Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2014-08-08, n. 201404232

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2014-08-08, n. 201404232
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201404232
Data del deposito : 8 agosto 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 01182/2013 REG.RIC.

N. 04232/2014REG.PROV.COLL.

N. 01182/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1182 del 2013, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati I C e M M, con domicilio eletto presso lo studio della prima, in Roma, via Barnaba Tortolini, 34;

contro

Ministero della difesa, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

e con l'intervento di

ad opponendum:

per la riforma

della sentenza del T.R.G.A. - SEZIONE AUTONOMA DELLA PROVINCIA DI BOLZANO, n. 352/2012, resa tra le parti e concernente: sanzione disciplinare di stato della perdita del grado per rimozione;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione appellata;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 29 aprile 2014, il Cons. Bernhard Lageder e uditi, per le parti, l’avvocato Massella e l’avvocato dello Stato Wally Ferrante;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con la sentenza in epigrafe, il T.r.g.a. - Sezione autonoma di Bolzano respingeva il ricorso n. 73 del 2012, proposto dal Caporal maggiore scelto dell’esercito, -OMISSIS-, avverso il provvedimento del 23 dicembre 2011, con il quale il Direttore generale per il personale militare del Ministero della difesa ha decretato, nei confronti del medesimo, la perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari e, per l’effetto, la cessazione dal servizio permanente.

La sanzione era stata irrogata, in quanto in data 13 marzo 2010, in esito ad una perquisizione presso l’appartamento condotto in affitto dall’odierno appellante – in servizio presso la caserma -OMISSIS-–, disposta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano, erano state rinvenute e sottoposte a sequestro sette piante di marijuana coltivate in una serra (con semi acquistati attraverso un sito internet ), oltre a sei semi di dette piante, diversi cataloghi illustrativi per la coltivazione ed altro materiale.

In sede penale, la vicenda è stata definita con sentenza n. 83 del 3 febbraio 2011 del G.U.P. del Tribunale di Bolzano, di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 cod. proc. pen., divenuta irrevocabile il 22 marzo 2011, con la quale il ricorrente è stato condannato alla pena di mesi sei di reclusione ed euro 1.500,00 di multa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, per il reato previsto e punito dall’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per la condotta di coltivazione non autorizzata delle piante in questione (previa qualificazione del reato come fatto di lieve entità ai sensi del comma 5 del citato art. 73, e previo riconoscimento delle attenuanti generiche).

Il provvedimento disciplinare si basava sui centrali, testuali rilievi che « tale condotta, peraltro già sanzionata in sede penale, è da ritenersi deontologicamente censurabile, in quanto, con essa, il graduato ha perpetrato un’attività delittuosa propedeutica al traffico di stupefacenti, in pieno contrasto con l’esercizio delle funzioni ausiliarie svolte dagli appartenenti alle Forze armate, spesso istituzionalmente impegnate in compiti di prevenzione dei fenomeni criminosi, come contributo alla pubblica sicurezza », e che « con tale comportamento, il graduato ha agito in grave violazione dei doveri propri dello ‘status’ assunti con il giuramento e di quelli attinenti al grado e al contegno dei militari, così collocandosi in posizione di incompatibilità assoluta con l’ulteriore permanenza nel grado rivestito nella qualità di militare in servizio permanente delle Forze armate ».

L’adìto T.r.g.a., in particolare, provvedeva come segue:

(i) respingeva le censure di natura procedimentale, affermando che sia il termine di 90 giorni per l’avvio del procedimento disciplinare di stato, sia quello di 270 giorni per la sua conclusione, di cui all’art. 1392 d.lgs. n. 66 del 2010, decorrevano solo dalla conoscenza integrale della sentenza penale in capo all’Amministrazione procedente, nella specie da individuarsi alla data del 4 maggio 2011, di ricezione della comunicazione di irrevocabilità della sentenza, di cui alla nota della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano del 30 aprile 2011 pervenuta al Comando di appartenenza del ricorrente il 4 maggio 2011, con conseguente osservanza dei termini medesimi, risultando l’addebito essere stato contestato all’incolpato l’11 luglio 2011 ed essendosi il procedimento concluso con l’adozione dell’impugnato provvedimento in data 23 dicembre 2011;

(ii) respingeva il secondo motivo di ricorso, di violazione degli artt. 49 cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309 del 1990, rilevando che, a norma del combinato disposto degli artt. 445, comma 1- bis , e 653, comma 1- bis , cod. proc. pen., la sentenza penale irrevocabile di condanna esplica efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, con conseguente preclusione di ogni correlativo potere di differente valutazione della rilevanza penale del fatto in questione in sede disicplinare;

