Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-04-21, n. 201002274

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-04-21, n. 201002274
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201002274
Data del deposito : 21 aprile 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05607/2007 REG.RIC.

N. 02274/2010 REG.DEC.

N. 05607/2007 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 5607 del 2007, proposto dal signor G A, rappresentato e difeso dall'avv. L P, con domicilio eletto presso il signor A P in Roma, via Cosseria N.2;

contro

Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;

per la riforma

della sentenza del TAR Puglia, Bari, prima sezione, di rigetto del ricorso proposto per l’annullamento dei seguenti atti:

la decisione resa in data 23 aprile/25 giugno 1997 dal Collegio arbitrale di disciplina costituito presso il Ministero di grazia e giustizia sul ricorso da lui presentato, ex art. 59, c. 7, D.lgs. n. 29/93, nel testo introdotto dall’art. 27 D.Lgs. n. 546/93, avverso il provvedimento disciplinare del licenziamento con preavviso irrogato dal Direttore generale dell’Organizzazione giudiziaria e degli affari generali del Ministero di grazia e giustizia;

il sottostante provvedimento disciplinare del licenziamento con preavviso, irrogato in data 24/1/1997 dal Direttore generale dell’Organizzazione giudiziaria e degli affari generali del Ministero di grazia e giustizia;

la nota di contestazione di addebiti n. 68/95 del 21/10/1995, a firma del Direttore generale del Ministero di grazia e giustizia;

la nota ministeriale prot. n. 113/96 AB/disc. del 24/9/1996 a firma del direttore generale dell’ufficio II Org. giud. e AA.GG.;

ove occorra dell’art. 41 del contratto collettivo nazionale lavoro del personale dipendente dai Ministeri, pubblicato in G.U., s.o., n. 124 del 30/5/1995;

tutti gli atti presupposti, consequenziali o comunque connessi, benché ignoti, in quanto lesivi;


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Vista l’ordinanza n. 4018 del 30 luglio 2007, con cui la Sezione ha respinto la domanda incidentale dell’appellante;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 aprile 2010 il Cons. Sergio De Felice e uditi per le parti l’avvocato Lattanzi, su delega dell’avv. Paccione, e l'avvocatodello Stato Isabella Corsini;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso proposto al TAR per la Puglia (Sede di Bari), l’attuale appellante, già direttore di cancelleria in servizio presso la Pretura circondariale di Bari, impugnava i provvedimenti con i quali era stato disposto il suo licenziamento con preavviso, perché ritenuto responsabile di essersi indebitamente impossessato, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di varie somme versate da numerosi imputati per il pagamento di ammende in favore dello Stato, falsificando la copertina dei relativi fascicoli processuali ed annotando numeri di campione penale riguardanti diversi articoli e diversi imputati.

Egli deduceva le seguenti censure:

1) che ai suddetti fatti doveva applicarsi il d.p.r. n. 3/1957 e non le disposizioni di cui al nuovo c.c.n.l. comparto Ministeri (ed in particolare l’art. 25, c. 5, lett. a), in materia di licenziamento), entrato in vigore solo successivamente, e cioè in data 16/5/1995, perché meno favorevoli, anche perché l’art. 41 del medesimo contratto prevede l’efficacia retroattiva del solo procedimento e non anche della tipologia delle sanzioni;

2) che la contestazione degli addebiti doveva avvenire entro il termine di 20 giorni dal momento in cui la p.a. era venuta a conoscenza dei fatti: nel caso di specie il provvedimento di sospensione cautelare dal servizio è stato emanato in data 20/2/1995 (a quella data la p.a. non poteva che conoscere i fatti), il c.c.n.l. è entrato in vigore il 16/5/1995 e la contestazione degli addebiti reca data 21/10/1995 ed è quindi tardiva, nè può dirsi che il termine di cui all’art. 24, c. 2, del c.c.n.l. non sia perentorio posto che la norma recita “ … non oltre venti giorni da quando …” ;

3) che il procedimento disciplinare doveva concludersi entro il termine perentorio di 120 giorni dalla data di contestazione dell’addebito: nel caso di specie il provvedimento, dopo essere stato sospeso, è stato riavviato in data 24/9/1996, il provvedimento disciplinare reca la data del 24/1/1997 ed è stato notificato in data 4/2/1997;
esso è quindi tardivo (poiché per l’art. 24, c. 6, del c.c.n.l. “Il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla data della contestazione dell’addebito”);

