Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2011-07-13, n. 201104258

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2011-07-13, n. 201104258
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201104258
Data del deposito : 13 luglio 2011
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 02783/2006 REG.RIC.

N. 04258/2011REG.PROV.COLL.

N. 02783/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2783 del 2006, proposto da:
Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Comando Generale della Guardia di Finanza;

contro

S M;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Puglia, Lecce, Sezione III^, n. 5374 dd. 25 novembre 2005, resa tra le parti e concernente trasferimento d’autorità per esigenze di servizio.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 marzo 2011 il Cons. Fulvio Rocco e udito per l’appellante Ministero l’Avvocato dello Stato Amedeo Elefante;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.1.L’attuale appellante, dott. Marco S, è Maresciallo ordinario della Guardia di Finanza in servizio presso il Comando Nucleo Polizia Tributaria di Brindisi.

In data 7 ottobre 2004 il S ha ricevuto la notifica del proprio trasferimento, con effetto immediato, dal Comando Regionale della Puglia al Comando Regionale del Piemonte della Guardia di Finanza.

1.2. Con ricorso proposto innanzi al T.A.R. per la Puglia, Sezione staccata di Lecce, il S ha pertanto chiesto l’annullamento di tale provvedimento e di ogni altro atto presupposto e conseguente.

Il S ha dedotto in tale primo grado di giudizio l’erronea interpretazione e la falsa applicazione dell’art. 7 della L. 7 agosto 1990 n. 241 per omessa comunicazione di avvio del procedimento, violazione del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, violazione del principio del giusto procedimento, violazione dell’art. 3 della medesima L. 241 del 1990 per mancanza di motivazione, eccesso di potere per difetto di motivazione, nonché eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica.

1.3. Si è costituito in giudizio il Ministero delle Finanze replicando puntualmente alle censure avversarie e concludendo per la reiezione del ricorso.

1.4. Con ordinanza n. 1223 dd. 28 ottobre 2004 la Sez. III del T.A.R. adito ha accolto la domanda di sospensione cautelare del provvedimento impugnato e, quindi, con sentenza n. 5374 dd. 25 novembre 2005 ha accolto il ricorso annullando il provvedimento medesimo.

2.1. Avverso tale sentenza ha proposto il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha quindi proposto il ricorso in epigrafe, chiedendone la riforma.

Il Ministero ha dedotto al riguardo l’assenza del difetto di motivazione ravvisato dal giudice di primo grado nei riguardi del provvedimento impugnato, la fondatezza delle ragioni a sostegno del trasferimento adottato e l’inapplicabilità, nella specie, dell’obbligo di inoltro della comunicazione dell’avvio del procedimento di cui all’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990.

2.2. Non si è costituito in giudizio l’appellato S.

2.3. Con ordinanza n. 3202 dd. 27 giugno 2006 la Sezione ha disposto a’ sensi dell’allora vigente art. 33, commi 3 e 4, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 la sospensione degli effetti della sentenza impugnata, ribadendo al riguardo “il costante orientamento” della Sezione medesima “secondo il quale il trasferimento d’ufficio del militare appartiene alla categoria degli ordini, per la quale non trova applicazione l’art. 7 della L. 241 del 1990 in tema di partecipazione al procedimento amministrativo” e “considerato che il provvedimento in esame deve essere osservato alla luce del nuovo art. 21-octies della L. 11 febbraio 2005 n. 15” (recte: “del nuovo art. 21-octies della L. 241 del 1990 come introdotto dall’art. 14, comma 1, della L. 11 febbraio 2005 n. 15 ).

2.4. Alla pubblica udienza del 15 marzo 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

3.1. Tutto ciò premesso, il ricorso in epigrafe va accolto.

3.2. Secondo il giudice di primo grado, tutte le censure ivi prospettate dal S si incentrano sulla problematica più generale costituita dall’applicabilità all’Amministrazione militare delle previsioni della L. 7 agosto 1990 n. 241 e, in particolare, delle previsioni che riguardano la comunicazione di inizio procedimento e l’obbligo di motivazione degli atti amministrativi.

