Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-12-28, n. 201706142

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-12-28, n. 201706142
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201706142
Data del deposito : 28 dicembre 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 28/12/2017

N. 06142/2017REG.PROV.COLL.

N. 06757/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso NRG 6757/2016, proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo – MIBACT, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12,

contro

la Victor s.r.l., corrente in Pompei (NA), in persona del legale rappresentante pro tempore sig. P N, rappresentata e difesa dall'avv. R A, domiciliato ex art. 25 c.p.a. presso la Segreteria di questa Sezione in Roma, p.za Capo di Ferro n. 13 e

nei confronti di

il Comune di Pompei, in persona del Sindaco pro tempore , non costituito in giudizio,

per la riforma

della sentenza del TAR Campania – Napoli, sez. III, n. 766/2016, resa tra le parti e concernente il diniego nulla-osta archeologico per la realizzazione di una tettoia in legno su ruote (chiosco);

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Società intimata;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all'udienza pubblica del 20 luglio 2017 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti, solo l’Avvocato dello Stato Chiarina Aiello;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1. – Il sig. P N, nella sua qualità di amministratore della Victor s.r.l., corrente in Pompei (NA), è affittuario del fondo agricolo colà sito (con accessi da via Dionede e via Villa dei Misteri) e censito al NCEU fg. 8, partt. 124 e 496.

Con istanza del 12 dicembre 2011, il sig. N chiese alla Soprintendenza speciale per i bb.aa. di Pompei, Ercolano e Stabia il nulla-osta per eseguire opere di sistemazione e riparazione del predetto fondo, nonché per la riqualificazione delle piantumazioni esistenti, secondo il progetto predisposto dall’arch. Marzullo. La Soprintendenza speciale, con nota del 22 febbraio 2012, autorizzò sì il sig. N ad intraprendere detti lavori, a condizione, però, che questi fossero «… seguiti da nostro personale tecnico …», ribadendo quanto già comunicato al sig. N ed al Comune di Pompei con l’ordinanza n. 409-685/2012 e con la nota n. 4649 del 6 febbraio 2012. Il sig. N ne completò i lavori il successivo 2 aprile, apponendo uno steccato, piantando ortaggi, riqualificando il pergolato di vite e realizzando un acciottolato in corrispondenza dei due accessi.

2. – Il sig. N poi realizzò, ma senza titolo, talune strutture senza opere murarie e consistenti in manufatti amovibili ad uso buvette ed area relax (passerella in legno naturale lunga m 33 e larga m 2, in corrispondenza di detto steccato e nel senso della sua lunghezza;
pedana dello stesso materiale, posta alla fine della passerella;
teli ombreggianti sul preesistente pergolato;
tettoia in legno aperta su tre late e che poggia su ruote, ad uso chiosco). Tali opere non autorizzate son state così collocate in un’area soggetta a vincolo archeologico indiretto, ossia nella zona di rispetto a protezione del Parco archeologico di Pompei.

Appunto per questo la Soprintendenza speciale, a seguito d’un sopralluogo in situ , con l’ordinanza del 6 agosto 2012 ingiunse al sig. N la sospensione dei lavori in difformità.

Tuttavia, su tali opere il sig. N ha ottenuto il parere paesaggistico favorevole, giusta nota prot. n. 15057 del 27 maggio 2013, da parte della Soprintendenza BAP di Napoli, nonché la certificazione di compatibilità paesaggistica (certificato n. 5 del 27 luglio 2014), da parte del Comune. Sicché, con istanza dell’11 luglio 2014, il sig. N ha chiesto alla Soprintendenza speciale il n.o. per le predette opere. Quest’ultima, però e con nota prot. n. 11512 del successivo giorno 28, l’ha respinta perché esse, «… già eseguite in difformità dei lavori autorizzati originariamente… e, di conseguenza, oggetto di “sospensione lavori” …», son state realizzate su area soggetta a vincolo indiretto e, come tali, non possono esser legittimate.

3. – Contro tal statuizione, il sig. N, nella predetta sua qualità, s’è gravato avanti al TAR Napoli, col ricorso NRG 5331/2014, deducendo vari profili di censura. L’adito TAR, con sentenza n. 776 del 10 febbraio 2016, ha accolto il ricorso sotto il profilo del difetto di motivazione, non essendo stata valutata in concreto l’incompatibilità delle opere difformi col contenuto del vincolo indiretto.

