Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-02-17, n. 201000935

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2010-02-17, n. 201000935
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201000935
Data del deposito : 17 febbraio 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00929/2009 REG.RIC.

N. 00935/2010 REG.DEC.

N. 00929/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 929 del 2009, proposto da:
Comune di Santeramo in Colle, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall'avv. L P, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. A Placidi in Roma, via Cosseria N.2;

contro

Tradeco S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avv. A L e R P, con domicilio eletto presso lo studio Legale Amodio in Roma, via G.Kock, n.,42;

per la riforma

della sentenza del TAR PUGLIA -

BARI :

Sezione I n. 02665/2008, resa tra le parti, concernente REVISIONE CANONI PER SERVIZIO DI IGIENE URBANA..


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 dicembre 2009 il Cons. M L e uditi per le parti gli avvocati Paccione, Lillo e Padrone;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

La sentenza appellata ha accolto il ricorso proposto dalla parte interessata per l'accertamento del diritto della Tradeco s r l, ai sensi dell’articolo 6, comma 6, della legge n. 537/93, come modificato dall’art. 44 della legge 724/94, ed il corrispondente obbligo del Comune di Santeramo, al riconoscimento della revisione del canone stabilito per i servizi di igiene urbana ed affini affidati alla Tradeco, con deliberazione del Consiglio comunale n. 60 del 17 giugno 1994, e con contratto Repertorio n. 2820 del 14 febbraio 1995, approvato con deliberazione della giunta municipale. n. 928 del 22 novembre 1999 e per la declaratoria di nullità:

- della deliberazione n. 21 del 6 giugno 2002, comunicata alla Tradeco con missiva ricevuta il 5 luglio 2002, con la quale si è preceduto ad annullare la deliberazione consiliare n. 51 del 6 febbraio 2000, avente per oggetto il riconoscimento e la determinazione della revisione del canone annuo, e, al contempo, ad adottare atto di indirizzo per il riconoscimento del solo adeguamento del canone di appalto del servizio di igiene urbana con riferimento al contratto rep. 2820 del 14 febbraio 1995, in favore della società Tradeco ed in misura del 75% dell’indice ISTAT relativo ai prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, relativo all’anno precedente, non rilevando “criteri diversi di natura pattizia o derivanti dalla legge”;

- del parere n. 28 del 3 giugno 2002 del Collegio dei revisori dei conti del Comune di Santeramo, laddove, in riferimento alla revisione, è affermato che: "non si rilevano criteri diversi, di natura pattizia o derivanti dalla legge, al di fuori di quello che prevede l’adeguamento del canone nella misura del 75% dell’indice ISTAT di variazione dei prezzi al consumo delle famiglie di operai e impiegati, relativo all’anno precedente, così come peraltro previsto dall’art. 5 del contratto di appalto e, prima ancora, dall'art. 11 del capitolato d’oneri, posto a base della procedura di gara ad opera della medesima società”.

Il comune appellante contesta, nel merito. la pronuncia impugnata, prospettando anche alcune eccezioni preliminari di estinzione del giudizio di primo grado e di difetto di giurisdizione.

L’appellata resiste al gravame.

Con un primo motivo, l’amministrazione appellante, riproponendo un’eccezione articolata in primo grado, sostiene che il TAR avrebbe dovuto dichiarare estinto il ricorso, per intervenuta perenzione quinquennale, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, della legge n. 205/2000. Al riguardo, sostiene che il ricorso è stato trattenuto in decisione dal TAR, benché al momento dell’udienza di discussione fossero trascorsi cinque anni dalla proposizione del ricorso e non fossero acquisite le dichiarazioni di interesse, firmate personalmente dalle parti.

La censura, sebbene sia astrattamente e parzialmente fondata, è inammissibile, per difetto di interesse.

Va premesso che il TAR ha respinto l’eccezione, mediante la seguente motivazione: “La asserita improcedibilità per intervenuta perenzione ultraquinquennale non è configurabile nel caso di specie essendo stata fissata la discussione del ricorso prima che fosse avviato il procedimento di cui all’art. 9, comma 2, legge 205/2000 nel testo modificato dall’art. 54, comma 1, d.l. 112/2008 convertito con modifiche con legge 6 agosto 2008, n. 133.”

L’affermazione del TAR non è condivisibile, in punto di diritto.

Va ricordato che la disciplina della perenzione, prevista dall’articolo 9, comma 2, della legge n. 205 del 2000, è stata modificata con due successivi interventi legislativi.

Secondo la formulazione originaria, “a cura della segreteria è notificato alle parti costituite, dopo il decorso di dieci anni dalla data di deposito dei ricorsi, apposito avviso in virtù del quale è fatto onere alle parti ricorrenti di presentare nuova istanza di fissazione dell'udienza con la firma delle parti entro sei mesi dalla data di notifica dell'avviso medesimo. I ricorsi per i quali non sia stata presentata nuova domanda di fissazione vengono, dopo il decorso infruttuoso del termine assegnato, dichiarati perenti con le modalità di cui all'ultimo comma dell'articolo 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dal comma 1 del presente articolo.”

