Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-12-15, n. 202210999
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Pubblicato il 15/12/2022
N. 10999/2022REG.PROV.COLL.
N. 01750/2022 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1750 del 2022, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato A F, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dell'Interno, Ufficio Territoriale del Governo Rieti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente revoca delle misure di accoglienza.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Ufficio Territoriale del Governo Rieti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Pres. M C e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
L’odierno appellante, cittadino -OMISSIS- e titolare di un permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale, è destinatario delle misure di accoglienza previste dal d.lgs. n. 142/2015 riservate ai richiedenti asilo privi di mezzi sufficienti a garantire il proprio sostentamento.
In data -OMISSIS-, la Prefettura della Provincia di Rieti ha revocato le misure di accoglienza nei confronti del cittadino straniero, senza tuttavia comunicare l’avvio del procedimento, in ragione sia delle ritenute esigenze di celerità del procedimento sia della asserita irreperibilità dell’interessato. Il decreto prefettizio è stato adottato in ragione dell’allontanamento del cittadino straniero dalla struttura di accoglienza senza preavviso e della conseguente violazione del contratto di accoglienza, che impone agli ospiti della struttura di dare avviso al responsabile del progetto di eventuali allontanamenti, circostanze queste idonee, secondo la Prefettura, a integrare la causa di revoca delle misure di accoglienza prevista dall’art. 23, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 142/2015.
Avverso tale decreto è insorto il cittadino straniero, chiedendo al Tar Lazio l’annullamento del provvedimento prefettizio. A supporto del gravame, il ricorrente ha, in primo luogo, lamentato la violazione e la falsa applicazione degli artt. 13 e 23 del d. lgs. n. 142/2015 e l’eccesso di potere, sotto i profili della carente istruttoria e del travisamento dei fatti. In particolare, il cittadino straniero ha giustificato il proprio allontanamento dalla struttura di accoglienza in ragione della necessità di sottoporsi a un accertamento medico in Germania, per far fronte al -OMISSIS-, rispetto al quale i numerosi controlli medici effettuati in Italia si erano rivelati vani. Premesso ciò, secondo il ricorrente, la Prefettura avrebbe omesso di considerare la causa di forza maggiore, dovuta al trattenimento dello straniero alla frontiera con l’Austria, che avrebbe impedito al ricorrente di rientrare nella struttura di accoglienza nel termine prescritto dal regolamento della struttura. In secondo luogo, il ricorrente ha prospettato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, per aver l’Amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento di revoca, senza tuttavia specificare le particolari esigenze che avrebbero potuto giustificare la mancata partecipazione al procedimento.
L’adito Tribunale ha rigettato il ricorso, ritenendo immune dai prospettati vizi il provvedimento impugnato. In particolare, il Giudice di prime cure ha ritenuto non adeguatamente provati gli estremi della causa di forza maggiore che avrebbero impedito al ricorrente di rientrare nella struttura nei termini consentiti dal regolamento del centro di accoglienza, considerando, dunque, integrati i presupposti di cui all’art. 23, comma 1, lett. a), del d. lgs. n. 142/2015, cui è subordinata la revoca delle misure di accoglienza. Il primo Giudice ha altresì considerato che la Prefettura avesse rispettato il principio di proporzionalità, atteso che la revoca era pervenuta all’esito di diversi comportamenti violativi delle regole del centro posti in essere dal cittadino straniero, rispetto ai quali erano state assicurate al medesimo adeguate garanzie di partecipazione al procedimento.
Il cittadino straniero ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado e ne ha chiesto la riforma, previa sospensione dell’efficacia esecutiva, riproponendo le censure non accolte in primo grado, in chiave critica nei confronti della gravata sentenza.
A fronte dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato presentata dal cittadino straniero, la competente Commissione presso il Consiglio di Stato ha considerato che, alla stregua della certificazione esibita, ricorressero le condizioni di reddito cui l’ammissione al beneficio è subordinata. Ha, infine, rigettato, in via anticipata e provvisoria, l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio, sulla base di una sommaria valutazione delle circostanze di fatto e di diritto riferite, dalle quali ha evinto la manifesta infondatezza delle prospettazioni attoree.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura della Provincia di Rieti, senza articolare difese.
