Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2014-09-10, n. 201404604
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N. 04604/2014REG.PROV.COLL.
N. 04922/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso n. 4922/2013 RG, proposto dal Ministero dell'interno e dall’UTG - Prefettura di Reggio Emilia, in persona dei rispettivi legali rappresentanti
pro tempore
, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici si domiciliano in Roma, via dei Portoghesi n. 12,
contro
il sig. S C, rappresentato e difeso dall'avv. G F, con domicilio eletto in Roma, via G. Antonelli n. 50, presso lo studio dell’avv. Marziale,
per la riforma
della sentenza breve del TAR Emilia Romagna – Parma, n. 131/2013, resa tra le parti, concernente il diniego d’autorizzazione all'appellato per l’esercizio di attività investigativa;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’appellato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore all'udienza pubblica del 10 aprile 2014 il Cons. S M R e uditi altresì, per le parti, il solo Avvocato dello Stato Marchini;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. – Con istanza del 24 febbraio 2010, modificata nel 2011, il sig. S C ha chiesto alla Prefettura di Reggio Emilia la licenza ex art. 134 del TULPS per lo svolgimento di investigazioni e ricerche per conto di privati, ai sensi del’art. 337 c.p.p.
Tuttavia, la locale Questura ha comunicato alla P.A. procedente l’esistenza di due procedimenti penali presso la Procura della Repubblica di Parma a carico del sig. C, per lesioni aggravate, l’uno del 2007 (proc. n. 993/07) e l’altro a seguito di querela in data 31 maggio 2011, presso la discoteca Dadaumpa di Parma nell’esercizio della di lui attività di “buttafuori”.
Sicché, con nota del 26 agosto 2011, la P.A. procedente gli ha comunicato il preavviso di rigetto di tal istanza, per mancanza dei requisiti di affidabilità e buona condotta. Nonostante le deduzioni difensive del sig. C, con decreto prot. n. 3842 del 30 dicembre 2011, il Prefetto di Reggio Emilia gli ha negato il rilascio dell’invocata licenza. Tanto perché, ad avviso del Prefetto, non erano sussistenti i «… requisiti soggettivi richiesti dall’art. 11 del R.D. n. 773 del 1931, mancando… il requisito dell’affidabilità, stante anche la specificità dei reati… ascritti …».
2. – Avverso tal statuizione è allora insorto il sig. C innanzi al TAR Parma, deducendo vari profili d’eccesso di potere (tra cui il difetto d’istruttoria e di motivazione) e la violazione dell’art. 11 del RD 18 giugno 1931 n. 773.
Con sentenza n. 235 del 27 giugno 2012, l’adito TAR ha accolto la pretesa attorea, sotto il profilo del difetto d’istruttoria e di motivazione e con salvezza dell’ulteriore attività di riesame da parte della P.A.
Quest’ultima, nelle more in cui il sig. C ha proposto un giudizio per l’ottemperanza della sentenza n. 235/2012, ha riesaminato ab imis la questione e ha nuovamente rigettato la di lui istanza in forza del decreto prefettizio prot. n. 7619 del 3 dicembre 2012. Anche tal provvedimento è stato gravato presso il TAR Parma (ricorso n. 36/2013 RG) che, con sentenza breve n. 131 del 3 aprile 2013, ne ha accolto la pretesa. Al riguardo, l’adito TAR ha annullato il secondo diniego per difetto di reali vicende ostative al rilascio dell’invocata licenza, per l’omessa valutazione complessiva della personalità dell’istante (avendo la P.A. tenuto conto delle sole querele a carico di questi, pur se non assistite da fede privilegiata) e per mancanza di vicende automaticamente preclusive al rilascio.
3. – Appellano quindi il Ministero dell’interno e la Prefettura di Reggio Emilia, con il ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità della sentenza per: A) – l’ultrapetizione rispetto al giudizio per l’ottemperanza della sentenza n. 235/2012 e la contraddittorietà del dispositivo che non annulla in modo espresso il decreto prefettizio n. 7619/2012, pur definendolo elusivo di quel giudicato;B) – l’illogicità della motivazione e l’omessa considerazione che il secondo decreto è stato emanato in esecuzione del giudicato stesso ed alla luce d’una più ampia e rigorosa istruttoria procedimentale (specie con riguardo all’abusiva attività di buttafuori da parte del sig. C, sull’elenco provinciale dei quali s’è data ampia contezza nel corso del giudizio di primo grado);C) – la violazione del principio « jura novit curia » con riguardo alla l. 15 luglio 2009 n. 94 e l’omessa considerazione delle vicende sintomatiche circa l’inaffidabilità dell’appellato. Resiste in giudizio il sig. C, che conclude per il rigetto dell’appello.