Appella quindi il MIBACT, col ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza, che non ha tenuto conto né del vincolo de quo , né della natura di sanatoria riconoscibile nell’istanza attorea, né della non realizzabilità delle opere sanande. Resiste in giudizio la Victor s.r.l., per mezzo del sig. N, che conclude per l’inammissibilità e l’infondatezza dell’appello.

Alla pubblica udienza del 20 luglio 2017, su conforme richiesta del solo patrono dell’appellante, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.

4. – La Società appellata, nel costituirsi in giudizio, eccepisce anzitutto l’inammissibilità del ricorso in epigrafe, richiamando, ma poco a proposito, il ben noto principio secondo cui in appello non è consentito riproporre le medesime censure dedotte innanzi al TAR senza contestarne la statuizione.

L’eccezione è manifestamente infondata.

È jus receptum (cfr., per tutti, da ultimo Cons. St., IV, 27 marzo 2017 n. 1392) il ben noto principio secondo cui, nel giudizio amministrativo d’appello, è specifico onere dell'appellante formulare una critica puntuale della motivazione della sentenza impugnata, posto che l'oggetto di tale giudizio è costituito da quest'ultima e non dal provvedimento gravato in primo grado, donde la necessità di dedurre specifici motivi contro la correttezza dell’ iter argomentativo della sentenza. È parimenti fermo in giurisprudenza (cfr. Cons. St., III, 12 luglio 2017 n. 3427) l’avviso per il quale, sebbene il combinato disposto degli artt. 38 e 40 c. 1, lett. d), c.p.a. preveda la necessaria esposizione di siffatti motivi specifici in appello, la norma non richiede necessariamente l'impiego di formule solenni, ma ammette che le censure possano essere desunte anche dal contesto dell'atto di gravame, purché il Giudice dell'appello sia posto in condizione di comprendere con chiarezza i principi, le norme e le ragioni per cui il Giudice di prime cure avrebbe dovuto decidere diversamente.

È esattamente quel che, ad una serena lettura del ricorso in epigrafe, s’evince dai motivi d’appello. In questa sede il MIBACT ha trascritto sia il contenuto del diniego di n.o., sia ampi stralci della sentenza impugnata. Quindi ne contesta gli effetti nocivi rispetto al contenuto del vincolo indiretto archeologico gravante sull’area ove insistono le opere abusive, per poi far constare come il TAR abbia omesso di considerare il significato stesso di tal vincolo come sancito dall’art. 45 del Dlg 42/2004 e, in particolare, la natura dell’istanza di n.o. dell’appellata qual vera e propria istanza di sanatoria di opere in difformità di quelle a suo tempo autorizzate. Se si rammenta che la P.A. aveva richiamato, pur se in modo succinto, tal difformità e l’impossibilità di sanare ex post detti abusi, non è chi non veda la correttezza del suo riferimento, nel ricorso in epigrafe, non già all’istanza di detta Società in data 11 luglio 2014, bensì proprio ai provvedimenti autorizzativi del 6 e del 22 febbraio 2012 qual presupposto per il diniego a causa delle difformità.

È evidente che, essendo il Ministero risultato soccombente in primo grado, peraltro soltanto sotto il profilo del difetto di motivazione, esso non avrebbe potuto far altro che far constare la giustezza del proprio diniego a fronte non già di quanto contestatogli dall’odierna appellata, bensì di ciò che la sentenza (non) ha voluto leggere nel provvedimento che tal diniego ha disposto. Si badi: il difetto di motivazione da cui è scaturito l’annullamento di quest’ultimo, il TAR lo riconnette in pratica solo al mancato giudizio di compatibilità delle opere abusive col vincolo indiretto. Ma il Collegio non può esimersi dal notare, in via solo incidentale, che la sentenza tralascia del tutto (al di là dell’accenno contenuto a pag. 6 alla difformità delle opere) la statuita impossibilità di autorizzare o di legittimare queste ultime, la quale discende dall’art. 167 del Dlg 42/2004 (sul punto cfr. Cons. St., VI, 24 aprile 2017 n. 1907, sulla regola dell’insanabilità ex post delle opere non autorizzate).

Sicché, se erronea è l’eccezione sulla “fragilità” del predetto richiamo e la Società appellata già non riesce a dimostrare per che cosa il Ministero appellante abbia violato il divieto di jus novorum ex art. 104, c. 1, c.p.a., a più forte ragione non è perspicuo l’asserito, ma non dimostrato ampliamento del thema decidendum che il ricorso in epigrafe avrebbe provocato. Al riguardo, la Società appellata afferma che il MIBACT nulla abbia dedotto sull’accertato difetto di motivazione, mentre in realtà lo esclude proprio grazie al predetto riferimento, fondando così il diniego (pag. 3 dell’appello) sulla duplica ragione della difformità tra le opere realizzate e quelle autorizzate, nonché sull’insistenza di esse su un’area vincolata.