(iii) respingeva il terzo motivo di ricorso – con cui è stato dedotto il travisamento dell’oggetto della condanna penale, limitata all’imputazione di coltivazione e non estesa anche allo spaccio, come invece ritenuto nel provvedimento disciplinare –, rilevando che dalla parte-motiva dell’impugnato provvedimento emergeva che vi risultava evidenziato un mero ordine astratto di consequenzialità logica intercorrente tra la coltivazione, l’uso ed il traffico delle sostanze stupefacenti, e non anche un correlativo addebito specifico;

(iv) respingeva il quarto motivo di ricorso, di violazione del principio di proporzionalità fra addebito e sanzione irrogata, stabilito dall’art. 1355 d.lgs. n. 66 del 2010.

2. Avverso tale sentenza interponeva appello il ricorrente soccombente, deducendo i seguenti motivi:

a) l’erronea applicazione dell’art. 1392 d.lgs. n. 66 del 2010, decorrendo i termini procedimentali dalla data di comunicazione della sentenza penale alla Procura Generale, e non già dalla data della sua comunicazione all’Amministrazione procedente;

b) la violazione dell’art. 52, comma 1, cod. proc .amm., avendo l’Amministrazione resistente prodotto la documentazione relativa all’acquisizione della sentenza penale il 14 aprile 2012, due giorni oltre il termine concesso con l’ordinanza istruttoria n. 135 del 3 aprile 2012, con conseguente inutilizzabilità processuale, sicché anche sotto tale profilo la censura di violazione dei termini del procedimento disciplinare meritava accoglimento;

c) l’erronea reiezione del secondo motivo di primo grado, avendo il T.r.g.a. omesso di considerare che i fatti oggetto del giudizio penale (coltivazione) erano diversi da quelli addebitati al ricorrente in sede disciplinare (detenzione, uso e spaccio), peraltro sulla base di mere congetture rimaste prive di riscontro;

d) « Eccesso di potere per difetto di presupposto e di istruttoria, travisamento dei fatti, carenza, insufficienza, illogicità di motivazione. Mancata contestazione della propedeuticità della condotta al traffico di sostanze stupefacenti, violazione del diritto di difesa ex art. 24 della Costituzione » (v. così, testualmente, la rubrica del quarto motivo d’appello);

e) l’erronea reiezione del quarto motivo di primo grado, di violazione del principio di proporzionalità tra illecito contestato ed entità della sanzione.

L’appellante chiedeva dunque, previa sospensione della provvisoria esecutorietà dell’appellata sentenza e in sua riforma, l’accoglimento del ricorso di primo grado, compresa la domanda risarcitoria.

3. Costituendosi in giudizio, l’Amministrazione appellata contestava la fondatezza dell’appello, chiedendone la reiezione.

4. Alla pubblica udienza del 29 aprile 2014 la causa veniva trattenuta in decisione.

5. Premesso che i primi due motivi d’appello sono infondati, non determinando, per un verso, la produzione tardiva della documentazione relativa alla comunicazione della sentenza penale all’Amministrazione procedente, due giorni oltre il termine assegnato con l’ordinanza istruttoria n. 135 del 3 aprile 2012, l’inutilizzabilità processuale della documentazione medesima, comunque acquisibile d’ufficio in ogni fase e grado del giudizio, e prevedendo, per altro verso, l’art. 1392 d.lgs. n. 66 del 2010 – costituente la fonte esclusiva di disciplina del procedimento disciplinare di stato nell’ordinamento militare, secondo i principi di specialità e autosufficienza connotanti la relativa disciplina (differenziandola dal regime generale del procedimento disciplinare nel pubblico impiego) – che « il procedimento disciplinare di stato a seguito di giudizio penale, deve essere instaurato con la contestazione degli addebiti all’incolpato, entro 90 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale irrevocabili, che lo concludono, ovvero del provvedimento di archiviazione » (comma 1) e che « il procedimento disciplinare di stato, instaurato a seguito di giudizio penale, deve concludersi entro 270 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto conoscenza integrale della sentenza o del decreto penale, divenuti irrevocabili, ovvero del provvedimento di archiviazione » (comma 3), con conseguente corretta individuazione del dies a quo per l’avvio e rispettivamente per la conclusione del procedimento disciplinare alla data della comunicazione integrale della sentenza penale irrevocabile all’Amministrazione procedente, si osserva che gli altri motivi d’appello, tra di loro connessi e da esaminare congiuntamente, sono fondati nei sensi di cui appresso.

