la qualificazione della nota del 2009 come atto meramente procedimentale, reputa la Sezione, in conformità con quanto già rilevato dal giudice di primo grado, che il provvedimento di diniego non assume il valore di atto di autotutela ma di provvedimento di primo grado.

Da siffatta premessa discende, pertanto, il rigetto delle censure articolate nei confronti di un asserito illegittimo esercizio di un potere di secondo grado.

La delineata assenza di contraddittorietà tra la nota del 2009 e il provvedimento consente di superare anche l’ulteriore prospettazione, secondo cui il potere di annullamento in autotutela può avere ad oggetto non solo atti definitivi ma anche un atto endo-procedimentale (ex multis: T.A.R., Lazio, Roma, II, 10.5.16, n. 5487).Ed invero, nel caso qui in esame, non si è verificato alcun ripensamento da parte della pubblica amministrazione, ma semplicemente un adeguamento delle valutazioni allo stato di fatto e di diritto presente al momento dell’emanazione del provvedimento, in linea con il consolidato principio del tempus regict actum .

Sul punto va, infatti, richiamata la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio a mente della quale "La corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta che l'amministrazione debba tener conto anche delle modifiche normative intervenute durante l'iter procedimentale, non potendo al contrario considerare l'assetto "cristallizzato" una volta per tutte alla data dell'atto che vi ha dato avvio" (Cons. Stato Sez. IV, 4.11.2011, n. 5854). Conseguentemente, la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento ad istanza di parte va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale e non a quello della presentazione dell'istanza (Cons. St., sez. V, 10 gennaio 2012, n. 34).Tale orientamento risulta confermato anche dalla giurisprudenza più recente, che ha avuto modo di precisare: “È infatti principio giurisprudenziale del tutto pacifico quello secondo cui la legittimità del provvedimento amministrativo finale deve essere accertata con riferimento alla normativa vigente al momento della sua adozione, in ossequio al principio " tempus regit actum" (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 14 agosto 2020, n. 5038;
id. sez. IV, 21 agosto 2012, n. 4583) e non già al momento dell'avvio del procedimento secondo il principio " tempus regit actionem ", sviluppato essenzialmente con riferimento alle procedure concorsuali "in itinere" (ex multis, T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. I, 1 ottobre 2007, n. 1420) a tutela dell'affidamento dei concorrenti allo svolgimento della procedura secondo i requisiti ed i criteri fissati nel bando (ex multis, Consiglio di Stato sez. V, 7 giugno 2016, n. 2433)”.

Con un ulteriore motivo di impugnazione l’appellante lamenta i seguenti vizi: “ error in iudicando;
omesso esame di un punto decisivo della controversia. violazione art. 64, comma 1, d.lgs. 104/2010 in relazione all’art. 2697 c.c.. travisamento. motivazione illogica”.

La decisione impugnata apparirebbe da riformare, a dire dell’appellante, anche nella parte in cui, esaminando il secondo motivo di impugnazione affidato all’ultimo atto di motivi aggiunti presentati in primo grado, non avrebbe fatto buon governo dell’istituto del permesso di costruire convenzionato introdotto nella disciplina edilizia del comune di -OMISSIS- per il tramite della delibera n. 40 del 25.7.2002 e successive disposizioni in relazione ad interventi che, come quello in esame, ricadrebbero in una zona caratterizzata da un sufficiente grado di urbanizzazione.

A conforto dell’assunto l’appellante richiama il precedente costituito dalla decisione del T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 14.1.2015, n. 212 con la quale, partendo dalla premessa della legittimità di “permessi di costruire convenzionati”, si è proceduto ad annullare il diniego di un permesso di costruire in relazione a un manufatto artigianale da realizzare in una zona limitrofa a quella di sua proprietà.

Al fine di suffragare tale impostazione, l’appellante richiama anche l’ulteriore decisione n. 4155/2015 di segno conforme del medesimo Tribunale Amministrativo regionale.