Alla pubblica udienza del 10 aprile 2014, su conforme richiesta del patrono delle appellanti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.
4. – L’appello è sì fondato e meritevole di accoglimento, ma nei limiti e per le considerazioni qui di seguito indicate.
5. – Il primo motivo di gravame, con cui le Amministrazioni appellanti lamentano l’ultrapetizione in cui sarebbe incorso il Giudice di prime cure con riguardo ad un ricorso per ottemperanza, è frutto, almeno in parte, d’un evidente equivoco.
L’impugnata sentenza n. 131/2013 è stata resa dal TAR Parma sul ricorso n. 36/2013 RG, a sua volta espressamente rivolto solo contro il (secondo) decreto prefettizio n. 7619/2012 e non certo per l’esecuzione del giudicato della sentenza n. 235/2012. Il relativo giudizio d’ottemperanza, invece introdotto dal sig. C innanzi allo stesso TAR —ma separatamente con il ricorso n. 335/2012 RG—, è stato deciso con la sentenza n. 82 del 6 marzo 2013, che ne ha dichiarato l’improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse. Sicché, è pur vero che il decreto prefettizio n. 7619/2012 è stato emanato in esecuzione ( rectius , a seguito) della citata sentenza n. 235/2012. Tanto, però, alla luce d’una nuova e più articolata istruttoria e con autonomi giudizi discrezionali —che tal sentenza aveva lasciato impregiudicati—, tant’è che giustamente è stato poi impugnato dal sig. C con un’azione di annullamento ex art. 29 c.p.a. in sede di cognizione.
Non nega il Collegio che, in effetti, la sentenza appellata non annulla in modo espresso il decreto prefettizio n. 7619/2012, dando l’impressione d’una certa qual contraddittorietà.
Ma, per l’appunto, si tratta d’una mera sensazione priva di fondamento, giacché le appellanti non colgono il principio, tanto fermo in giurisprudenza da esimere il Collegio da qualunque citazione, per cui il dispositivo, maxime nelle azioni d’annullamento ove sia accolta la domanda del ricorrente, va letto (e, quindi, interpretato) alla luce della motivazione e dei suoi singoli capi. Un dispositivo che accoglie il ricorso implica necessariamente, in esito a tali azioni, l’annullamento dell’atto impugnato e l’effetto conformativo della successiva attività di riemanazione, quand’anche, come nella specie, residuino potestà e valutazioni discrezionali in capo alla P.A. soccombente. Pertanto, detto dispositivo sarà forse stato formulato in modo infelice, ma non è in grado, di per sé solo, di qualificare diversamente né il tipo d’azione esperita, né gli effetti che la legge vi riconnette, né i poteri sostanziali che esercita la P.A. Né un’azione di cognizione trasmoda in una d’esecuzione ex art. 112 c.p.a., sol perché, delibando l’attività di riemanazione della P.A., il Giudice adito richiami, come nel caso in esame, taluni passaggi d’un precedente suo giudicato d’annullamento quale argomento per chiarire i poteri residui della P.A. stessa o per censurarne la pervicacia nell’errore.
6. – Tuttavia, se è lecito al Giudice far ciò, non basta per fondarne una motivazione sufficiente e, soprattutto, congrua rispetto ai nova introdotti dalla P.A. in esito al riesame complessivo della res controversa .
Ora, la serena lettura del decreto prefettizio n. 7619/2012 evidenzia un modo alquanto disordinato sia nella trattazione delle questioni e degli accertamenti di fatto, sia nelle deduzioni in diritto, specie nella risposta alle opposizioni dell’appellato e nella confusa citazione delle fonti.