5.1. In linea di diritto, giova precisare che, secondo consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato, la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all’applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce, bensì, espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile dal giudice della legittimità, se non sub specie di eccesso di potere nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento, spettando dunque all’Amministrazione, in sede di adozione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità, insindacabile nel merito dal giudice amministrativo (v. per tutte, Cons. St., Sez. IV, 31 maggio 2007, n. 2830;
Cons. St., Sez. VI, 22 marzo 2007, n. 1350).

Con specifico riguardo al personale militare, ed in ordine alla scelta della sanzione espulsiva, è, tuttavia, anche consolidato l’orientamento secondo cui la violazione, da parte del militare, del giuramento prestato, quale che ne sia la gravità, non giustifica l’irrogazione nei suoi confronti della sanzione espulsiva in modo indifferenziato, per tutte le possibili ipotesi di violazione dei doveri di fedeltà e lealtà assunti dal militare stesso, restando comunque necessaria, in virtù dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, una differenziazione tra le stesse ipotesi, se ontologicamente diverse (v. Cons. St., Sez. IV, 20 settembre 2012, n. 5037).

In particolare, alla luce della normativa che in materia disciplinare attribuisce rilievo alla oggettiva gravità dei fatti connessi ed alla recidiva, deve ritenersi che sussista il vizio di eccesso di potere quando il provvedimento disciplinare appaia ictu oculi sproporzionato, nella sua severità, rispetto ai fatti accertati, pur se essi abbiano dato luogo ad una condanna in sede penale (Cons. St., Sez. IV, 7 gennaio 2011, n. 25;
Cons. St., Sez. IV, 16 ottobre 2009, n. 6353).

Infatti, per qualsiasi dipendente (anche per il militare che abbia prestato il giuramento di fedeltà), un isolato comportamento illecito può giustificare la misura disciplinare estintiva del rapporto di lavoro soltanto, qualora si possa ragionevolmente riconoscere che i fatti commessi siano tanto gravi da manifestare l’assenza delle doti morali, necessarie per la prosecuzione dell’attività lavorativa.

Per il principio della graduazione delle sanzioni e tenuto conto delle regole riguardanti la recidiva (per le quali i fatti acquistano una maggiore gravità, in quanto commessi dal dipendente già incorso in una precedente sanzione), l’Amministrazione non può considerare automaticamente giustificata l’estinzione del rapporto di lavoro per il solo fatto che il dipendente abbia commesso per la prima volta un reato doloso. In sede disciplinare, infatti, i fatti accaduti devono essere sottoposti ad un vaglio specifico, poiché la loro lievità può giustificare una sanzione diversa da quella massima (salve le più severe valutazioni, in presenza dei relativi presupposti, se il dipendente commetta ulteriori mancanze o, addirittura, ulteriori reati). Opinando diversamente, qualsiasi reato doloso potrebbe essere posto a base di una sanzione disciplinare espulsiva: ciò che, invece, non si può affermare, in considerazione della prassi amministrativa e del principio di proporzionalità, valorizzati dalla pacifica giurisprudenza in sede di vaglio di legittimità delle sanzioni disciplinari (v. Cons. St., Sez. IV, 7 gennaio 2011, n. 25). Invero, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio, la proporzione fra addebito e sanzione è principio espressivo di civiltà giuridica, comportando la sproporzione della sanzione la violazione del principio di ragionevolezza e di gradualità della sanzione stessa.

Questo Consiglio ha pure respinto la tesi, secondo cui la violazione degli obblighi assunti con il giuramento prestato, quale che sia la sua gravità, giustifichi la comminatoria della sanzione espulsiva, perché indice di carenza di qualità morali e di carattere e comunque lesivo del prestigio del Corpo.

Se, infatti, è incontrovertibile che le violazioni di doveri comportamentali costituiscano un vulnus al giuramento prestato, non ne consegue, tuttavia, in via automatica, che esse debbano essere tutte punite con la massima sanzione ( id est , quella espulsiva), come se il vulnus fosse di identico livello nei vari casi, poiché un siffatto assunto si rivelerebbe palesemente in contrasto con i precitati principi di ragionevolezza e proporzionalità, laddove risulti ontologicamente diversa, nelle varie ipotesi concrete, l’incidenza della violazione su quei doveri di fedeltà e lealtà assunti dal militare con la prestazione del giuramento, e laddove risulti altresì differente il livello di carenza di qualità morali e di carattere nei diversi casi concreti.