4) che sussiste incompatibilità logica tra il fatto contestato (appropriazione indebita di somme versate all’Amministrazione dello Stato) e la fattispecie contemplata dalla norma contrattuale applicata (“occultamento di fatti e circostanze relativi ad illecito uso, distrazione o sottrazione di somme o di beni di spettanza dell’Amministrazione o ad essa affidati”);

5) che gli atti impugnati si basano sulle risultanze del procedimento penale conclusosi con sentenza di patteggiamento senza che sia stata compiuta alcuna istruttoria, poiché la sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. non ha efficacia nei giudizi amministrativi e non implica riconoscimento di colpevolezza.

Il giudice di primo grado, rispetto a tutti i cinque motivi di censura, rigettava il ricorso.

Avverso la sopra indicata sentenza propone appello il medesimo signor G A, deducendo e riproponendo parte dei motivi già rigettati in prime cure, che sono i seguenti:

1) riproponendo il primo motivo di ricorso, si sostiene che ai suddetti fatti doveva applicarsi il d.p.r. n. 3/1957 e non le disposizioni di cui al nuovo c.c.n.l. comparto Ministeri (ed in particolare l’art. 25, c. 5, lett. a), in materia di licenziamento), entrato in vigore solo successivamente, e cioè in data 16/5/1995, perché meno favorevoli, anche perchè l’art. 41 del medesimo contratto prevede l’efficacia retroattiva del solo procedimento e non della tipologia delle sanzioni.

Si assume violazione degli articolo 11 preleggi e 2 del codice penale.

Sarebbe stata applicata illegittimamente e irretroattivamente la sanzione gravissima del licenziamento, in spregio al principio del divieto di retroattività del trattamento meno favorevole, mentre il TAR avrebbe confuso la tipicità della sanzione con la tipicità della procedura applicabile;

2) si riproduce il secondo motivo di ricorso, consistente nel sostenere che la contestazione degli addebiti doveva avvenire entro il termine di 20 giorni dal momento in cui la p.a. è venuta a conoscenza dei fatti: nel caso di specie il provvedimento di sospensione cautelare dal servizio è stato emanato in data 20/2/1995 (a quella data la p.a. non poteva che conoscere i fatti), il c.c.n.l. è entrato in vigore il 16/5/1995 e la contestazione degli addebiti reca data 21/10/1995 e sarebbe quindi tardiva.

Né può dirsi che il termine di cui all’art. 24, c. 2, del c.c.n.l. non sia perentorio posto che la norma recita “ … non oltre venti giorni da quando …” ;
pertanto, la nota di contestazione degli addebiti avrebbe dovuto essere notificata al ricorrente entro e non oltre i venti giorni successivi al 16 maggio 1995 e tale termine non può intendersi come meramente ordinatorio.

3) si ripropone il terzo motivo di doglianza, consistente nel sostenere che il procedimento disciplinare doveva concludersi entro il termine perentorio di 120 giorni dalla data di contestazione dell’addebito: nel caso di specie il provvedimento, dopo essere stato sospeso, è stato riavviato in data 24/9/1996, il provvedimento disciplinare reca la data del 24/1/1997 ed è stato notificato in data 4/2/1997.

Esso sarebbe quindi tardivo.

Si è costituito l’appellato Ministero, chiedendo il rigetto dell’appello perché infondato.

Alla udienza pubblica del 9 aprile 2010 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1.Con il primo motivo di ricorso (violazione dell’art. 11, c. 2, delle disposizioni sulla legge in generale, violazione dell’art. 1 l. 689/81, violazione dell’art. 2 c.p., violazione ed omessa applicazione del d.p.r. 10/1/1957, n. 3, eccesso di potere, sviamento di procedura), l’appellante sostiene che – poiché i fatti ascrittigli sono stati commessi fino al 29 giugno1994 – in sede disciplinare l’Amministrazione avrebbe dovuto applicare il d.p.r. n. 3/1957 e non le disposizioni di cui al nuovo c.c.n.l. comparto Ministeri (ed in particolare l’art. 25, c. 5, lett. a), in materia di licenziamento) entrato in vigore solo successivamente, e cioè in data 16 maggio 1995.