Tale problematica – sempre secondo il T.A.R. – risulterebbe “caratterizza da un forte contrasto interpretativo tra un primo orientamento che ritiene di poter riportare i provvedimenti dell’Amministrazione militare in materia di trasferimento al genus degli ordini, ricollegabili alla normativa della disciplina militare e sottratti quindi nell'ambito di applicazione della L. 241 del 1990 (cfr. ad es. T.A.R. Toscana, Sez. I, 9 giugno 2003 n. 2346;
T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 22 settembre 2003 n. 11545;
nello stesso senso, ma con motivazione leggermente diversa, Consiglio Stato, Sez. IV, 30 giugno 2005 n. 3585)
e un secondo orientamento che ha riaffermato con forza l’applicabilità delle previsioni della legge n. 241 del 1990 all’Amministrazione militare: i provvedimenti di trasferimento del personale militare non si sottraggono al generale obbligo di motivazione di cui all’art. 3 della L. 7 agosto 1990 n. 241, dato che l’Amministrazione militare è tenuta ad esporre, succintamente ma compiutamente, le ragioni della scelta operata, non potendo esserle riconosciuta una discrezionalità assoluta ed insindacabile, per cui (come nella specie) il solo impiego della locuzione “d’autorità”, non consentendo di comprendere l’ ite r logico seguito dall’Amministrazione militare per l’adozione del provvedimento, appare inidoneo a soddisfare l’esigenza sottesa all’obbligo di motivazione, mentre il riferimento (nella specie, contenuto nel preavviso d’inizio del procedimento) a “(...) sopraggiunte esigenze funzionali di ripianamento delle carenze organiche ..” lascia, comunque, incomprensibili le ragioni per le quali la scelta relativa alla sede … sia caduta proprio sul soggetto de quo ” (T.A.R. Emilia Romagna Parma, 20 ottobre 2004, n. 682;
T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 25 maggio 2005, n. 900;
ritengono che l’inquadramento dei provvedimenti dell’Amministrazione militare nella categoria degli ordini non possa comunque importare l’esclusione dell’applicabilità delle previsioni della L. 241 del 1990: Consiglio Stato, sez. III, 8 luglio 2003 n. 2346 e T.A.R. Abruzzo, Pescara, 22 maggio 2003 n. 536)”
(cfr. sentenza impugnata, pag. 3 e ss.).

Il giudice di primo grado ha quindi affermato di condividere “l’impianto motivazionale delle decisioni favorevoli all’applicabilità delle previsioni della L. 241 del 1990 anche ai provvedimenti dell’Amministrazione militare;
in particolare, merita certamente adesione l’orientamento che ha radicato l’applicabilità delle previsioni della L. 241 del 1990 agli atti dell’Amministrazione militare sulle seguenti considerazioni: a) l’obbligo generale di motivazione
introdotto dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) concerne tutti indistintamente gli atti della Pubblica Amministrazione che abbiano natura provvedimentale, escludendo unicamente gli atti normativi e gli atti a contenuto generale;
b) L’esistenza di un potere ampiamente discrezionale ed il contestuale obbligo del militare di eseguire gli ordini ricevuti con prontezza, senso di responsabilità ed esattezza (articolo 25, comma 1, del Regolamento di disciplina militare, approvato con D.P.R. 18 luglio 1986 n. 545) non escludono l’interesse del sottoposto ad attivare i rimedi giustiziali e giurisdizionali approntati dall'ordinamento. Infatti anche ai militari vanno sicuramente riconosciuti i diritti costituzionali previsti dal’art. 24 Cost. (
“Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi” ) e dall’art. 113 Cost. ( “Contro gli atti della Pubblica amministrazione è sempre ammesso alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli o organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti ”).Ma per aversi una tutela reale, occorre che i provvedimenti dell'Autorità militare siano motivati. Infatti è proprio grazie all'esame della motivazione che il Giudice della legittimità ricostruisce l’ iter logico seguito dall’Autorità emanante e verifica il corretto esercizio del potere, garantendo effettivamente la tutela che gli viene richiesta. c) Il Collegio non ignora che nei confronti dei provvedimenti dell’Autorità militare possono sussistere particolari esigenze di riservatezza (per ragioni di difesa della Patria, per ragioni di tutela del segreto militare, per la salvaguardia dell'ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità) che attenuano l’obbligo di motivazione. In tal caso l’obbligo della motivazione (che sussiste anche in questo caso) potrà essere adempiuto mediante il generico richiamo a documenti e atti di carattere interno, il cui contenuto dovrà essere esternato nel momento in cui saranno venute meno le esigenze del segreto (T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 25 maggio 2005, n. 900)” (cfr. ibidem ).

