Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2023-01-11, n. 202300359
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Testo completo
Pubblicato il 11/01/2023
N. 00359/2023REG.PROV.COLL.
N. 01020/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1020 del 2020, proposto dal signor -OMISSIS- rappresentato e difeso dagli avvocati A I e O C, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;
contro
il Ministero della difesa, in persona del Ministro
pro tempore
e il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, in persona del Comandante Generale
pro tempore
, rappresentati e difesi
ex lege
dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la -OMISSIS-, Sezione Seconda, -OMISSIS-resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della difesa e del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 novembre 2022, alla quale nessuna delle parti è presente, avendo la difesa dell’appellante avanzato istanza di passaggio in giudicato senza previa discussione, il Cons. Antonella Manzione;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il signor -OMISSIS- all’epoca dei fatti di cui è causa carabiniere ausiliario in servizio presso la 1^ Compagnia del 9° Battaglione Carabinieri “-OMISSIS-” di -OMISSIS- ha impugnato la sentenza segnata in epigrafe, con la quale è stata respinta la sua richiesta di risarcimento dei danni – patrimoniali e non patrimoniali – asseritamente subiti in conseguenza di un infortunio occorsogli in data 17 maggio 2001.
1.1. In particolare, mentre era comandato presso la falegnameria, nell’utilizzare la fresatrice a catena necessaria per l’esecuzione di taluni lavori, riportava « -OMISSIS- ».
2. Il Tribunale adito, dopo aver ricondotto la domanda di risarcimento del danno alla salute al paradigma dell’art. 2087 c.c., riteneva non fornita la prova della sussistenza del nesso eziologico tra la lesione subita e la violazione di una qualche regola di prevenzione da parte datoriale, in particolare l’art.113 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, invocato dall’appellante. Ciò in quanto « dalla descrizione dei fatti resa dall’amministrazione nella relazione di servizio, sul punto non efficacemente contrastata da parte ricorrente, si evince che la lesione subita dal ricorrente si è prodotta non per contatto con l’utensile ma per il violento impatto tra il pezzo di legno in lavorazione e la mano del ricorrente ».
3. L’appellante ha avanzato due motivi di censura, e segnatamente:
I) violazione degli artt. 1218 e 2087 c.c., 113 del d.P.R. n. 547 del 1955, 32, lett. b), del d.lgs. n. 626 del 1994, 30 c.p.a. e 2697 c.c., oltre che del d.lgs. n. 101 del 2008: il primo giudice non avrebbe fatto buon governo delle regole sull’onere della prova della responsabilità ex art. 2087 c.c., che impongono all’Amministrazione – e non al dipendente - di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per scongiurare il danno, adottando ogni cautela necessaria ad impedirlo. Al contrario egli sostine di aver ampiamente provato di essere stato comandato al servizio presso la falegnameria in assenza del superiore che avrebbe dovuto supervisionare l’utilizzo della fresatrice a catena, non dotata di idoneo sistema di sicurezza di cui al d.lgs. n. 626/1994 e in assenza dei dispositivi di protezione individuale di cui all’art. 382 del d.P.R. n. 547 del 1955. La causa della lesione inoltre, diversamente da quanto affermato in sentenza, non sarebbe affatto da ricondurre all’improvviso cedimento del manufatto di legno in corso di lavorazione, fissato al piano di lavoro mediante morse, salvo ipotizzare un malfunzionamento di queste ultime, anziché del macchinario. In sintesi, indipendentemente dalla individuazione della disposizione violata, non sarebbe stato comunque rispettato l’obbligo di tutela del lavoratore, anche in termini di omessa vigilanza sul rispetto degli obblighi di munirsi dei dispositivi di protezione individuale;
II) violazione e falsa applicazione degli artt. 63 e 64 c.p.a., error in iudicando e eccesso di potere per illogicità manifesta, irragionevolezza, travisamento dei fatti, difetto di adeguata istruttoria, omessa ed erronea e insufficiente motivazione: a fronte di tali ipotetiche incertezze ricostruttive il primo giudice avrebbe dovuto disporre una richiesta istruttoria aggiuntiva, acquisendo prove testimoniali a supporto della circostanza che egli era stato comandato ad eseguire i lavori di falegnameria in assenza del superiore o del dipendente civile preposti alla sorveglianza proprio per tutelarne l’incolumità fisica.
