Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-12-29, n. 202211575

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-12-29, n. 202211575
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202211575
Data del deposito : 29 dicembre 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 29/12/2022

N. 11575/2022REG.PROV.COLL.

N. 02438/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2438 del 2022, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato D Z, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

il Ministero dell’Interno, la Prefettura – UTG di Padova e la Questura di Padova, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,

per la riforma

della sentenza del T Veneto, sez. I, n. -OMISSIS-, non notificata, con la quale è stato respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento della Prefettura di Padova, con il quale è stato fatto divieto al signor -OMISSIS-di detenere armi, munizioni e materie esplodenti, e il provvedimento della Questura di Padova, con la quale gli è stata revocata la licenza di porto di fucile.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno, della Prefettura – UTG di Padova e della Questura di Padova;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Cons. G F e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con provvedimento della Prefettura di Padova del 16 luglio 2019 è stato fatto divieto al signor -OMISSIS-di detenere armi, munizioni e materie esplodenti.

Il provvedimento ha tratto fondamento dalla nota n. -OMISSIS-, con la quale la Stazione dei Carabinieri di-OMISSIS- ha comunicato di aver deferito all’Autorità Giudiziaria il signor -OMISSIS- per omessa denuncia e custodia di armi da sparo, in violazione degli artt. 38 e 20-bis, l. n. 110 del 1975. In particolare, nel corso di un controllo, i Carabinieri hanno accertato che le armi non si trovavano nel luogo di denuncia, ossia presso la propria residenza al civico -OMISSIS-, ma presso la residenza del padre, malato di Alzheimer, al civico -OMISSIS-, custodite in un mobile di legno con sportello a vetro non chiuso a chiave, unitamente ad una cartuccia a palla singola non denunciata, mentre in un sottoscala della medesima abitazione sono state rinvenute delle munizioni e, infine, altre munizioni sono state trovate in un armadio non sottochiave della propria abitazione. In tale circostanza, accanto alle armi e alle munizioni sono stati rinvenuti anche richiami elettroacustici per volatili;
tutto il materiale è stato posto sotto sequestro. Inoltre, agli atti a carico del signor -OMISSIS-è risultata altresì una notizia di reato del 9 ottobre 2006 per esercizio dell’attività venatoria con utilizzo di richiamo elettroacustico ed una del 23 febbraio 2010 per omessa custodia di armi.

Con provvedimento della Questura di Padova del 7 agosto 2019 è stata revocata la licenza di porto di fucile, visto il decreto di divieto di detenzioni armi e rilevata la natura vincolata del provvedimento di revoca.

2. Con ricorso proposto dinanzi al T Veneto, il signor -OMISSIS-ha impugnato tali provvedimenti. In particolare, nei confronti del provvedimento prefettizio, ha dedotto la violazione e falsa applicazione di legge (artt. 38 e 39 TULPS), la violazione del principio di buona amministrazione, ragionevolezza, proporzionalità, l’eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e contraddittorietà con precedenti atti dell’Amministrazione, la violazione e falsa applicazione dell’art. 26 della l. n. 110 del 1975;
quanto al provvedimento questorile, ha lamentato anzitutto l’illegittimità derivata dai vizi del provvedimento prefettizio e, successivamente, vizi propri del provvedimento, tra cui il difetto di motivazione, l’eccesso di potere per difetto di presupposto, la violazione e falsa applicazione dell’art. 43, co. 2., TULPS, il difetto di istruttoria, la violazione degli artt. 3 e 7 l. n. 241 del 1990.

3. Con sentenza n. -OMISSIS- il T Veneto, alla luce delle circostanze di fatto rappresentate dal signor -OMISSIS-, ha respinto il ricorso ritenendo che la valutazione circa la non piena affidabilità dell’interessato nell’uso e nella custodia delle armi non risultasse manifestamente irragionevole.

4. La citata sentenza n. -OMISSIS- è stata impugnata con appello notificato il 23 febbraio 2022 e depositato il successivo 22 marzo riproducendo sostanzialmente le censure non accolte in primo grado e ponendole in chiave critica rispetto alla sentenza avversata.