Nella camera di consiglio del 12 aprile 2022, questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare.
In data -OMISSIS-, l’appellante ha riproposto l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio innanzi al magistrato competente, ai sensi dell’art. 126 del d.P.R. n. 115/2002.
Alla pubblica udienza del 10 novembre 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
L’appello è fondato.
Giova premettere in punto di diritto che, con ordinanza -OMISSIS-, la Terza sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Ue la questione pregiudiziale di legittimità europea dell’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015, che prevede la revoca delle misure di accoglienza a carico del richiedente maggiore di età e non rientrante nella categoria delle “persone vulnerabili”, nel caso in cui il cittadino straniero sia ritenuto autore di un comportamento particolarmente violento posto in essere al di fuori del centro di accoglienza.
Con la sentenza del 1° agosto 2022 (resa nella causa C-422/21), la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha risposto ai quesiti posti nei seguenti termini:
- L’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, deve essere interpretato nel senso che esso si applica a comportamenti gravemente violenti posti in essere al di fuori di un centro di accoglienza;
- L’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/Ue deve essere interpretato nel senso che esso osta all’irrogazione, a un richiedente protezione internazionale che abbia posto in essere comportamenti gravemente violenti nei confronti di funzionari pubblici, di una sanzione consistente nel revocare le condizioni materiali di accoglienza, ai sensi dell’articolo 2, lettera f) e g), di tale direttiva, riguardanti l’alloggio, il vitto o il vestiario, qualora ciò abbia l’effetto di privare detto richiedente della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. L’irrogazione di altre sanzioni ai sensi del citato articolo 20, paragrafo 4, deve, in qualsiasi circostanza, rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 di tale articolo, in particolare quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana.
Va anzitutto premesso che la fattispecie in esame non è del tutto sovrapponibile al caso da cui è originato il rinvio pregiudiziale. Nel caso di specie, infatti, la Prefettura della provincia di Rieti ha disposto la revoca delle misure di accoglienza, ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 142/2015, che subordina la misura revocatoria alla «mancata presentazione presso la struttura individuata ovvero abbandono del centro di accoglienza da parte del richiedente, senza preventiva motivata comunicazione alla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo competente». Tuttavia, poiché le considerazioni svolte dalla Corte di Giustizia dell’Ue nel rispondere al secondo quesito attengono alla compatibilità europea della scelta del legislatore nazionale di sanzionare le condotte di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015 con la revoca delle condizioni materiali di accoglienza, la questione posta assume rilevanza anche nel caso di specie, a prescindere dunque dalla specifica causa che giustifica l’adozione della citata misura.
Il principale parametro di giudizio della compatibilità euro-unitaria della disciplina interna di cui all’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 142/2015, è costituito dall’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, intitolato «riduzione o revoca delle condizioni materiali di accoglienza», che dispone testualmente:
«1. Gli Stati membri possono ridurre o, in casi eccezionali debitamente motivati, revocare le condizioni materiali di accoglienza qualora il richiedente:
a) lasci il luogo di residenza determinato dall’autorità competente senza informare tali autorità, oppure, ove richiesto, senza permesso;o
b) contravvenga all’obbligo di presentarsi alle autorità o alla richiesta di fornire informazioni o di comparire per un colloquio personale concernente la procedura d’asilo durante un periodo di tempo ragionevole stabilito dal diritto nazionale;o
c) abbia presentato una domanda reiterata quale definita all’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32/UE.
In relazione ai casi di cui alle lettere a) e b), se il richiedente viene rintracciato o si presenta volontariamente all’autorità competente, viene adottata una decisione debitamente motivata, basata sulle ragioni della scomparsa, nel ripristino della concessione di tutte le condizioni materiali di accoglienza revocate o ridotte o di una parte di esse.
2. Gli Stati membri possono inoltre ridurre le condizioni materiali di accoglienza quando possono accertare che il richiedente, senza un giustificato motivo, non ha presentato la domanda di protezione internazionale non appena ciò era ragionevolmente fattibile dopo il suo arrivo in tale Stato membro.
3. Gli Stati membri possono ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza qualora un richiedente abbia occultato risorse finanziarie, beneficiando in tal modo indebitamente delle condizioni materiali di accoglienza.