3.1. Quanto all’importo a titolo di risarcimento esso sarebbe pari ad euro 94.395,31 (euro 89.156,00, in altra parte del ricorso), calcolato sulla base di un’invalidità permanente quantificata nella misura del 12 % in apposita consulenza di parte, oltre al danno biologico e morale, in ogni caso determinati attingendo ai parametri di cui alle tabelle del Tribunale di Milano;in via subordinata, ammonterebbe ad euro 58.108,00, oltre il danno morale, fatti comunque salvi in entrambi i casi gli interessi e la rivalutazione fino al saldo effettivo.
4. Si è costituito in giudizio il Ministero della difesa, che ha versato in atti la relazione del direttore del Reparto Contenzioso e affari legali del proprio Segretariato generale datata 12 febbraio 2020, di conferma degli elementi di fatto già forniti nel giudizio di primo grado, salvo rimarcare ulteriormente che « secondo il rapporto del Comando 9° Battaglione Carabinieri “-OMISSIS-” […], l’-OMISSIS-aveva avuto la raccomandazione di lavorare sempre sotto la supervisione del Vice Brigadiere suo superiore e invece aveva svolto i lavori fonte del danno lamentato di sua spontanea iniziativa e non perché al medesimo richiesti ». Ciò troverebbe conferma anche nell’allegata relazione n. 161/2 del 5 febbraio 2002, a firma del Comandante del 9° Battaglione Carabinieri “-OMISSIS-”, ove si ribadisce che all’appellante era stato « detto », seppure in forma imprecisata, che « avrebbe dovuto utilizzare i macchinari in dotazione sempre sotto la supervisione del Vice Brigadiere, o del dipendente civile -OMISSIS-impiegato, per evitare incidenti dovuti ad un loro non corretto uso o alla dimenticanza dei mezzi di protezione individuali previsti ».
5. In vista dell’udienza, l’appellante ha versato in atti memoria di replica per ribadire la propria prospettazione, nonché nota di richiesta di pretermettere la discussione.
6. All’udienza pubblica del 29 novembre 2022, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
7. L’appello è fondato nei sensi di seguito precisati.
8. Va in primo luogo condivisa la riconduzione della fattispecie operata dal primo giudice al paradigma della responsabilità contrattuale di cui all’art. 2087 c.c., che impone al lavoratore di dimostrare l’esistenza del lamentato danno alla salute e la sua riconducibilità alla violazione degli obblighi di protezione gravanti sul datore di lavoro, tenuto a sua volta a provare di aver fatto tutto il possibile per evitarlo, adottando ogni cautela necessaria.
8.1. Ciò risponde ai consolidati arresti della giurisprudenza sia di questo Consiglio (cfr., fra le più recenti, Cons. Stato, Sez. II, 12 luglio 2022, n. 5833; id. , 11 maggio 2022, n. 3716), che della Corte di cassazione (cfr., ex plurimis , Cass. civ., sez. lavoro, 29 marzo 2022, n. 10115), che attribuiscono al lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la “nocività” dell’ambiente e il nesso causale tra i due elementi, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il primo abbia provato le predette circostanze – quello di provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, avendo adempiuto al suo obbligo di sicurezza.
9. Nel caso di specie è incontestato tra le parti che l’appellante ha subito l’infortunio mentre utilizzava la fresatrice a nastro, ancorché le versioni delle parti divergano in relazione al tipo di attrito che l’avrebbe prodotto, che ad avviso dell’appellante sarebbe da ricondurre a un difetto del macchinario, comprensivo, in denegata ipotesi, delle morse di fissaggio, mentre per l’Amministrazione sarebbe dipeso semplicemente dall’urto violento con il materiale in lavorazione, “sfuggito” alle morse medesime per cause imprecisate.