Dalla premessa che le decisioni menzionate hanno avuto ad oggetto fattispecie del tutto speculari rispetto a quella qui in esame, la parte appellante deduce la sussistenza nel caso di che trattasi anche del vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento (censura formulata con il ricorso in primo grado e ritualmente rinnovata anche in appello).

Anche tale motivo è infondato per le ragioni che seguono.

Non coglie nel segno la censura tesa a rivendicare l’asserita facoltà di poter ottenere, nel caso di che trattasi, un permesso convenzionato ( c.d. edificazione diretta).

Come è noto, la possibilità di rilascio di un permesso di costruire convenzionato, non preceduto dall’approvazione di uno strumento urbanistico di dettaglio, è stata riconosciuta in via generale con l’introduzione dell’art. 28-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 (ad opera dell’art. 17 del d.l. n. 133 del 2014), per tutte le situazioni nella quali “le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata”.

Il legislatore, recependo una prassi ampiamente diffusa, ed anche sulla scorta di talune previsioni della legislazione regionale, ha introdotto una nuova figura di titolo edilizio suscettibile di trovare spazio laddove, al di fuori della pianificazione attuativa, si renda comunque necessaria la strutturazione di un rapporto giuridico tra la parte privata e l’amministrazione pubblica relativamente a profili collaterali al contenuto abilitativo del permesso di costruire.

La norma fissa un limite di ordine generale, finalizzato a distinguere lo spazio riservato all’istituto di nuovo conio rispetto agli spazi tuttora necessariamente riservati alla pianificazione attuativa.

Come osservato in dottrina, ai molteplici piani attuativi previsti dall’ordinamento compete esprimere un ordine insediativo ad una scala di maggior dettaglio, in funzione di integrazione e completamento delle linee programmatiche indicate dal piano urbanistico generale, mentre il permesso di costruire convenzionato ha la funzione di assicurare una disciplina accessoria del permesso di costruire, andando oltre la dimensione provvedimentale e consentendo di strutturare e regolare un rapporto di durata che rende più articolata la relazione giuridica tra il richiedente e l’amministrazione comunale, nonché risolvendo i problemi di disciplina che nella prassi erano inadeguatamente risolti mediante clausole unilaterali atipiche apposte al titolo edilizio.

Per i casi in cui, secondo la valutazione dell’amministrazione, le esigenze di urbanizzazione possono essere soddisfatte con una modalità semplificata, la pianificazione di secondo livello risulterebbe ridondante e non rispettosa del principio di proporzionalità tra gli interessi pubblici da perseguire e lo strumento amministrativo utilizzato, come del resto è stato costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa riferita alle fattispecie dei lotti interclusi ricadenti in aree già urbanizzate, nelle quali l’amministrazione comunale deve disapplicare la previsione dello strumento urbanistico generale che impone, senza sufficienti ragioni giustificative, una pianificazione attuativa che nulla potrebbe aggiungere a fronte di un sufficiente grado di urbanizzazione (cfr., per tutte: Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2014 n. 5488).

L’art.28-bis del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 rimette agli strumenti urbanistici la definizione delle aree soggette a permesso di costruire convenzionato.

In sostanza, si tratta di una disposizione che deve comunque essere declinata nello strumento urbanistico.

Il “convenzionamento” costituisce infatti una modalità semplificata introdotta dalla legge statale al posto del piano attuativo che, nel caso di specie, per l’intervento di cui trattasi, lo strumento urbanistico non richiede.