5. Il Ministero dell’Interno, la Prefettura – UTG di Padova e la Questura di Padova si sono costituiti in giudizio senza espletare difese scritte.

6. Alla pubblica udienza del 10 novembre 2022, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Come esposto in narrativa, oggetto della presente controversia sono i provvedimenti della Prefettura di Verona e della Questura di Verona con i quali è stato rispettivamente fatto divieto al signor -OMISSIS-di detenere armi, munizioni e materie esplodenti e gli è stata revocata la licenza di porto di fucile in considerazione della circostanza che la Stazione dei Carabinieri di-OMISSIS-, con nota n. -OMISSIS-, ha comunicato di aver deferito all’Autorità Giudiziaria il signor -OMISSIS-per omessa denuncia e custodia di armi da sparo, in violazione degli artt. 38 e 20-bis, l. n. 110 del 1975.

2. L’appello è infondato.

Va premesso che la materia del rilascio del porto d’armi è disciplinata dagli artt. 11 e 43 di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare.

Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi costituisce una deroga al divieto sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l. n. 110/1975. La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire.

La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che «il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse». Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che «dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti».

Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice delle leggi ha aggiunto, nella sentenza del 20 marzo 2019, n. 109, che «deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi».

La giurisprudenza, riprendendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972;
Cons. St., Sez. III, 7 giugno 2018, n. 3435).

Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici.

Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l’Amministrazione compie nell’adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso. La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato, tanto più nei casi di impiego dell’arma per attività di diporto o sportiva.

L’apprezzamento discrezionale rimesso all’Autorità di pubblica sicurezza involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi. A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo di abuso delle armi, che deve essere desunta da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo di abuso delle armi è valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi.

È in questa prospettiva, anticipatoria della difesa della legalità, che si collocano i provvedimenti con cui l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la detenzione di armi, ai quali infatti viene riconosciuta natura cautelare e preventiva (ex multis, Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 8041). Ne è prova il costante orientamento di questa Sezione, secondo cui l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea a giustificare il ritiro della licenza, addirittura senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2017, n. 1814).

Tale esegesi è peraltro confermata sul piano legislativo dalla formulazione dell’art. 39 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, laddove, nel prevedere che «il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne», considera sufficiente l’esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato.

Delineata in questi termini la natura latamente discrezionale dei provvedimenti de quibus, occorre indagare le implicazioni che da essa derivano sul piano dell’intensità del sindacato giurisdizionale.

Nel caso di specie, il giudice amministrativo è chiamato a valutare la consistenza dei fatti posti a fondamento della determinazione dell’Autorità prefettizia in ordine all’esistenza dei requisiti di legge e al pericolo di abuso delle armi, di modo che il suo sindacato sull’esercizio della funzione amministrativa consenta non solo di vagliare l’esistenza o meno di questi fatti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da essi secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva – e non sanzionatoria – della misura in esame.

In questa prospettiva, si chiede al giudice una valutazione sull’esercizio del potere amministrativo che, muovendo da un accesso pieno ai fatti rivelatori del pericolo, ne dimostri la ragionevolezza e la proporzionalità.

Altresì, la Sezione (20 ottobre 2016, n. 4391;
6 giugno 2016, n. 2407;
31 maggio 2016, n. 2310 e n. 2309), con specifico riferimento alla revoca dell’autorizzazione di polizia per omessa custodia di armi, ha esemplificato che va ravvisato un abuso quando il titolare della licenza custodisca la propria arma in modo tale che altri possa utilizzarla, ovvero con modalità palesemente inadeguate, ad es. collocandola in una cassapanca, in un cassetto di un mobile sia pure chiuso con un lucchetto, ovvero in un armadio, e cioè con modalità che consentano l’asportazione dell’arma (sez. III, 31 maggio 2016, n. 2309).

Vige, dunque, in materia, il principio per il quale, “il titolare della licenza deve porre in essere le misure volte a consentire il proprio esclusivo utilizzo dell’arma, con modalità tali da rendere oltremodo difficile che altri ne facciano uso”: “il titolare della licenza deve evitare che l’arma possa essere, nella sostanza, liberamente appresa ed utilizzata da altri” (v. Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, n. 1727).