Egli sostiene che le nuove disposizioni sarebbero meno favorevoli delle precedenti e che l’art. 41 del medesimo contratto – che altrimenti sarebbe illegittimo - prevede l’efficacia retroattiva del solo procedimento, e non già della tipologia delle sanzioni.

Nessuna delle censure così sintetizzate appare meritevole di accoglimento.

Ritiene il Collegio di far proprio l’orientamento espresso da questo Consiglio (Sez. IV, 12/3/2001, n. 1380, e Sez. IV, 10/9/1999, n. 1440), secondo il quale ai fini dell’individuazione della normativa applicabile in sede disciplinare, salvi i casi in cui la legge eventualmente disponga altrimenti, non rileva il periodo di commissione dei fatti addebitati, bensì quello della pronuncia della sentenza penale di condanna, che costituisce il presupposto per l’irrogazione della sanzione disciplinare.

Infatti, gli atti emessi nell’esercizio del potere disciplinare sono regolati dalle norme vigenti al momento in cui essi sono posti in essere (per corrispondenti principi in materia, v. anche Cass., sez. lav., 25 maggio 2005, n. 10991).

D’altra parte, la normativa applicabile, in virtù del disposto di cui all’allora vigente art. 59, c. 3, del d.lgs. n. 29/93, attiene non solo al procedimento (come prospettato dal ricorrente), ma anche alla tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni (in tal senso, Cass. n.10991 del 2005, cit.).

Nel caso di specie, il presupposto per l’irrogazione della sanzione disciplinare si è dunque verificato in data 14 maggio 1996 (data di deposito della sentenza di condanna resa dal G.I.P. presso il Tribunale di Bari) e quindi successivamente all’entrata in vigore del c.c.n.l. comparto Ministeri, avvenuta in data 16 maggio 1995, da ritenersi quindi pienamente applicabile.

Né è dato rilevare alcuna violazione in malam partem delle disposizioni in materia di successione di leggi nel tempo, in quanto la data della sentenza e dell’inizio del procedimento sono successive a quella della sottoscrizione del contratto collettivo.

Peraltro, parte appellante non sostiene, né tantomeno avrebbe potuto fondatamente sostenere, che il sistema previgente (del testo unico impiegati civili dello Stato) non prevedesse la sanzione della risoluzione del rapporto, che ha sempre fatto parte della disciplina generale.

Segue da ciò, ad un tempo, l’inammissibilità e l’infondatezza del primo motivo di ricorso.

Ad abundantiam , va comunque richiamato il principio per il quale - in materia di conseguenze sfavorevoli in sede amministrativa a seguito della commissione di un delitto - non vige il divieto di retroattività della legge, che l’art. 25 della Costituzione pone solo per la legge penale, per cui per determinare la sfera di applicabilità della sanzione occorre avere riguardo non alla data dell’illecito, ma al momento in cui la p.a. opera la scelta della sanzione applicabile.

Inoltre, l’art. 59, comma 3, del d.Lgs. 1993 n. 29 ha demandato la definizione della tipologia delle “infrazioni e delle relative sanzioni” ai contratti collettivi, sicché risulta legittimo il licenziamento – ancorché senza preavviso - irrogato in applicazione dell’art. 25, comma 5, CCNL comparto ministeri sottoscritto il 16 maggio 1995 (Consiglio Stato, IV, 12 marzo 2001, n.1380).

2. Con il secondo motivo di ricorso (violazione ed erronea applicazione dell’art. 24, c. 2, c.c.n.l. pubblicato sulla G.U. n. 124, s.o., del 30/5/1995, violazione della circolare del Ministero di grazia e giustizia prot. n. 294/5424/S dell’8/6/1995), l’appellante lamenta che la contestazione degli addebiti doveva avvenire entro il termine di 20 giorni dal momento in cui la p.a. è venuta in senso assoluto a conoscenza dei fatti.

Nel caso di specie, il provvedimento di sospensione cautelare dal servizio è stato emanato in data 20 febbraio 1995 e a quella data la p.a. non poteva non conoscere i fatti, altrimenti non avrebbe adottato il provvedimento cautelare.