Ma, al di là di siffatte ineleganze, la lettura del decreto porta a concludere che il diniego di rilascio dell’invocata licenza, statuito ai sensi dell’art. 11, II c., ult. parte del TULPS per assenza di buona condotta, non replichi il precedente, ma si basi su un diverso e più ampio apprezzamento di tal presupposto. In particolare, la Prefettura ha accertato: A) – per la querela sui fatti del 31 maggio 2011, che i querelanti riportarono lesioni guaribili in 30 gg., mentre il sig. C, a sua volta querelante nei riguardi di costoro, ebbe una prognosi di 5 gg.;B) – la circostanza che il sig. C svolgeva l’attività di “buttafuori” nella discoteca Dadaumpa di Parma senza esser stato iscritto nel registro apposito ex DM 6 ottobre 2009 (emanato ai sensi dell’art. 3 della l. 94/2009), presso la Prefettura di Parma;C) – la pendenza, a quella data, dei procedimenti penali n. 993/07 e n. 861/07 (poi archiviato) in capo al sig. C, sempre per i reati di lesioni personali, oltre al procedimento n. 6014/11 per il reati di lesioni personali volontarie aggravate e di minacce;D) – l’inapplicabilità al sig. C della norma transitoria ex art. 8 del DM 6 ottobre 2009, che riguarda gli investigatori privati e gli informatori commerciali già autorizzati alla data d’entrata in vigore di esso e concerne al più l’acquisizione, da parte loro, dei requisiti minimi formativi;E) – l’erroneità del richiamo del sig. C a detta norma, novellata dall’art. 1 del DM 15 giugno 2012, posto che egli ha eluso comunque il DM 6 ottobre 2009 (e NON 2010, come scrive il decreto) sull’obbligo d’iscrizione all’apposito elenco colà previsto.
Ebbene, non ha difficoltà il Collegio a convenire con il Giudice di prime cure circa l’irrilevanza del fatto che, nello scontro con i suoi querelanti nella discoteca, egli non ebbe la peggio, ma anche tal passaggio della sentenza, ammesso che lo sia quello del decreto, è al più ad colorandum .
Infatti, il decreto basa il suo giudizio sfavorevole sul sig. C NON su tal aspetto, ma su atti e comportamenti scorretti che tendono a ripetersi nel tempo. E questi, quand’anche non penalmente rilevanti, sono ictu oculi tali da far pronosticare una certa qual sua propensione alla disinvoltura nei rapporti sia con i soggetti terzi che con i titoli amministrativi. Non a caso il decreto si sofferma amplius sul difetto del titolo di operatore della sicurezza giacché, al di là degli obblighi d’iscrizione, o no, al registro telematico ex DM 6 ottobre 2009, tal vicenda rende l’appellato nulla più che un quisque de populo , tal quale a coloro che con lui si son scontrati in discoteca e senza che egli possa opporre loro una specifica qualità a protezione di beni della vita. È allora non manifestamente irrazionale, almeno allo stato degli atti, la scelta del decreto d’escludere la buona condotta proprio in base a tali considerazioni che, diversamente da ciò che afferma il TAR, costituiscono un giudizio sulla personalità dell’appellato.
È ovvio che la relativa valutazione debba incentrarsi, in caso contrario l’ampia discrezionalità della P.A. apparendo del tutto sproporzionata, non già sul complesso della di lui indole, bensì sul modo specifico con cui egli s’atteggia nell’esercizio dell’attività autorizzanda.
Ma, appunto per questo, il giudizio discrezionale, posto a tutela dei sensibili interessi sottesi alla licenza quale controllo previo delle caratteristiche personali di chi vuol svolgere un’attività di investigazione privata, non può prescindere dalla disamina rigorosa dell’affidabilità dell’appellato. Poiché nei suoi riguardi per ora vi sono seri e non emulativi o ipotetici indizi che ragionevolmente la P.A. reputa sfavorevoli, il diniego è la conseguenza necessitata, se non si dimostri (ma né il sig. C, né il TAR vi riescono efficacemente) la manifesta erroneità di tali dati. Certo, non sfugge al Collegio che questi ultimi sono transeunti, come modificabile è l’atteggiamento dell’appellato, ma allo stato le peculiari qualità e sensibilità degli interessi coinvolti nell’istanza del sig. C legittimamente fanno aggio sulla di lui pretesa e sono corroborati dai dati sul di lui comportamento.
7. – In definitiva, l’appello va accolto e le spese del doppio grado di giudizio, sussistendone giusti motivi, possono esser compensate.