Applicando tali coordinate ermeneutiche alla fattispecie in esame, le contestazioni mosse da parte appellante non sono suscettibili di positiva valutazione.

Principiando dalla circostanza principale posta a base del provvedimento prefettizio (i.e. i fatti rappresentati nella suddetta nota dei Carabinieri del 19 novembre 2018), il signor -OMISSIS-ha contestato gli assunti del T secondo cui “il fatto che il padre del ricorrente non fosse in condizioni fisiche idonee ad impossessarsi delle armi, non risulta decisivo. Infatti ciò non esclude che terzi potessero impossessarsi delle stesse”;
“dagli atti acquisiti risulta che nell’appartamento in questione fosse presente non solo il padre, ma altresì una badante”;
“priva di riscontro è l’affermazione del ricorrente secondo cui sarebbero stati gli stessi Carabinieri ad indicare l’armadio sito al piano inferiore ai fini della collocazione delle armi”;
“è incontestato che i due appartamenti, anche se tra loro collegati, costituiscano comunque due autonome unità immobiliari”.

Procedendo con ordine rispetto a tali rilievi, risulta in atti e, in particolare, dalla nota dei Carabinieri del 19 novembre 2018, espressamente richiamata nel provvedimento prefettizio, che i Carabinieri, durante gli interventi avvenuti nelle giornate del 18-19 novembre 2018, hanno appurato che le armi denunciate dal signor -OMISSIS-non si trovavano presso la sua residenza, ma presso quella del padre e che “in detta abitazione vi è domiciliato anche il badante del --OMISSIS-”.

Risultano, dunque, smentite per tabulas le deduzioni dell’appellante secondo cui l’unico riferimento alla badante è contenuto nei certificati medici del marzo 2019 e che non vi era alcuna prova della presenza di quest’ultima all’epoca dei fatti.

Peraltro, il riferimento al badante è riportato anche nell’annotazione di P.G. del 19 novembre 2018 (allegata alla relazione dei Carabinieri), ove è indicato che il signor -OMISSIS-, padre dell’appellante, abitava nell’appartamento di cui al civico -OMISSIS- e nel quale vi era anche il badante, ivi domiciliato, che motivava la sua presenza in loco poiché l’assistito, affetto da Alzheimer, non era autosufficiente e, pertanto, era aiutato negli elementari gesti della giornata, nonché nella somministrazione delle medicine.

Il Collegio concorda, altresì, con il primo giudice in ordine al fatto che è rimasto privo di riscontro che i Carabinieri avessero indicato il luogo di detenzione delle armi come idoneo, non rivenendosi alcuna violazione del principio di non contestazione.

Invero, dalla documentazione in atti, è emerso che nel 2010 l’appellante è stato indagato perché ha mal custodito le armi, essendo state rinvenute nel cassetto del comodino della camera da letto e nel casolare adibito a ricovero attrezzi adiacente alla propria abitazione;
nulla si evidenzia, invece, sul luogo ove avrebbero dovuto essere custodite. Anche il verbale di ricezione della denuncia relativa al furto subito dal signor -OMISSIS-nel 2015 non è decisivo in quanto si espone che le armi erano custodite nella taverna “all’interno di un armadio”, senza nient’altro aggiungere.

Quanto esposto dall’appellante, pertanto, risulta semplicemente asserito. Devono, invece, assumere rilevanza le modalità di detenzione descritte in modo particolareggiato dai Carabinieri e riportate nel provvedimento. In particolare, si riscontra che le armi non si trovavano nel luogo di denuncia, ossia presso la residenza dell’appellante al civico -OMISSIS-, ma presso la residenza del padre, al civico -OMISSIS-, custodite in un mobile di legno con sportello a vetro non chiuso a chiave, unitamente ad una cartuccia non denunciata, mentre in un sottoscala della medesima abitazione sono state rinvenute delle munizioni. Altre munizioni sono state trovate in un armadio non sottochiave della propria abitazione. Sono stati poi rinvenuti richiami elettroacustici per volatili.