4. Gli Stati membri possono prevedere sanzioni applicabili alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ai comportamenti gravemente violenti.
5. Le decisioni di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza o le sanzioni di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo, sono adottate in modo individuale, obiettivo e imparziale e sono motivate. Le decisioni sono basate sulla particolare situazione della persona interessata, specialmente per quanto concerne le persone contemplate all’articolo 21, tenendo conto del principio di proporzionalità. Gli Stati membri assicurano in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria ai sensi dell’articolo 19 e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti.
6. Gli Stati membri provvedono a che le condizioni materiali di accoglienza non siano revocate o ridotte prima che sia adottata una decisione ai sensi del paragrafo 5».
Tale disposizione si inserisce nel più ampio contesto delle norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, al fine di assicurare l’osservanza dei principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché il pieno rispetto della dignità umana.
A livello pratico, i principi richiamati dalla direttiva europea 2013/33/Ue si traducono nell’impegno, da parte degli Stati ospiti, a consentire condizioni materiali di accoglienza alle persone vulnerabili, assicurando al contempo una qualità di vita adeguata alla loro specifica situazione, che ne garantisca il sostentamento e ne tuteli la salute fisica e mentale.
A tal proposito, l’art. 17 della medesima direttiva, intitolato «Disposizioni generali relative alle condizioni materiali di accoglienza e all’assistenza sanitaria», così dispone:
«1. Gli Stati membri provvedono a che i richiedenti abbiano accesso alle condizioni materiali d’accoglienza nel momento in cui manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale.
2. Gli Stati membri provvedono a che le condizioni materiali di accoglienza assicurino un’adeguata qualità di vita che garantisca il sostentamento dei richiedenti e ne tuteli la salute fisica e mentale.
Gli Stati membri provvedono a che la qualità di vita sia adeguata alla specifica situazione delle persone vulnerabili, ai sensi dell’articolo 21, nonché alla situazione delle persone che si trovano in stato di trattenimento.
3. Gli Stati membri possono subordinare la concessione di tutte le condizioni materiali d’accoglienza e dell’assistenza sanitaria, o di parte delle stesse, alla condizione che i richiedenti non dispongano di mezzi sufficienti a garantire loro una qualità della vita adeguata per la loro salute, nonché ad assicurare il loro sostentamento.
4. Gli Stati membri possono obbligare i richiedenti a sostenere o a contribuire a sostenere i costi delle condizioni materiali di accoglienza e dell’assistenza sanitaria previsti nella presente direttiva, ai sensi del paragrafo 3, qualora i richiedenti dispongano di sufficienti risorse, ad esempio qualora siano stati occupati per un ragionevole lasso di tempo. Qualora emerga che un richiedente disponeva di mezzi sufficienti ad assicurarsi le condizioni materiali di accoglienza e l’assistenza sanitaria all’epoca in cui tali esigenze essenziali sono state soddisfatte, gli Stati membri possono chiedere al richiedente un rimborso.
5. Qualora gli Stati membri forniscano le condizioni materiali di accoglienza in forma di sussidi economici o buoni, l’ammontare dei medesimi è fissato sulla base del livello o dei livelli stabiliti dallo Stato membro interessato, secondo la legge o la prassi, in modo da garantire una qualità di vita adeguata ai propri cittadini. Gli Stati membri possono accordare ai richiedenti un trattamento meno favorevole di quello che accordano ai loro cittadini, in particolare nei casi in cui un sostegno materiale è parzialmente fornito in natura o quando il livello o i livelli, applicati ai cittadini, sono intesi ad assicurare un tenore di vita più elevato di quello prescritto per i richiedenti ai sensi della presente direttiva».
Il legislatore italiano, con il d.lgs. n. 142 del 2015, ha dato attuazione alla citata direttiva, disciplinando le condizioni dell’accoglienza per i richiedenti protezione internazionale.
In particolare, l’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, sulla cui compatibilità europea si è pronunciata la Corte di Giustizia, prevede quanto segue:
«1. Il prefetto della provincia in cui hanno sede le strutture [di prima accoglienza] dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure di accoglienza in caso di:
a) mancata presentazione presso la struttura individuata ovvero abbandono del centro di accoglienza da parte del richiedente, senza preventiva motivata comunicazione alla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo competente;
[…]
e) violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti.