10. Sul punto possono essere condivise le ragionevoli conclusioni del primo giudice laddove escludono che la parte abbia provato il nesso eziologico tra le violazioni riconducibili al funzionamento del macchinario e l’evento dannoso, in quanto non emerge - dagli elementi di prova dedotti dal ricorrente - « la sicura dimostrazione che il danno subito sarebbe stato evitato ove l’amministrazione (datore di lavoro) avesse rispettato la norma di prevenzione invocata […]». A tale conclusione tuttavia è possibile addivenire pur senza aderire acriticamente alla ricostruzione della difesa erariale in forza della quale la mano non avrebbe interferito con la fresatrice o la morsa, ma sarebbe stata colpita violentemente dall’oggetto in lavorazione, non essendo in alcun modo possibile comprovare tale dinamica, che risulta peraltro anche meno rispondente alla tipologia di lesione prodotta (in primo luogo, una lacerazione). Quale che sia stato il fattore determinante la ferita, l’appellante non ha dimostrato, e neppure semplicemente indicato specificamente, il vizio del macchinario che l’avrebbe causata, quanto meno in termini di carenza di « mezzi di protezione atti ad evitare che le mani del lavoratore possano venire accidentalmente in contatto con l’utensile » (art. 113 del d.P.R. n. 547/1955), limitandosi ad ipotizzarlo in ragione dell’accaduto, preso atto altresì che l’ultimo documento di sicurezza risale -in verità inopinatamente – addirittura al 1997. Ne consegue la sostanziale impossibilità di addivenire a posteriori ad una ricostruzione analitica della dinamica dell’incidente, che una volta escluso - recte , non provato - il malfunzionamento del macchinario, si palesa comunque neutra ai fini dei fatti di causa. Ciò è talmente vero che lo stesso appellante finisce per prospettarne anche una versione alternativa, al fine di renderla coerente con la ricostruzione dell’Amministrazione, ipotizzando un vizio funzionale al piano di lavoro o delle morse di fissaggio. Non avendo tuttavia individuato in maniera obiettiva né tale ulteriore vizio, né la sua possibile causa, finisce poi per invocare genericamente il comportamento negligente degli operatori addetti al controllo delle condizioni di sicurezza, « essendo l’evento dannoso stato in ogni caso prodotto da un assetto organizzativo – di mezzi e di personale – non rispettoso delle norme generali sulla sicurezza dell’ambiente di lavoro » (così testualmente al § 1.3. del ricorso). Con ciò ponendosi in contrasto con il consolidato principio in forza del quale l’art. 2087 c.c. non configura in alcun modo un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendo comunque necessario « che siano ravvisabili, nella condotta del datore di lavoro, profili di colpa cui far risalire il danno all’integrità fisica patito dal dipendente » (v. ex plurimis , Cass. civ., sez. lav., 31 agosto 2020, n. 18132).
11. Tuttavia proprio la compatibilità dell’evento con un possibile agire maldestro dello stesso appellante pone in evidenza l’avvenuta violazione da parte datoriale dell’altra regola di sicurezza, egualmente invocata dall’appellante, ancorché in maniera più generica. E’ incontestato, infatti, che nel caso di specie il giovane militare di leva sia stato adibito a mansioni estranee alle funzioni tipiche dell’Arma dei Carabinieri in assenza di una preventiva formazione mirata allo scopo, dando per acquisita un’esperienza nel settore in forza di imprecisati « precedenti mestieri », sulla base della sua manifestazione di disponibilità ad effettuarle. Sul punto l’Amministrazione, anziché dimostrare di avere adottato tutte le necessarie cautele per scongiurare l’evento lesivo in concreto verificatosi, ribalta sul dipendente l’intera responsabilità dell’accaduto, che avrebbe agito non solo in autonomia, ma addirittura disattendendo gli ordini impartitigli, in quanto « volenteroso ed ansioso di mettersi in evidenza », seppure « ancora inesperto », tant’è che se ne sarebbe dovuta valutare la « posizione disciplinare […] dal Comandante della Compagnia Comando e Servizi una volta riacquistata l’idoneità al S.M.I. » (v. relazione inoltrata dal 9° battaglione Carabinieri “-OMISSIS-” al Comando dell’11^ Brigata Carabinieri in data 14 luglio 2001). Ma né dell’ordine impartito, né del procedimento disciplinare conseguito alla sua inottemperanza è traccia agli atti di causa.