Sempre secondo il T.A.R., quindi, “la rilevata applicabilità delle previsioni della L. 241 del 1990 anche agli atti dell’Amministrazione militare, porta all’accoglimento del ricorso;
nel caso di specie, infatti, l’Amministrazione procedente ha sicuramente violato le previsioni dell’art. 7 (è mancata del tutto la comunicazione di inizio procedimento e, comunque, una qualche forma di contraddittorio in ordine all’adottando provvedimento di trasferimento) e dell’art. 3 (il generico riferimento ad un trasferimento
“d’autorità per esigenze di servizio” è assolutamente inidoneo ad integrare l’obbligo di esternare le ragioni del provvedimento previsto dall’articolo citato) della L. 241 del 1990. Del resto, nessuna rilevanza può essere attribuita alle argomentazioni contenute nella memoria conclusionale dell’Avvocatura dello Stato in ordine alla presunta sussistenza di una situazione di incompatibilità ambientale che avrebbe legittimato, in particolare, l’omissione della comunicazione di inizio procedimento, in virtù delle “particolari esigenze di celerità connesse all’adozione della misura” . Come già rilevato, infatti, il provvedimento impugnato reca solo un generico riferimento alle “esigenze di servizio” che avrebbero imposto il trasferimento;
manca, quindi, del tutto una qualsiasi enunciazione nell’atto impugnato che possa portare a concludere per la necessità di riportare l’intera vicenda all’istituto del trasferimento per incompatibilità ambientale. Deve pertanto concludersi per la necessità di riportare l’intera fattispecie alla
“normale” ipotesi del trasferimento per esigenze di servizio;
fattispecie, come già visto, che soggiace al rispetto delle previsioni degli artt. 7 e 3 della L. 241 del 199
0 (cfr. ibidem ).

3.3. Questo Collegio, a sua volta, evidenzia innanzitutto che per costante giurisprudenza di questo Consiglio i provvedimenti di trasferimento d’autorità del personale militare rientrano nel genus degli “ordini” (cfr. sul punto , ex plurimis , la sentenza n. 1677 dd. 20 marzo 2001 resa da questa stessa Sezione).

L’ “ordine” tradizionalmente trae il proprio fondamento normativo dall’art. 4, commi 2 e 4, della L. 11 luglio 1978 n. 382, laddove rispettivamente si dispone che il militare “osserva con senso di responsabilità e consapevole partecipazione tutte le norme attinenti alla disciplina ed ai rapporti gerarchici” e che gli ordini devono “essere conformi alle leggi ed attinenti alla disciplina;
riguardare il servizio e non eccedere i compiti d’istituto”
, con il conseguente dovere del militare di non eseguire l’ordine la cui esecuzione costituisca manifestamente reato (cfr., ora, gli artt. 626, 1346 e 1347 del Codice dell’Amministrazione Militare, approvato con D.L.vo 15 marzo 2010 n. 66)

La disciplina testè descritta risulta del tutto conseguente ai compiti istituzionali complessivamente assolti dalle Forze Armate, a’ sensi degli artt. 11 e 52 Cost., nonché a’ sensi dell’art. 86 e ss. del D.L.vo 66 del 2010 cit., nonché da ciascuna Forza Armata o Corpo Armato dello Stato (cfr. ibidem ), assicurando quindi la difesa dello Stato, il mantenimento della pace e della sicurezza, il concorso nella salvaguardia delle libere istituzioni, nonché lo svolgimento di compiti specifici in circostanze di pubblica calamità ed in casi di necessità ed urgenza.