5. – Passando quindi al merito della vicenda, non reputa il Collegio di soffermarsi sull’asserita, ma irrilevante contraddittorietà tra la fase cautelare e quella decisoria, poiché quest’ultima ha definito a cognitio plena la controversia, mentre la prima ha avuto solo l’altro ed interinale scopo di governare ogni questione sulla gravità ed irreparabilità del danno discendente dall’immediata esecuzione del diniego impugnato.

Sulle prescrizioni per la tutela indiretta d’un bene culturale, l'art. 45 del Dlg 42/2004 assegna alla P.A. il compito di creare le condizioni affinché il valore culturale insito in detto bene si possa compiutamente esprimere senz’altra delimitazione spaziale e oggettiva, se non quella attinente alla sua causa tipica (ossia «… prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro …»), secondo criteri di congruenza, ragionevolezza e proporzionalità. Tali condizioni, come indicate dalla norma, son tra loro connesse strettamente e trovano un punto d’equilibrio nel corretto esercizio del potere di vincolo, preordinato a massimizzare lo scopo legale per cui è previsto, cioè, nel caso del vincolo indiretto, la fissazione della c.d. “cornice ambientale” del bene culturale. Sicché il limite di legittimità di tutela che siffatto vincolo esprime consiste nella proporzionata e ragionevole composizione tra misure che realizzino la cura e l'integrità del bene culturale e gli usi che ne consentano la fruizione e la valorizzazione dinamica (cfr. Cons. St., VI, 27 luglio 2015 n. 3669). Tanto, invero, perché il vincolo indiretto non ha contenuto prescrittivo tipico, spettando all'autonomo apprezzamento della P.A. la determinazione delle disposizioni utili all'ottimale protezione del bene principale, se del caso fino all'inedificabilità assoluta, nei limiti in cui ciò sia richiesto dall'obiettivo di prevenire un vulnus ai valori oggetto di salvaguardia (cfr. Cons. St., VI, 3 luglio 2014 n. 3355).

Ebbene, la Soprintendenza speciale, senza violare il vincolo e, anzi, proprio per agevolare la privata valorizzazione di alcuni usi del Parco archeologico di Pompei, non ha opposto limiti irragionevoli o incongruenti con le regole di tutela al progetto originario della Società appellata, preordinata alla sistemazione d’uno spazio di ristoro nell’area assoggettata al vincolo indiretto. Quando poi, in esito ad accertamenti in situ , ha riscontrato la creazione di opere totalmente difformi dall’autorizzazione originaria e senza detta Società ne avesse stato chiesto il preventivo assenso, è intervenuta, prima, con le misure cautelari sospensive e, quindi, col diniego dell’istanza, la quale ha dissimulato una sanatoria vera e propria. Rettamente, quindi, il Ministero appellante censura l’ error in iudicando in cui è incorso il TAR nel definire mancante di motivazione il predetto diniego, che invece era atto dovuto ed automatico a cagione dell’impossibilità legale di sanare ex post un abuso e tal percezione erronea ha inficiato il percorso argomentativo della sentenza appellata. Il difetto di motivazione al più sarebbe stato configurabile solo se alla Società appellata, nel chiedere una variante al suo originario progetto e prima di realizzarlo, la Soprintendenza speciale avesse opposto un mero rifiuto genericamente fondato sull’esistenza del vincolo indiretto, solo in quel caso occorrendo il giudizio di compatibilità specifica dell’intervento con le regole vincolistiche.

Va infatti condivisa la preoccupazione del MIBACT, quando teme che l’impugnata sentenza, grazie ai limiti che sconta il vincolo indiretto, possa suggerire a chiunque d’edificare sine titulo nell’area vincolata e pretenderne poi la sanatoria in via d’azione, sì da imporre alla P.A. quel giudizio di compatibilità ex post , che l’art. 167 del Dlg 42/2004, fuori dai casi di cui al c. 4, esclude del tutto.

In questi termini, l’appello va accolto, senz’uopo di ulteriore disamina delle questioni assorbite e qui riproposto, poiché tutte le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta all’esame della Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c. e gli argomenti di censura non esaminati espressamente sono stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, non idonei a supportare una conclusione di segno diverso. Le spese del doppio grado di giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

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