11.1. Nella successiva relazione del 5 febbraio 2002 si fa effettivamente riferimento anche alle presunte limitazioni di impiego imposte avuto riguardo sia alla tipologia di attività effettuabile, che sarebbe dovuta consistere solo in « piccoli lavori di falegnameria, quali sostituzione di vetri, serrature, ecc. », che alla strumentazione, prevedendo « che per la sua sicurezza avrebbe dovuto utilizzare i macchinari in dotazione sempre sotto la supervisione del Vice Brigadiere, o del dipendente civile -OMISSIS-impiegato »: senza tuttavia nuovamente chiarire se ciò sia accaduto mediante un vero e proprio ordine, piuttosto che un mero suggerimento, e da chi sarebbe stato impartito, precisando altresì di quale tipo di utensile il militare poteva avvalersi per l’effettuazione dei richiamati « piccoli lavori di falegnameria » cui doveva rimanere circoscritta la sua attività. La limitazione peraltro sarebbe stata determinata proprio dall’esigenza di attendere « di impratichirsi nel mestiere » e dunque con la piena consapevolezza dell’inesperienza di base del lavoratore, che imponeva di adottare tutte le cautele necessarie nell’approccio ai macchinari, proprio per « evitare incidenti dovuti ad un non loro corretto uso ».
11.1.2. Neppure l’ordine di servizio del 17 maggio 2001 peraltro reca traccia di tali raccomandazioni, limitandosi sinteticamente ad indicare la tipologia del servizio cui si era adibiti (“Disp. Falegnameria”), nonché l’orario del turno (dalle ore 8 alle ore 16,10).
12. Sotto il profilo della formazione e della vigilanza l’Amministrazione non ha dimostrato in alcun modo di avere adottato tutte le cautele necessarie a scongiurare l’evento lesivo, essendo al contrario emerso che, dopo aver destinato un carabiniere ausiliare, privo di formazione specifica, ad attività di falegnameria, non ha adottato gli accorgimenti necessari ad evitare che utilizzasse la fresatrice a nastro, la intrinseca pericolosità della quale era ben nota, tanto da aver precisato, ex post , di avergli “detto” di non farlo, o comunque di non farlo in assenza di apposito controllo, nel caso di specie mancante.
13. A ciò consegue, sulla scorta dei richiamati e condivisi orientamenti giurisprudenziali sull’art. 2087 c.c., la responsabilità dell’Amministrazione nella causazione delle lesioni occorse al carabiniere ausiliare-OMISSIS--il 17 maggio 2001.
14. Risolta positivamente la questione dell’ an debeatur , occorre ora valutare il quantum debeatur, alla luce della prospettazione ricostruttiva fornita dall’appellante.
15. Non può accedersi alla richiesta percentuale di invalidità permanente del 12 %, in quanto non solo genericamente affermata (nella sintetica relazione del consulente di parte del 18 settembre 2002), ma anche in contrasto con i fatti e atti di causa per come succedutisi nel tempo. Innanzi tutto la presunta stabilizzazione della situazione (per cui la lesione si sarebbe dovuta ritenere « visto il tempo intercorso, a carattere permanente », v. le “Conclusioni”, riportate a pag. 4 della consulenza) è contraddetta dall’esito della visita del 12 dicembre 2002 della Commissione medico ospedaliera di -OMISSIS- che conclude il complesso iter per il riconoscimento della causa di servizio caratterizzato da ulteriori plurime visite, anche a distanza ravvicinata, diagnosticando ben diversi « esiti stabilizzati di ferita con perdita di sostanza del 2° dito mano sinistra », senza nulla dire delle residue conseguenze dell’impatto anche sul terzo dito, cui continua a fare riferimento il consulente di parte. Inoltre, contrastano con la invocata portata menomante, per giunta nell’entità ipotizzata, due ulteriori circostanze sopravvenute, ovvero da un lato il mancato riconoscimento dell’equo indennizzo, non essendo tali “esiti stabilizzati” ascrivibili ad alcuna delle infermità enunciate nelle tabelle allegate alla normativa, che fanno anche riferimento alla perdita di una o più falangi (decreto del 17 ottobre 2011, non impugnato);dall’altro, l’avvenuto incorporamento del militare in servizio permanente a far data dal 30 agosto 2002, senza rilevare alcuna menomazione funzionale tale da pregiudicarne, anche in minima parte, l’idoneità fisica al servizio.