Risulta altrettanto evidente che l’efficienza e l’efficacia delle istituzioni rette ad ordinamento militare devono dipendere da un’organizzazione articolata in modo gerarchico, ossia secondo una catena che distribuisca le competenze in materia di pianificazione, predisposizione ed impiego delle forze in diversi livelli di responsabilità, tutti razionalmente collegati con l’indirizzo unitario di ciascuna Forza o Corpo armati;
ed è parimenti assodato che l’elemento fondamentale per il funzionamento dell’organizzazione gerarchica, oltreché nell’elevata professionalità dei singoli, risiede pure nella piena consapevolezza dell’irrinunciabile necessità di operare nel rispetto delle regole, quale strumento di efficienza e di sicurezza, posto che la regolamentazione dell’organizzazione gerarchica riguarda sia a chi assolve attività di comando, anche senza essere titolare di funzioni dirigenziali, sia a chi assolve compiti meramente esecutivi.

Il fattore unificante che qualifica l’organizzazione del “sistema” delle istituzioni militare è la “disciplina” , ossia il complesso di disposizioni normative presentemente presupposte dai predetti artt. 626, richiamate dai predetti artt. 626, 1346 e 1347 del D.L.vo 66 del 2010 e già definite dall’art. 2 del Regolamento di Disciplina Militare approvato con D.P.R. 18 luglio 1986 n. come “il principale fattore di coesione e di efficienza” , il cui scopo è quello di determinare “le posizioni reciproche del superiore e dell’inferiore, le loro funzioni, i loro compiti e le loro responsabilità” , evidenziando – altresì - come il principio della gerarchia implichi per l’inferiore il dovere di obbedire che, a’ sensi del successivo art. 5, consiste nell’esecuzione “pronta, rispettosa e leale” degli ordini.

Tali disposizioni sono state, ora, puntualmente trasferite nella superiore fonte di rango legislativo per effetto dei testè riferiti artt. 1346 e 1347 del D.L.vo 66 del 2010.

Se, dunque, lo stato di diritto ad ordinamento democratico presuppone indefettibilmente l’osservanza della legge quale obbligo generalizzato che garantisce l’esatto e corretto conseguimento degli obiettivi della comunità nazionale, le norme della disciplina militare hanno natura strumentale proprio in quanto garantiscono la puntuale e tempestiva esecuzione degli ordini che, soprattutto nelle strutture operative, sono deputati a perseguire efficienza e sicurezza per l’intera collettività.

In tale contesto, quindi, l’ “ordine militare” è per certo un atto amministrativo a contenuto precettivo che impone al destinatario un obbligo di fare, ovvero di non fare.

Mediante l’ “ordine” si realizza la funzionalità delle Forze e dei Corpi Armati che, nelle attività logistiche, addestrative ed operative, nelle fasi di pianificazione, programmazione ed esecuzione, deve essere ineludibilmente conforme ad un progetto unitario, teleologicamente razionalizzato per il raggiungimento degli obiettivi istituzionali di cui, nella catena di comando, è ultimo responsabile il Capo di Stato Maggiore di ciascuna Forza Armata, o della Difesa, ovvero il Comandante del Corpo Armato, nei confronti dell’Autorità politica.

L’osservanza della gerarchia, necessariamente contraddistinta da lealtà e prontezza, è essenziale per il funzionamento della catena di comando in quanto manifesta la piena consapevolezza del fatto che l’esercizio dell’azione di comando - anche a livello non dirigenziale - ha natura strumentale per la stessa efficienza operativa, laddove il rispetto per il superiore costituisce non già una formale deferenza per una persona di rango più elevato bensì un concreto riconoscimento delle maggiori responsabilità da assolvere attraverso atti di comando, ossia mediante “ordini” , configurati come cardini fondamentali che assicurano il funzionamento dell’organizzazione gerarchica e per il cui tramite sono regolamentate le condizioni, le modalità e le procedure per assicurare con l’attività di tutto il personale dipendente il conseguimento degli obiettivi assegnati.