Poiché il c.c.n.l. è entrato in vigore il 16 maggio 1995 e la contestazione degli addebiti reca la data 21 ottobre 1995, la contestazione degli addebiti sarebbe quindi tardiva e la perentorietà sarebbe ribadita anche dal tenore dell’art. 24, c. 2, del c.c.n.l., che recita “ … non oltre venti giorni da quando …” .

Ritiene la Sezione che anche tali deduzioni non meritano di essere condivise.

Invero, la disposizione dell'art. 24, c. 2, c.c.n.l. comparto ministeri del 1995, per la quale l’amministrazione “non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del dipendente, se non previa contestazione scritta dell'addebito da effettuarsi tempestivamente e, comunque, non oltre venti giorni da quando l’ufficio istruttore...”, non può trovare applicazione qualora alla data di entrata in vigore dello stesso (16/5/1995) il procedimento penale fosse già pendente, dovendosi applicare la disciplina di cui al successivo art. 25, commi 7-8, per i quali il procedimento disciplinare attivato per i medesimi fatti oggetto di un procedimento penale è sospeso fino alla sentenza definitiva e deve essere riattivato entro 180 giorni da quando la p.a. ha avuto conoscenza della sentenza (v. in tal senso Cons. di Stato, Sez. IV, 10/9/1999, n. 1440).

Nel caso di specie è incontestato che la sentenza sia stata depositata in data 14 maggio 1996 e il procedimento sia stato riattivato in data 24 settembre 1996.

Segue da ciò l’infondatezza anche del secondo motivo di ricorso.

A conferma della necessità di ritenere tempestivo l’avvio dell’azione disciplinare da parte dell’amministrazione, oltre alla questione della disciplina applicabile ratione temporis, perché non ancora vigente sotto tale profilo la nuova contrattazione collettiva, vale anche la considerazione della sua consequenzialità rispetto al procedimento del patteggiamento.

Ebbene, anche a garanzia dell’incolpato, e ai fini di una idonea e autonoma valutazione dei fatti (motivo pure nella specie proposto in primo grado e poi non coltivato), il termine perentorio per l’avvio del procedimento disciplinare, con la contestazione degli addebiti, nei confronti del pubblico dipendente che abbia patteggiato la pena, decorre dalla data di pubblicazione della sentenza (così, Consiglio Stato, IV, 4 dicembre 2008) e non già dalla anticipata conoscenza dei fatti.

Si è sostenuto, per esempio, al proposito, che l'art. 9 comma 2, l. 7 febbraio 1990 n. 19, al pari delle norme settoriali che prevedono analoghi termini perentori (nella specie, l'art. 9, d.P.R. n. 737 del 1981), non trovi applicazione quando il procedimento disciplinare è instaurato a seguito di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti ex art. 444, c.p.p., atteso che, in tal caso, per le particolari connotazioni del procedimento penale, non può escludersi, in linea astratta, la necessità di autonomi accertamenti in sede disciplinare, con la conseguente applicabilità della disciplina generale stabilita dal d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3.

Detta conclusione, uniformemente ribadita per il termine finale, va estesa anche al termine iniziale del procedimento disciplinare se si considera, per un verso, esiste un legame indissolubile tra il termine iniziale e quello finale, in modo che l'esclusione dall'ambito di tale previsione dei procedimenti conseguenti a sentenze patteggiate non può che riguardare nel complesso la tempistica normativamente scolpita, e, per altro verso, che la stessa ratio della deroga addotta dalla giurisprudenza, che si incentra sulla necessità di un'autonoma delibazione dell'amministrazione a seguito di una sentenza che non contiene un pieno accertamento dei fatti, concerne sia la verifica dei presupposti (termine iniziale) per la sottoposizione a procedimento disciplinare che la disamina delle risultanze (termine finale) in sede di determinazione disciplinare all'esito dell'iter procedurale.

Si è sostenuto, ad esempio, che, in caso di procedimento disciplinare conseguente a sentenza penale di patteggiamento, l'amministrazione non sia vincolata al rispetto dei termini perentori di cui all'art. 9 comma 2, l. 7 febbraio 1990 n. 19, in tema di destituzione del pubblico dipendente in esito a procedimento disciplinare (inizio del procedimento entro 180 giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna, conclusione dello stesso nei successivi novanta giorni), bensì dei termini dinamici di cui all'art. 120 comma 1, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (Consiglio Stato , sez. VI, 30 ottobre 2006 , n. 6448).