In base a questa previsione, il ricorso ultradecennale deve essere dichiarato estinto a meno che almeno una delle parti non dichiari, personalmente, il proprio persistente interesse. Per evidenti esigenze di tutela delle parti del giudizio, la dichiarazione personale deve essere provocata attraverso l’iniziativa della Segreteria del giudice, tenuta ad avvisare le parti mediante un procedimento tipico.

Successivamente, però, la disposizione è stata modificata dall'art. 54 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133. La nuova disciplina ha ridotto il termine della perenzione da dieci a cinque anni.

Diversamente da quanto ritenuto dal TAR, il nuovo termine quinquennale opera anche per i giudizi in corso e riguarda tutti i ricorsi non ancora trattenuti in decisione al momento della sua entrata in vigore. Non vi è ragione di ritenere che il nuovo termine di perenzione sia applicabile solo ai ricorsi per i quali non sia stata ancora fissata l’udienza di discussione, perché tale deroga non è espressamente prevista e non vi sono argomenti sistematici per ricavarla, in via interpretativa..

Pertanto, secondo la disciplina vigente al momento dell’udienza di discussione del ricorso di primo grado, il TAR non avrebbe potuto decidere, nel merito, la controversia.

D’altro canto, contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante, il TAR non avrebbe nemmeno dovuto dichiarare estinto il ricorso, ma avrebbe dovuto avviare il procedimento diretto ad acquisire attraverso l’avviso della segreteria, la personale dichiarazione di interesse delle parti alla decisione del ricorso.

Ne deriva che, alla luce della disciplina vigente al momento della decisione di primo grado, la sentenza di primo grado dovrebbe essere annullata con rinvio, allo scopo di acquisire le eventuali dichiarazioni personali di interesse delle parti.

Sennonché, nelle more dell’appello, l’articolo 9, comma 2, della legge n. 205/2000 è stato ulteriormente modificato, dal comma 1 dell’art. 57, della legge 18 giugno 2009, n. 69, mediante l’aggiunta di un ulteriore periodo: “Se, in assenza dell’avviso di cui al primo periodo, è comunicato alle parti l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione nel merito, i ricorsi sono decisi qualora almeno una parte costituita dichiari, anche in udienza a mezzo del proprio difensore, di avere interesse alla decisione;
altrimenti sono dichiarati perenti dal presidente del collegio con decreto, ai sensi dell’articolo 26, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034”.

In base alla nuova disciplina, quindi, qualora il ricorso ultraquinquennale giunga alla discussione, non è necessario attivare il procedimento diretto ad acquisire le dichiarazioni personali delle parti, ma è sufficiente una manifestazione di interesse resa dalla difesa di una delle parti.

In questo contesto, allora, è evidente che non avrebbe alcun senso rinviare il giudizio al TAR, dal momento che, in concreto, la difesa della parte ricorrente in primo grado ha ripetutamente e sostanzialmente confermato, anche al di là di ogni rigido formalismo, il proprio interesse al ricorso. Nel nuovo quadro normativo, quindi, la dichiarazione personale della parte, seppure oggettivamente omessa in primo grado, non è più necessaria.

Quindi, il motivo di appello proposto è inammissibile, perché la dichiarazione personale omessa è surrogata dalla manifestazione di interesse della parte, prevista dalla normativa ora vigente.

Con un secondo motivo, il comune appellante ripropone l’eccezione di difetto di giurisdizione amministrativa.

Anche tale motivo è privo di pregio.

Non è seriamente contestabile, infatti, che la controversia in oggetto, riguardante la misura del compenso revisionale rivendicato dall’impresa titolare del servizio pubblico, rientri nell’ambito della giurisdizione esclusiva amministrativa, prevista dall’articolo 244, comma 3, del codice dei contratti (come ribadito, anche recentemente, dalle Sezioni Unite della Cassazione, con le pronunce 17 aprile 2009, n. 9152 e 15 giugno 2009, n. 13892).

L’ambito della giurisdizione esclusiva in materia di revisione dei prezzi ha ora una portata ampia e generale, superando il tradizionale orientamento interpretativo secondo cui al giudice amministrativo spettano le sole controversie in materia di “an” della pretesa alla revisione del prezzo, mentre competono al giudice ordinario le questioni inerenti alla quantificazione del compenso, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite.