Come è ben noto, a fronte della determinazione, da parte della L. 241 del 1990, delle regole generali del procedimento amministrativo, ivi compreso – tra l’altro – l’obbligo della motivazione dei provvedimenti amministrativi (cfr. ivi, art. 3), la giurisprudenza di questo Consiglio ha privilegiato una configurazione dell’ “ordine” gerarchicamente impartito all’interno della Forza o del Corpo Armati quale atto organizzativo del servizio (militare) che deve ineludibilmente rispondere a criteri di efficienza, funzionali all’efficacia dell’attività pubblica e che non deve trovare ostacoli o subire restrizioni di natura formale o procedurale che non abbiano incidenza sostanziale sui suoi contenuti, posto che esso esaurisce la propria funzione all’interno dello stesso rapporto gerarchico e, in quanto tale, intrinsecamente non necessita di motivazione (cfr. sul punto, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2006 n. 2403 e 27 ottobre 2005 n. 6048).

Detto altrimenti – e riassuntivamente – l’ordine è un precetto imperativo tipico della disciplina militare e del relativo ordinamento gerarchico e, diversamente da altri atti appartenenti concettualmente alla medesima categoria, non richiede alcuna motivazione, perché intrinseco a materia in cui l’interesse pubblico specifico del rispetto della disciplina e dello svolgimento del servizio prevalgono in modo immediato e diretto su qualsiasi altro (cfr. ibidem ).

Del resto, l’ordinamento militare, come affermato anche da Corte Cost., sentenza n. 449 dd. 17 dicembre 1999, riceve una speciale menzione dall’art. 52, terzo comma, Cost. nel senso che, ferma restando la sua collocazione all'interno dell’ordinamento giuridico generale, deve esserne apprezzata la sua assoluta peculiarità, composto com’è da un corpus omogeneo e completo di regole, non di rado più dettagliate e garantistiche di quelle relative all’impiego civile (cfr. in termini la sentenza n. 85 dd. 29 gennaio 1996 resa da questa stessa Sezione).

Tali puntualizzazioni di fondo assumono rilievo anche per quanto segnatamente attiene agli “ordini di trasferimento” del personale militare, deputati – per l’appunto – allo spostamento della sede di servizio del militare.

L’operatività delle Forze Armate e dei Corpi Armati impone infatti la necessità di impiegare il personale secondo strette esigenze funzionali: e in tale contesto il reclutamento, la formazione, l’addestramento e l’impiego sono razionalizzati in modo da garantire che, a tutti i livelli, il personale possa essere utilizzato, secondo il rispettivo profilo professionale e senza pregiudizio per gli sviluppi di carriera, esclusivamente in funzione delle esigenze operative.

Consegue da ciò che uno degli elementi caratterizzanti della specificità dello status del militare rispetto alla generalità dei dipendenti pubblici è la particolare flessibilità delle sue condizioni di mobilità.

Se, infatti, è possibile ricavare dall’ordinamento dei pubblici dipendenti ad ordinamento civile “contrattualizzato” i l principio per cui, di norma, il trasferimento debba avvenire con il consenso dell’interessato, salvo i casi eccezionali nei quali può essere disposto il trasferimento d’autorità, e comunque con uno spazio normativo in materia devoluto anche alla contrattazione collettiva (cfr., ad es., art. 30 del D.L.vo 30 marzo 2001 n. 165 e successive modifiche), per il personale militare vige il principio opposto, in quanto l’eventuale mobilità concordata con gli interessati non può per certo vincolare nel suo insieme la pianificazione generale nell’impiego delle risorse umane da parte delle istituzioni militari: e, del resto, le differenze concettuali e di disciplina positiva fra impiego civile e servizio militare sono tanto profonde ed estese, da rendere problematico ogni tentativo di assimilazione analogica o di individuazione di principi generali comuni.

In termini generali, va rimarcato che risale comunque al Capo di Stato Maggiore della Difesa, in quanto responsabile dell’impiego delle risorse umane, materiali e finanziarie assegnate per il conseguimento degli obiettivi e l’emanazione delle direttive per l’impiego in ambito interforze ed internazionale e stabilisce i criteri generali per l’impiego del personale militare (cfr. art. 25 e ss. del D.L.vo 66 del 2010 e art. 89 e ss. del D.P.R. 90 del 2010);
e, nell’ambito delle singole Forze Armate i rispettivi Capi di Stato Maggiore emanano le direttive per l’impiego ed inoltre provvedono alla trattazione delle materie relative all’impiego medesimo adottando i relativi atti amministrativi anche riguardo all’eventuale contenzioso (cfr. art. 32 e ss. del D.L.vo 66 del 2010 e art. 95 e ss. del D.P.R. 90 del 2010).