2. Nell’adozione del provvedimento di revoca si tiene conto della situazione del richiedente con particolare riferimento alle condizioni [riguardanti l’accoglienza delle persone portatrici di esigenze particolari] […]».
Merita osservare che la revoca delle misure di accoglienza, privando il richiedente protezione internazionale della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari – quali nutrirsi, vestirsi, lavarsi e disporre di un alloggio – è un provvedimento a carattere altamente afflittivo, rispetto al quale assume un valore particolarmente pregnante il principio di proporzionalità.
È opportuno rilevare che il principio di proporzionalità – compreso tra i principi di diritto europeo, ma già insito nella Costituzione, quale corollario del buon andamento ex art. 97 Cost. – si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato.
Ebbene, la Corte di Giustizia, nella citata sentenza, ha rilevato che:
- per quanto riguarda l’obiettivo perseguito, poiché l’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33 mira ad autorizzare gli Stati membri a sanzionare in modo adeguato i comportamenti particolarmente violenti posti in essere da un richiedente protezione internazionale, tenuto conto del pericolo che tali comportamenti possono rappresentare per l’ordine pubblico e per la sicurezza delle persone e dei beni, nulla giustifica la limitazione di tale possibilità ai soli comportamenti particolarmente violenti posti in essere all’interno di un centro di accoglienza.
- Per quanto riguarda la questione se l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33 osti all’irrogazione, a un richiedente protezione internazionale che abbia posto in essere un comportamento gravemente violento nei confronti di pubblici funzionari, di una sanzione consistente nel revocare le condizioni materiali di accoglienza, si deve constatare che l’imposizione di una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, il beneficio di tutte le condizioni materiali di accoglienza o delle condizioni materiali di accoglienza relative all’alloggio, al vitto o al vestiario è incompatibile con l’obbligo, derivante dal citato articolo 20, paragrafo 5, della menzionata direttiva, di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso, giacché tale sanzione lo priverebbe della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari, quali nutrirsi, vestirsi, lavarsi e disporre di un alloggio.
- Una sanzione del genere equivale altresì a violare il requisito di proporzionalità stabilito dall’art. 20, paragrafo 5, seconda frase, della direttiva 2013/33, in quanto anche le sanzioni più severe intese a contrastare, in ambito penale, le violazioni o i comportamenti di cui all’art. 20, paragrafo 4, di tale direttiva non possono privare il richiedente della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari.
- Alla luce di tali considerazioni, neppure rileva la circostanza secondo cui il comportamento da sanzionare può presentare un carattere particolarmente grave e riprovevole.
- Resta in ogni caso ferma la possibilità degli Stati membri di irrogare altre sanzioni, in ossequio all’art. 20, paragrafo 4, che devono in ogni caso e a prescindere dalla gravità della condotta posta in essere dallo straniero rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 del medesimo articolo, per quel che concerne in particolare il rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana.
- Tali principi si applicano, infine, a qualsiasi richiedente protezione internazionale e non ai soli richiedenti che sono persone vulnerabili ai sensi dell’art. 21 della direttiva 2013/33.
La Corte di Giustizia, con la citata pronuncia, ha dunque rafforzato la tutela dello standard minimo di vita, che era già stato affermato nella sentenza della Corte di Giustizia – Grande Sezione del 12 novembre 2019 (resa nella causa C-233/2018) – estendendolo a qualsiasi richiedente protezione internazionale, a prescindere cioè dall’appartenenza alle categorie delle persone vulnerabili ai sensi dell’art. 21 della direttiva 2013/33/Ue.
Dai principi di diritto affermati dai Giudici di Lussemburgo deriva che la revoca delle misure di accoglienza, laddove non consente di graduare la risposta sanzionatoria alla gravità del fatto commesso, non soltanto risulta – a conti fatti – eccessivamente gravosa rispetto alla convenienza del risultato ottenibile, ma altresì rivela la sua non necessarietà, vale a dire la sua sostituibilità con altro mezzo meno gravoso per la realizzazione altrettanto efficace dell’interesse pubblico.