Il Comune di -OMISSIS-, in considerazione della mancata approvazione di strumenti urbanistici attuativi e della conseguente stasi nell'attuazione del P.R.G., ha approvato una serie di atti con i quali ha previsto, per attività strettamente produttive da localizzare nelle zone D2 e G, la possibilità di edificare con intervento diretto in luogo della prevista approvazione di piani attuativi, attraverso lo strumento della “concessione edilizia convenzionata” (cfr. deliberazione di Giunta Comunale n. 195 del 13.09.2001, deliberazioni di Consiglio comunale n. 40 del 25.07.2002 e n. 9 del 28.02.2003, deliberazione di Commissione straordinaria n. 111 del 04.04.2006);
tale possibilità è stata, tuttavia, subordinata alla presenza delle opere di urbanizzazione da attestare attraverso una perizia giurata a firma di un tecnico abilitato, salvo verifica del reale grado di urbanizzazione a cura del competente ufficio comunale;
in particolare, con la deliberazione di Commissione Straordinaria n. 111 del 04.04.2006, viene precisato che il “grado di urbanizzazione” debba essere ritenuto “sufficiente” se è comprovata almeno l'esistenza delle strade per il libero accesso al lotto, delle fognature sufficienti a ricevere gli incrementi degli scarichi delle acque piovane e reflue prodotte dal nuovo insediamento e di punti di approvvigionamento di acqua ed elettricità. La stessa deliberazione prevede inoltre la “monetizzazione” in tutto o in parte, delle aree che devono essere cedute gratuitamente al Comune se non necessarie per integrare le urbanizzazioni esistenti. Si evidenzia, pertanto, che nessun riferimento viene fatto circa la proprietà delle reti infrastrutturali necessarie limitandosi, le deliberazioni menzionate, a prescriverne la presenza».

Secondo la condivisibile prospettazione del giudice di prime cure i presupposti richiesti dall’art. 28 bis tu edilizia, con particolare riferimento al grado omogeno di urbanizzazione del comparto, sono stati qui invocati dal ricorrente in via puramente astratta, senza allegare e tanto meno provare che la mera richiesta di permesso di costruire di fosse, in realtà, una domanda presentata ai sensi di quest’ultima disposizione ed idonea a soddisfarne le condizioni da essa previste per il rilascio del titolo edilizio semplificato.

L’appellante sul punto assume ulteriormente che la sentenza impugnata che avrebbe errato nell’applicazione delle regole che governano la distribuzione degli oneri probatori. Reitera, inoltre, anche in appello, il vizio fatto valere con il ricorso di primo grado di sviamento dell’azione amministrativa, per disparità di trattamento di trattamento rispetto a vicende riguardanti fondi limitrofi, ubicato nella medesima zone D2, in relazione alle quali alcune decisioni del Tar per la Campania, previa verificazione dello stato dei luoghi, hanno annullato il diniego di permesso ritenendo che erroneamente il comune di -OMISSIS- non avesse rilasciato un permesso a costruire convenzionato.

In realtà nei casi invocati dall’appellante i motivi di ricorso erano supportati da una perizia asseverata in ordine allo stato dei luoghi così come puntualmente richiesto dalle predette deliberazione di Giunta Comunale n. 195 del 13.09.2001, deliberazioni di Consiglio comunale n. 40 del 25.07.2002 e n. 9 del 28.02.2003, deliberazione di Commissione straordinaria n. 111 del 04.04.2006);

A ciò va aggiunto, con specifico riferimento al potere istruttorio del giudice, che “il potere acquisitivo viene esercitato dal giudice quando il vizio lamentato è stato ben evidenziato e sono stati forniti concreti indizi di prova in relazione alla sua effettiva sussistenza” (Consiglio di Stato, sez. III, 4 settembre 2020, n.5356).

La giurisprudenza, infatti, è consolidata nel ritenere che “incombe sulla parte che agisce in giudizio indicare e provare specificamente i fatti posti a base delle pretese avanzate, in base al principio generale, applicabile anche al processo amministrativo, dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c.. Se è vero, infatti, che nel processo amministrativo il sistema probatorio è retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice, è altrettanto vero che, in mancanza di una prova compiuta a fondamento delle proprie pretese, il ricorrente debba avanzare quanto meno un principio di prova perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 30 aprile 2020, n. 2761);
la parte che agisce in giudizio, quindi, ha quanto meno l'onere di fornire gli indizi affinché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10 aprile 2020, n. 2374), poiché l'applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo non può, comunque, mai trasformarsi in un’inversione dell'onere della prova o nella sostituzione del giudice amministrativo alla parte onerata.