Tanto basta per giudicare non priva di ragionevolezza la decisione del Prefetto di Verona di ritenere incauta la custodia delle armi, essendoci il concreto pericolo che le stesse potessero essere apprese, anche da terzi, con facilità. Lo stesso appellante ne è conscio, avendo evidenziato che “Nessun rilievo assume la mancata chiusura a chiave dell’armadio: poiché ha una parte in vetro, sarebbe sufficiente romperla per appropriarsi del contenuto e nel 2015 la pistola è stata asportata dal predetto mobile, nonostante fosse chiuso a chiave, senza rompere il vetro”, senza che possa riscontrarsi, per i motivi anzidetti, un convincimento circa l’idoneità del luogo di custodia.

Infine, la presenza di due civici diversi rende le unità abitative formalmente distinte, sicché deve ritenersi che la discrepanza tra il luogo di detenzione denunciato e quello effettivo non possa ricondursi al mero errore materiale.

Proseguendo con le ulteriori censure, secondo l’appellante l’omessa denuncia di una solo munizione – fatto non contestato – è stata dovuta al fatto che tale munizione era impiegata in relazione alla pistola oggetto di furto nel 2015 e, pertanto, “si era completamente dimenticato di possedere quella singola munizione”.

Non essendo venute meno le altre circostanze evidenziate nel provvedimento prefettizio, tale elemento rappresenta una ulteriore negligenza, che avvalora e non certo smentisce il giudizio prognostico e discrezionale condotto dalla competente Amministrazione in ordine all’inaffidabilità dell’interessato all’uso consono delle armi, non palesandosi alcuna violazione del principio di proporzionalità.

Il signor -OMISSIS-ha poi contestato la sentenza impugnata nella parte in cui ha dato rilievo ad altre circostanze valorizzate nel provvedimento prefettizio e cioè che agli atti a carico dell’appellante è risultata altresì una notizia di reato del 9 ottobre 2006 per esercizio dell’attività venatoria con utilizzo di richiamo elettroacustico ed una del 23 febbraio 2010 per omessa custodia di armi. In particolare, l’appellante ha evidenziato che tali elementi erano già stati valutati dalla stessa pubblica amministrazione con un giudizio di segno inverso, con conseguente contraddittorietà dei provvedimenti per cui è causa.

Anche tale rilievo è privo di fondamento.

Anzitutto, alla luce dei riscontri più recenti, tali circostanze pregresse hanno assunto una diversa valenza, contribuendo a comporre un quadro indiziario di allarmante pericolosità sociale in ordine all’abuso delle armi;
si giustifica il tal modo il rilievo del Prefetto di Verona che ha ritenuto che “il sig. -OMISSIS-, con i ripetuti comportamenti sopra rappresentati, non dia più le dovute garanzie di affidabilità e possa abusare delle armi”.

In secondo luogo, il Collegio condivide l’orientamento della Sezione (ex multis, 25 agosto 2020, n. 5200) in base al quale la circostanza che in passato l’Amministrazione si sia determinata in modo favorevole all’interessato, non preclude alla stessa la possibilità di operare opposte valutazioni, sia adducendo il sopravvenire di elementi di novità, sia soltanto sulla base di un ripensamento delle considerazioni svolte originariamente, per una nuova discrezionale valutazione della convenienza e opportunità della scelta originariamente compiuta, anche alla luce di mutati indirizzi di gestione degli interessi generali di settore, purché basato su elementi istruttori adeguati e su una motivazione accurata;
circostanze presenti nel caso di specie.

Accertata la legittimità del provvedimento prefettizio, ne discende la consequenziale legittimità del decreto questorile di revoca della licenza di porto di fucile, in quanto il diniego di rilascio del porto d’armi costituisce atto vincolato rispetto al divieto prefettizio di detenzione delle armi, poiché non può essere mantenuta l’autorizzazione al porto delle armi in capo ad un soggetto al quale sia stato vietato persino di detenerle, in quanto ritenuto inaffidabile (Cons. St., sez. III, 13 agosto 2018, n. 4914).

3. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.

4. Per le ragioni che precedono, l’appello deve essere respinto.

L’assenza di difese scritte da parte delle Amministrazioni appellate giustifica la compensazione delle spese e degli onorari del giudizio.

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