La ratio sottesa alla pronuncia della Corte di Giustizia dell’Ue consente di ritenere che la disposizione in esame, nel prevedere che in caso di abbandono del centro di accoglienza da parte del richiedente, senza preventiva comunicazione alla Prefettura, l’unica sanzione da applicare consista nella revoca, peraltro definitiva, delle misure di accoglienza originariamente riconosciute in favore dello straniero, si pone in netto contrasto con l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della menzionata direttiva, come interpretato dalla Corte di Giustizia. Infatti, la sanzione prevista dal Legislatore italiano e attuata dall’Amministrazione, da un lato, non lascia spazio ad alcuna graduazione, contravvenendo perciò al principio di proporzionalità, e, dall’altro, non consente di predisporre una tutela delle esigenze elementari dello straniero attinto dalla misura sanzionatoria, contrastando così con la necessaria tutela della dignità umana.
Sul punto, la Corte di Giustizia, nella sentenza della Grande Sezione del 12 novembre 2019 (resa nella causa C-233/2018), ha invero riconosciuto la possibilità degli Stati membri di sanzionare le condotte di cui all’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, a patto che tali sanzioni siano graduate a seconda delle circostanze del caso concreto e che, soprattutto, non abbiano l’effetto di privare il richiedente delle condizioni materiali di accoglienza.
Da ciò deriva che l’art. 23, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 142/2015, nella misura in cui impone all’Autorità prefettizia di revocare le misure di accoglienza al cittadino straniero richiedente protezione internazionale, senza consentire di modulare la sanzione a seconda delle circostanze del caso concreto e privando, di fatto, l’interessato della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari, si pone in contrasto con il diritto eurounitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Tanto premesso, ai fini della decisione del caso in esame, si deve ricordare che per costante giurisprudenza le pronunce della Corte di Giustizia dell’Ue hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati membri, al pari dei regolamenti e delle direttive, vincolando sia le Amministrazioni che i giudici nazionali alla disapplicazione delle norme interne con esse confliggenti (v. Corte Cost. sentenze n. 113 del 1985 e 389 del 1989;ordinanze n. 274 del 1986 e 132 del 1990).
Da ciò discende che la regula che disciplina il caso in esame deve rinvenirsi non solo nella normativa di cui alla direttiva 2013/33/Ue e al d.lgs. n. 142/2015, ma anche nella sentenza della Corte di Giustizia del 1° agosto 2022 (resa nella causa C-422/2021).
Applicando le sopra riportate coordinate ermeneutiche alla fattispecie concreta dedotta in giudizio, deve essere disapplicata nel caso di specie la disposizione di cui alla lettera a) dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, siccome contraria al diritto dell’Unione europea, e dichiararsi dunque l’illegittimità del provvedimento di revoca delle misure di accoglienza gravato in primo grado, in quanto avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari, in primis il diritto all’alloggio e tutti i diritti che da esso derivano.
Il Collegio è consapevole che la declaratoria di illegittimità europea e la conseguente disapplicazione della normativa nazionale in contrasto con il diritto euro-unitario creano un vuoto normativo, in quanto l’ordinamento non prevede alcuna sanzione alternativa alla revoca a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale che si siano resi responsabili di comportamenti gravemente violenti. Né, allo stato, risulta alcun intervento del Legislatore atto a colmare il vuoto normativo venutosi a creare già per effetto della richiamata sentenza Corte di Giustizia dell’Ue – Grande Sezione del 12 novembre 2019 (resa nella causa C-233/2018).
Rimane tuttavia riservato al Legislatore, nel rispetto del principio costituzionale della separazione dei poteri, il compito di apprestare una disciplina che adegui il regime delle sanzioni sia alle esigenze di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, sia al particolare status dei richiedenti protezione internazionale, intervento divenuto ormai indifferibile, non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto europeo come fornita dalla Corte di Giustizia dell’Ue.
In conclusione, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza deve essere accolto il ricorso di primo grado e annullato il provvedimento in quella sede avversato.
Dall’accoglimento del ricorso deriva altresì l’accoglimento dell’istanza di ammissione al gratuito patrocinio.
Le spese di giudizio, in ragione del complessivo andamento della vicenda processuale e dei profili di novità della questione che hanno reso necessario l’intervento della Corte di Giustizia, possono essere compensate tra le parti.