16. A tutto concedere alla tesi dell’appellante dunque, tenuto conto del silenzio sul punto dell’Amministrazione, si può attribuire rilievo al documentato accorciamento distale, parametrandone il risarcimento al livello minimo di invalidità permanente (pari cioè all’1 %), stante che la perdita totale e non parziale, come nel caso di specie, di falange ungueale, e non mediana, implica secondo le tabelle dell’Inail una percentuale di invalidità pari al 6 %, ove riferita alla mano sinistra.
16.1. In relazione invece alla inidoneità temporanea, tenuto conto del numero di giorni indicati dallo stesso appellante, pari a 174, sempre in via equitativa e in assenza di contestazioni di controparte, se ne possono individuare 74 di inabilità temporanea assoluta (14 di ricovero ospedaliero e 60 di ITT) e 100 di inabilità temporanea, cha la parte indica nel 47 %.
17. Occorre rilevare come esuli dal perimetro della decisione la complessa tematica, attinta dall’appellante senza chiarirne gli effetti in termini di petitum , delle nuove frontiere della personalizzazione del danno non patrimoniale, avuto riguardo in particolare al pregiudizio morale, il cui accertamento e la cui liquidazione secondo gli ultimi arresti dei giudici di legittimità vanno riservati all’istruttoria del caso « nella sua concreta, multiforme e variabile fenomenologia » (cfr. Cass., sez. III, n. 3505 del 2022, sui profili di autonomia tra danno morale e danno biologico, con esclusione di qualunque automatismo risarcitorio laddove si accerti che i due profili coesistono; id ., sez. lavoro, n. 35237 del 2022 alla stregua della quale il danno esistenziale « all’integrità dinamico-relazionale dell’esistenza, quello biologico all’integrità psico-fisica medicalmente accertabile e quello morale all’integrità e serenità interiori sarebbero voci autonome di danno che vanno ristorate, senza che ciò determini una “duplicazione” di poste risarcitorie. La natura unitaria della categoria del danno non patrimoniale, riconosciuta a partire dalle c.d. sentenze di San Martino, non va intesa nel senso di escludere la possibilità di rilevare, all’interno di essa, le diverse componenti riconosciute dalle stesse Sezioni Unite. Non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e di un’ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica, rappresentati dalla sofferenza interiore »).
17.1. Nel caso di specie infatti l’appellante si è limitato a lamentare genericamente un danno alla propria serenità psicologica, sulla base del quale distinguere il danno biologico e quello morale, quantificato nella misura della metà del primo, non soddisfacendo in tal modo l’onere della prova (art. 2697 c.c.) che comunque sovrintende a tale richiesta di personalizzazione aggiuntiva, così da supportare il potere /dovere del giudice di liquidare equitativamente il danno ex art. 1126 c.c. riferendosi agli elementi forniti.
18. Possono attingersi elementi valutativi al sistema tabellare milanese, senza operare alcuna duplicazione di voci, in coerenza con i principi rivenienti dalle pronunce “gemelle” della Corte di Cassazione, finalizzate proprio ad evitare incrementi, al semplice variare del nomen juris (danno alla vita di relazione, esistenziale, etc. Cfr. Cass., ss.uu., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975, c.d. “primo San Martino”).
19. Ciò consente di riconoscere a titolo di risarcimento del danno subito una somma pari a euro 13.335,10, di cui euro 1.356,10, comprensiva di danno biologico e di relazione (per “sofferenza psichica”), parametrato ad un’ipotetica invalidità comunque non superiore all’ 1 % e i rimanenti euro 11.979,00 in ragione del periodo di invalidità permanente, in parte totale, in parte parametrata sul 47 %, conseguiti ai molteplici ricoveri e interventi chirurgici, peraltro di non banale consistenza (innesti ossei e simili). Deve poi aggiungersi il rimborso delle spese “vive” sostenute per visite mediche e diagnostiche, documentate in euro 1.996,00 e così per un totale di euro 15.331,00 oltre interessi dalla data della domanda al saldo.
19. In definitiva, per le considerazioni svolte l’appello va accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, in accoglimento del ricorso di primo grado va riconosciuta al ricorrente la somma di euro 15.331,00 a titolo di risarcimento per il danno subito a seguito dell’infortunio sul lavoro del 17 maggio 2001, oltre interessi dalla data della dalla domanda al saldo.
20. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.