3. Con il terzo motivo di ricorso (Violazione ed erronea applicazione dell’art. 24, c. 6, c.c.n.l. pubblicato sulla G.U. n. 124, s.o., del 30/5/1995, con riferimento all’art. 6, c. 1, d.m. 20/11/1995, n. 540, sviamento di potere), l’appellante lamenta che il procedimento disciplinare doveva concludersi entro il termine perentorio di 120 giorni dalla data di contestazione dell’addebito.

Nel caso di specie il provvedimento, dopo essere stato sospeso, è stato riavviato in data 24 settembre 1996;
il provvedimento disciplinare reca la data del 24 gennaio 1997 ed è stato notificato in data 4 febbraio 1997, sicché l’atto sarebbe tardivo.

Secondo l’appellante è errato ritenere che il dies a quo sia dato dalla comunicazione del riavvio del procedimento (27 settembre 1996) e il dies ad quem dalla data di adozione del provvedimento disciplinare (24 gennaio 1997), poiché l’art. 24, c. 6, del c.c.n.l. recita “Il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla data della contestazione dell’addebito”.

Anche tali deduzioni risultano infondate e vanno respinte.

E’ corretto invocare il principio generale per cui, pur in assenza di una norma che imponga uno specifico termine per la conclusione della istruttoria del procedimento disciplinare, l’Amministrazione è tenuta a esercitare il potere punitivo in un arco di tempo tale da non compromettere il corrispondente diritto dell’inquisito di vedere definita la propria posizione in un termine ragionevole, sicché il protrarsi ingiustificato della inerzia dell’amministrazione comporta l’esaurirsi di quel potere, con conseguente illegittimità del provvedimento adottato tardivamente (così, Consiglio Stato, V, 9 marzo 2010, n.1374).

Tuttavia, nel caso di specie il dies a quo del procedimento non è dato dal provvedimento di contestazione degli addebiti, già adottato sin dal 1995, ma dal provvedimento con il quale è stato riattivato il procedimento disciplinare, in precedenza sospeso ai sensi dell’art. 25, c. 8, c.c.n.l. comparto Ministeri.

Detto provvedimento reca la data 24 settembre 1996 ed è stato comunicato al ricorrente, come risulta dalla nota di ricevuta in calce allo stesso, in data 27 settembre 1996.

Esso recita testualmente: “Il procedimento disciplinare avviato e contestualmente sospeso con atto di incolpazione 21.10.1995 è riattivato a decorrere dalla data di comunicazione del presente P.D.G..”.

Il provvedimento medesimo provvede a fissare quale dies a quo ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 24, c. 6, c.c.n.l., la data del 27 settembre1996.

Poiché il termine perentorio entro cui si deve concludere il procedimento disciplinare si calcola a partire dalla data di notificazione della formale contestazione degli addebiti (così, Consiglio Stato, IV, 26 gennaio 1999, n.76), nella specie deve intendersi decorrente dalla comunicazione della riattivazione (quale nuovo avvio del procedimento).

Per quanto attiene al dies ad quem ritiene il Collegio di aderire all’orientamento più volte espresso dal questo Consiglio ( Sez. IV, 14 aprile 2004, n. 2113;
Sez. IV, 5 agosto 2005, n. 4169), secondo il quale la comunicazione del provvedimento disciplinare (quale provvedimento finale) costituisce un elemento estraneo alla perfezione e validità dell’atto, di talché la tempestività della comunicazione non incide sulla legittimità del provvedimento - ai sensi dell’art. 24, c. 6, c.c.n.l. - ma solo sulla decorrenza del termine per una eventuale impugnazione.

Poiché il procedimento disciplinare è stato riattivato a decorrere dal 27 settembre 1996 e la sanzione disciplinare è stata adottata in data 24 gennaio 1997, risulta pienamente rispettato il termine di 120 giorni di cui all’art. 24, c. 6, c.c.n.l.

Anche il terzo motivo d’appello va perciò respinto.

4.Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto, con conseguente conferma della impugnata sentenza.

La condanna alle spese ed agli onorari del secondo grado del giudizio segue il principio della soccombenza. Di essa è fatta liquidazione in dispositivo.

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