Al riguardo, si è affermato che spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 6, comma 19, l. 24 dicembre 1993 n. 537, come sostituito dall'art. 44 l. 23 dicembre 1994 n. 724 - "ratione temporis" vigente - sia le controversie relative alla clausola di revisione del prezzo prevista dal comma 6 dell'art. 6 cit. (riprodotto dal comma 4 dell'art. 44), sia quelle attinenti al provvedimento applicativo della revisione, considerato che, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata di tali norme, come risultante dalla sentenza della Corte cost. n. 204 del 2004, le giurisdizione del g.a. sussiste con riferimento ad ipotesi in cui le posizioni di diritto soggettivo fatte valere si collochino in un'area di rapporti in cui la p.a. agisce esercitando il suo potere autoritativo, come nel caso della detta revisione. Tale conclusione è avvalorata dal fatto che l'attribuzione al g.a. della giurisdizione esclusiva sulla revisione prezzi nei contratti ad esecuzione continuata o periodica è stata poi anche prevista dagli art. 115 e 244, comma 3, d.lg. 12 aprile 2006 n. 163 (Cassazione civile , sez. un., 17 aprile 2009 , n. 9152).

Pertanto, è indifferente, ai fini della giurisdizione, la circostanza che l’amministrazione comunale, con i propri atti, abbia riconosciuto il diritto dell’interessata al compenso revisionale e sia concretamente in discussione solo l’esatta quantificazione della revisione.

Infine, l’appellante contesta, nel merito, la pronuncia di accoglimento del TAR.

Anche tale profilo dell’appello non merita accoglimento.

Secondo il comune, l’amministrazione ha riconosciuto alla TRADECO il compenso revisionale stabilito contrattualmente. Pertanto, non potrebbero essere giustificate ulteriori pretese, incentrate su diversi parametri di calcolo.

La tesi non è condivisibile.

La parte ricorrente ha basato la propria richiesta sull’asserita nullità della clausola del contratto, sostenendo che la revisione deve comunque rispettare i criteri generali stabiliti dalla legge.

In questo senso, la deduzione della nullità della delibera che ha applicato i criteri revisionali fissati dalla clausola contrattuale muove, correttamente, dalla prospettiva secondo cui la legge fissa vere e proprie norme imperative, che, ai sensi degli articolo 1339 e 1418 del codice civile, si sostituiscono alle disposizioni difformi.

Nel merito, il TAR ha esattamente evidenziato che l’art. 6 della legge n. 537/1993, come modificato dall'art. 44, comma 2, della legge n. 724/1994, prevede che la revisione periodica del prezzo deve essere quantificata dal dirigente responsabile del servizio sulla base di una istruttoria che tenga conto anche dei dati indicati dal comma 6 del citato articolo (che prevede la rilevazione, da parte dell'ISTAT, dei prezzi dei principali beni e servizi acquisiti dalle p.a.).

Poiché la disciplina legale dettata dall’art. 6, commi 4 e 6, cit. non è mai stata attuata nella parte in cui prevede l’elaborazione, da parte dell’ISTAT, di particolari indici concernenti il miglior prezzo di mercato desunto dal complesso delle aggiudicazioni di appalti di beni e servizi, rilevate su base semestrale, la lacuna, per giurisprudenza costante, è stata colmata mediante il ricorso al cosiddetto “indice F.O.I.” (come ha evidenziato questa Sezione: Cons. Stato, sez. V, 9 giugno 2008, n. 2786).

Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, l’utilizzo di quest’ultimo parametro non esonera la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, al fine di esprimere la propria determinazione discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa, non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale.

In tal modo, si rispetta la ratio dell’art. 6 cit. consistente nel coniugare l’esigenza di interesse generale di contenere la spesa pubblica, con quella, parimenti generale, di garantire nel tempo la corretta e puntuale erogazione delle prestazioni dedotte nel programma obbligatorio.

L’istituto della revisione è infatti preordinato, nell’attuale disciplina, alla tutela dell’esigenza dell’amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto.

Solo in via mediata l’istituto tutela l’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni.

Laddove, pertanto, l’impresa dimostri, durante l’istruttoria, l’esistenza di circostanze eccezionali che giustifichino la deroga all’indice F.O.I., la quantificazione del compenso revisionale potrà effettuarsi con il ricorso a differenti parametri statistici.

Pertanto, è privo di fondamento anche l’ulteriore profilo dell’appello, con cui il comune sostiene che la ricorrente di primo grado non avrebbe comprovato il credito vantato.

Infatti, la domanda dell’interessata è incentrata sulla pretesa ad ottenere un compenso revisionale ancorato ai parametri legali, anziché a quelli stabiliti dal contratto e applicati dall’amministrazione.

In questa prospettiva, allora, la ricorrente non aveva alcun onere di allegare particolari circostanze fattuali, al fine di supportare la propria tesi difensiva.

In definitiva, quindi, l’appello deve essere respinto.

Le spese del grado possono essere compensate.

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