Questa attribuzione di competenza tecnico-amministrativa agli organi dell’area tecnico-operativa della Difesa deriva dalla stretta correlazione tra il governo della mobilità ed il governo delle Forze Armate, che impone l’inscindibile unitarietà nella gestione, sia operativa che amministrativa, dell’impiego del personale militare: e ciò pertanto implica che rientra nei compiti istituzionali delle Forze Armate e dei Corpi Armati la garanzia di un equo bilanciamento tra le ineludibili e del tutto primarie esigenze di funzionalità e le necessità del personale assoggettato alla gravosità della mobilità, solo marginalmente intaccato dalle procedure di concertazione di cui al D.L.vo 12 maggio 1995 n. 195 a cui ora rinvia anche l’art. 1806 del D.L.vo 66 del 2010.

In tale contesto, pertanto, il trasferimento non può che configurarsi come “ordine” , in quanto provvedimento deputato ad imporre al destinatario un obbligo di “fare” nel quadro di una pianificazione operativa, comprensiva dell’impiego del personale, risalente in definitiva alla programmazione di vertice della Forza Armata o del Corpo Armato.

Va a questo punto denotato che, per quanto segnatamente attiene alla Guardia di Finanza, per effetto dell’art. 10 della L. 23 aprile 1959 n. 189 ai militari di tale Corpo Armato si applicano il regolamento di disciplina militare per l’Esercito e la legge penale militare, e che nell’attuale (ma transitoria) coesistenza della disciplina contenuta nel D.L.vo 19 marzo 2001 n. 68 e del R.D. 3 gennaio 1926 n. 126 parimenti è desumibile, in materia di impiego e di trasferimento del personale di tale Corpo Armato, la testè descritta e del tutto necessitata correlazione tra governo della mobilità del personale e governo del Corpo che impone, nella stessa catena di comando che promana dal Comandante Generale, una parimenti inscindibile unitarietà nella gestione, sia operativa che amministrativa, dell’impiego del personale.

Ciò posto, ancor prima dell’entrata in vigore della L. 241 del 1990 la giurisprudenza di questo Consiglio aveva statuito che al personale delle Forze Armate e dei Corpi Armati non era applicabile, neppure in via analogica, la disciplina di cui all’art. 32 del T.U. approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, riguardante i trasferimenti dei dipendenti civili dello Stato e – per l’appunto – ex se presupponente un obbligo di motivazione (cfr., ad es., la sentenza n. 763 dd. 17 ottobre 1984, resa da questa stessa Sezione).

Ora, comunque, anche nella vigenza della L. 241 del 1990 la costante giurisprudenza di questo Consiglio seguita ad affermare che ineludibili esigenze di organizzazione, coesione interna e massima operatività delle Forze Armate e dei Corpi Armati impongono di sussumere nella categoria dell’ordine del superiore gerarchico i provvedimenti di trasferimento del personale militare in quanto essi in buona sostanza attengono ad una modalità di svolgimento del servizio sul territorio (cfr. in termini, ad es., le decisioni 20 marzo 2001 n. 1677 e 8 maggio 2000 n. 2641).

A maggior ragione, anche i provvedimenti di trasferimento per incompatibilità ambientale sono stati esattamente ricondotti nell’ambito del trasferimento per esigenze di servizio, non denotando una fattispecie autonoma di trasferimento (cfr., ex plurimis , le decisioni della Sezione 22 ottobre 2001 n. 5538 e 26 novembre 2001 n.5950), posto che le esigenze di servizio indicate in un provvedimento di trasferimento di sede di un militare non possono essere ricondotte esclusivamente a necessità organiche o ad impegni tecnico - operativi, bensì a tutti quei motivi di opportunità che possono oggettivamente compromettere, in modo grave, l’immagine delle Forze Armate e l’ordinato svolgimento dei compiti istituzionali affidati al personale ad ordinamento militare (cfr., ex plurimis , la dianzi citata decisione n. 2641 del 2000): e ciò, si badi, anche a tutela dello stesso militare trasferito, nella specie investito di funzioni di polizia sia giudiziaria che tributaria, fortemente incisive sulla comunità insediata in un determinato territorio.