Nel caso in esame, l’appellante, come anticipato, non ha allegato una perizia di parte asseverata, ma si è limitato a censurare il vizio di disparità di trattamento rispetto ad altre vicende, rispetto alle quali tuttavia non ha provato in modo circostanziato il ricorrere della medesima situazione in fatto.

La parte appellante, invero, non fornisce neanche un principio di prova (rilievi fotografici ovvero altre risultanze documentali dotate o meno di fede privilegiata ), in ordine :

-allo stato di urbanizzazione dell’area interessata;

-all’esistenza di una rete fognaria comunale idonea a sostenere gli scarichi derivanti dalle nuove opere;

- alla distanza tra il proprio fondo e quelli rispetto ai quali censura il vizio di disparità di trattamento;

-al se il progetto avente ad oggetto la realizzazione di un edifico produttivo artigianale presentato dall’appellante preveda l’allaccio alla rete fognaria comunale e, in caso positivo, se questo sia conforme alle prescrizioni del Comune.

Il vizio di disparità di trattamento è pertanto rimasto indimostrato e solo apoditticamente affermato.

Ricorda la Sezione che il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento, il quale, come noto postula che l’amministrazione emani statuizioni tra loro diverse nell’esercizio dello stesso potere, in relazione a fattispecie assolutamente identiche, senza fornire alcuna giustificazione. Manca, infatti, financo un principio di prova in ordine alla perfetta identità di situazioni soggettive ed oggettive. Come questo Consiglio ha avuto modo di chiarire, l’onere di provare l’identità delle situazioni, nonché di identificare la persona che avrebbe goduto del trattamento diverso, grava sul ricorrente che deduce il vizio di disparità di trattamento (Cons. Stato n.476/1997;
Cons. Stato n.145/99)

Del resto, - come precisato dalla giurisprudenza di questo Consiglio (Sez. V, 22 aprile 1992, n. 351) – il principio secondo cui va esclusa la necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (si pensi al caso del lotto residuale ed intercluso in area compiutamente urbanizzata: Sez. V, 26 settembre 1995, n. 1351), ma non anche alle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che assai più di altre esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora addirittura definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona. La necessità di uno strumento attuativo può riconoscersi, ad esempio, quando, tenuto conto “della situazione esistente e non delle opere solo programmate” (Sez. V, 1 febbraio 1995, n. 162), debba essere completato il sistema della viabilità secondaria nella zona o quando debba essere integrata l’urbanizzazione esistente garantendo il rispetto dei prescritti standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue già asservite all’edificazione.

Va, inoltre, evidenziato che la valutazione operata dall’Amministrazione quanto alla sussistenza o meno di una compiuta urbanizzazione della zona interessata costituisce espressione di discrezionalità tecnica e si presta ad essere sindacata esclusivamente ove risulti manifestamente erronea o illogica.

Come è stato attentamente sottolineato in dottrina, in materia urbanistica non è ipotizzabile una disparità di trattamento fra proprietari di fondi diversi, in quanto ciascun fondo è necessariamente differenziato dagli altri, quanto meno sotto il profilo della ubicazione, e, pertanto, costituisce oggetto di autonoma considerazione.

In proposito va ribadito che “la valutazione della idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, costituisce esercizio di un potere di scelta, rispetto al quale non è ipotizzabile quella identità di situazioni soggettive ed oggettive che costituisce il presupposto indispensabile per poter configurare, tra i vari soggetti interessati, il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento” (Sez. IV, 17 febbraio 1981, n. 159).

Poiché l’esame di situazioni di fatto disomogenee implica l’adozione di criteri di valutazione almeno in parte differenziati, l’eventuale irragionevolezza delle soluzioni adottate con riguardo ad un ambito del territorio comunale non costituisce, quindi, argomento per prospettare l’illegittimità delle determinazione assunte, sulla base di criteri diversi e di differenti situazioni di fatto, in relazione ad un altro ambito (cfr. Cons. Stato n.9175/1999).

Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello deve essere respinto in quanto infondato.

In considerazione della mancata costituzione del Comune di -OMISSIS- nel presente giudizio, le spese del presente giudizio non sono dovute.

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