Qualora, poi (come nel caso in esame), il processo penale sia stato definito con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex artt. 444 e 445 cod. proc. pen., implicante l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato – in quanto il giudice, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di patteggiamento, se ritiene che ricorrano le condizioni per il proscioglimento –, ai fini del giudizio disciplinare una sentenza di patteggiamento non può, da sola, ritenersi sufficiente per affermare la responsabilità (disciplinare) dell’incolpato, sebbene l’Amministrazione possa fare legittimo riferimento alla condanna patteggiata per ritenere accertati, in sede disciplinare, i fatti emersi nel corso del procedimento penale, che appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente, ma ciò, soltanto sulla base di un ragionevole apprezzamento anche di tutte le altre risultanze del procedimento (v. in tal senso, ex plurimis , Cons. St., Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 733, con richiamo di altri precedenti).

5.2. Orbene, applicando le evidenziate coordinate di diritto alla fattispecie concreta sub iudice , deve pervenirsi alla conclusione che l’Amministrazione, nell’adozione dell’impugnato provvedimento, sia incorsa nel dedotto vizio di eccesso di potere (sotto i profili devoluti in appello con i motivi in esame), in quanto:

- la condotta contestata in sede penale all’odierno appellante era, specificamente, individuata dall’attività di coltivazione di sette piante di marijuana , mentre nel relativo capo d’imputazione non v’è menzione di un’« attività delittuosa propedeutica al traffico di stupefacenti », messa in rilievo nel provvedimento disciplinare, ma minimamente rimasta accertata in concreto (così come su un piano meramente astratto si muove l’affermazione, secondo cui dalle piante in questione potevano essere ricavate, dopo l’essicazione, 302 grammi di sostanza stupefacente, pari a 448 dosi singole medie, non risultando all’incolpato contestata – né, tanto meno, accertata – una condotta di produzione di sostanza stupefacente attraverso l’eventuale lavorazione delle piante coltivate, tant’è che l’incolpato non è stato trovato in possesso di strumenti utili al confezionamento e allo spaccio);

- l’impugnato provvedimento disciplinare incorre pertanto, per un verso, in un travisamento dell’oggetto specifico dell’imputazione penale, e per altro verso, in un difetto assoluto d’istruttoria in ordine all’ipotesi di produzione o di spaccio, assurgente a rilievo centrale nell’impianto motivazionale posto a suffragio del provvedimento sanzionatorio;

- in sede disciplinare non risultano valorizzate adeguatamente né la condotta tenuta dal-OMISSIS-nell’ambito procedimento penale (avendo egli stesso indicato agli inquirenti il luogo di coltivazione), né la qualificazione del fatto come di lieve entità operata dalla stessa sentenza penale, né le circostanze della natura episodica ed isolata del fatto in oggetto, dell’incensuratezza dell’incolpato (sia sul piano penale, che su quello disciplinare) e della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Il gravato provvedimento disciplinare si fonda, pertanto, oltre che su una travisata percezione del fatto di rilevanza penale addebitato al -OMISSIS-, sull’apodittico ed astratto recepimento del mero dato della pronuncia di una sentenza penale ex art. 444 cod. proc. amm. nei confronti dell’incolpato, senza tener conto delle circostanze concrete in cui si collocava l’isolato episodio addebitatogli e della sua condotta complessiva ( ante e post factum ), di rilevanza ai fini del giudizio disciplinare, incorrendo dunque nei dedotti profili di eccesso di potere sia in punto di accertamento dei fatti contestati, sia in punto di graduazione della sanzione in rapporto al tipo di mancanza commessa e alla sua gravità.

5.3. Per le esposte ragioni, in accoglimento dell’appello ed in riforma dell’appellata sentenza, s’impone l’annullamento dell’impugnato provvedimento, nei sensi di cui in motivazione, con salvezza di ogni eventuale provvedimento disciplinare di tipo non espulsivo, in ipotesi da adottare entro i termini di legge, decorrenti dal passaggio in giudicato della presente sentenza, e con ogni conseguenza di legge sul piano reintegratorio.

Nulla è dato statuire, allo stato, sulle conseguenze retributive e risarcitorie, concretamente e definitivamente determinabili solo in esito alla riedizione del potere disciplinare.

6. Tenuto conto di ogni circostanza connotante la presente controversia, si ravvisano i presupposti di legge per dichiarare le spese del doppio grado di giudizio interamente compensate tra tutte le parti.

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