Nè possono profilarsi obiezioni inerenti alla mancanza di tutela dei diritti fondamentali della persona.

Il nucleo essenziale di tali diritti, in un’ottica di necessario bilanciamento con valori costituzionali parimenti importanti (cfr. la già dianzi citata sentenza di Corte Cost. n. 449 del 1999) risulta infatti adeguatamente tutelato dalla stessa specialità dell’ordinamento militare laddove è contemplata l’illiceità del trasferimento discriminatorio (cfr. l’art. 17 della L. 382 del 1978 e, ora, l’art. 1468 del D.L.vo 66 del 2010) in quanto fondato su ragioni ideologiche e politiche, o comunque vessatorie (cfr. ad es., per un particolare caso, l’ordinanza cautelare n. 2268 dd. 30 novembre 1999 emessa da questa stessa Sezione): in tali evenienze, per certo non configurabili nel caso di specie, il sindacato di legittimità del giudice amministrativo dovrà comunque estendersi all’individuazione delle ragioni della scelta espressa dall’Amministrazione nell'atto impugnato, onde valutarne la proporzionalità in comparazione con la cura concreta dell'interesse pubblico perseguito e l’incisione disposta nella sfera giuridica del privato.

Da ultimo, va evidenziato che anche per quanto attiene alla dedotta omissione dell’inoltro all’interessato della comunicazione di avvio del procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990, tale incombente non è necessario, stanti le ben implicite esigenze di celerità del relativo procedimento (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. III, 20 aprile 1993 n. 330).

In via di maggior dettaglio, poi, va denotato che costituisce comunque ostacolo insormontabile, sul piano del diritto positivo, all’applicazione nella specie dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990: a) il dianzi rilevato obbligo di “pronta esecuzione” dell’ordine incombente sul militare (cfr. art. 1346 del D.L.vo 66 del 2010);
b) il correlato obbligo di formulazione chiara dell’ordine stesso, gravante sul soggetto che lo impartisce, affinché venga eseguito “senza dubbi o esitazioni” (cfr. art. 727 del D.P.R. 90 del 2010).

Sempre sul piano sistematico va pure rimarcato che l’obbligo di immediata esecuzione dell’ordine è sanzionato penalmente dalle norme incriminatrici speciali contenute nel titolo III del libro Il del codice penale militare di pace, venendo in particolare rilievo il reato di cui all’art. 173 c.p.m.p. (disobbedienza), imperniato su una fattispecie di rifiuto ritardo od omissione di obbedienza all’ordine attinente al servizio: e proprio in forza del generalissimo principio di “non contraddizione” proprio di ogni ordinamento giuridico deve dunque ragionevolmente escludersi che la disciplina di cui all’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990, di per sé mancante di qualsivoglia riferimento alla disciplina militare, abbia implicitamente abrogato tali fattispecie criminose, tutte fondate sulla tutela del bene giuridico dell’ordine pubblico militare ravvisato in chiave funzionalistica e rispettosa del canone costituzionale della tassatività, nell’insieme delle condizioni minime di esistenza del relativo ordinamento, ossia nell’organizzazione delle Forze Armate, delle sue formule e dei suoi assetti;
e, del resto, se l’ “ordine” è un atto amministrativo a forma libera, di norma unisussistente, risulta intrinsecamente difficoltoso, già sul piano concettuale, immaginare che debba essere preceduto dall'avviso di procedimento, ovvero che presupponga sempre un’istruttoria all’interno della quale acquisire le osservazioni del destinatario dell’ordine (cfr. al riguardo la dec. n.. 2641 del 2000 dianzi citata)

4. La particolare natura della controversia, implicante l’avvenuto esercizio di poteri ampiamente discrezionali, impone di compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio per entrambi i gradi del giudizio.

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