Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-10-20, n. 201604381

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-10-20, n. 201604381
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201604381
Data del deposito : 20 ottobre 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 20/10/2016

N. 04381/2016REG.PROV.COLL.

N. 01103/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1103 del 2014, proposto dal signor C M, rappresentato e difeso dagli avvocati Stefano Betti C.F. BTTSFN63A11D969S e Paolo Panariti C.F. PNRPLA60L14H501O, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Celimontana, 38;

contro

Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Comando Generale della Guardia di Finanza, in persona Comandante Generale in carica, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II n. 05638/2013, resa tra le parti, concernente sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze e del Comando Generale della Guardia di Finanza;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 ottobre 2016 il Consigliere Carlo Schilardi e udito l’avvocato Stefano Betti, per la parte appellante. Nessuno è comparso per le Amministrazioni resistenti.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.- Il sig. C M in servizio presso la Guardia di Finanza con il grado di Maresciallo Aiutante, veniva sottoposto a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 319, 326, 640, 56, 81, 110, 112 per fatti connessi alla sua qualità di perito selettore, in quanto alcuni candidati al concorso per Allievi Finanzieri, relativo all’anno 1995/96, erano stati trovati in possesso delle soluzioni dei test psico-attitudinali.

L'amministrazione, pertanto, con un primo provvedimento (n. 148912 del 13.7.2000) disponeva la sospensione cautelare dal servizio del sig. C M, cui seguiva un secondo provvedimento di sospensione (n. 394356/2001) a seguito di altra richiesta di rinvio a giudizio per violazione dell’art. 351 del codice penale, per supposta sottrazione o distruzione di un elemento di prova dal fascicolo d'ufficio.

Il Tribunale di Roma con sentenza n. 1548/04, passata in giudicato in data 13 marzo 2004, dichiarava non doversi procedere nei confronti del sig. M per intervenuta prescrizione dei reati ascritti, stralciando la posizione relativa al reato di cui all’art. 351 del codice penale.

L'amministrazione, in ragione della pendenza del procedimento penale riferito all’imputazione stralciata, rigettava la richiesta del sig. M di revoca della sospensione cautelare dal servizio.

Con nota del 7 settembre 2004, a seguito dell'avvio di inchiesta disciplinare, venivano contestati formalmente al sig. C M i relativi addebiti.

Il Consiglio di Disciplina, nella seduta del 9 maggio 2005, riteneva il sig. M non meritevole di conservare il grado di Maresciallo Aiutante e, conseguentemente, l'Amministrazione, con provvedimento dell'1 agosto 2005, notificato il 5 settembre 2005, ne disponeva la perdita del grado per rimozione e lo poneva a disposizione del Distretto militare competente con il grado di soldato semplice.

Avverso detto provvedimento il sig. C M proponeva ricorso al TAR per il Lazio.

Nelle more del giudizio, il Tribunale di Roma con sentenza n. 11842/2010 ha assolto il sig. M dal reato di cui all'art. 351 codice penale "perché il fatto non sussiste".

Successivamente il TAR con sentenza n. 5638 del 6 giugno 2013, ha rigettato il ricorso contro il provvedimento di perdita del grado per rimozione.

Avverso la sentenza il sig. C M ha proposto appello.

Si è costituito in giudizio il Ministero dell'Economia e delle Finanze e il Comando Generale della Guardia di Finanza, che hanno chiesto di rigettare l'appello.

All'udienza pubblica del 6 ottobre 2016 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

2.- Con il primo motivo di censura l'appellante lamenta l'erroneità della sentenza laddove non è stata riconosciuta la violazione dell’art. 117 del D.P.R. n. 3 del 1957 e della circolare n. 1 del 1993 (recante “Istruzioni sui procedimenti disciplinari di stato”) del Comando Generale della Guardia di Finanza, che prevedono che il procedimento disciplinare non può essere promosso, o se iniziato deve essere sospeso, fino al termine di quello penale.

L'appellante sostiene che la connessione, tra le imputazioni dichiarate non procedibili per estinzione del reato ed il capo di imputazione stralciato, sarebbe evidente sia sotto il profilo sostanziale che sotto il profilo processuale e l’influenza del procedimento penale ancora pendente sul procedimento disciplinare, emergerebbe dalla dichiarazione di non utilizzabilità, per nullità, dei decreti di autorizzazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali a base dell’accusa per i reati dichiarati prescritti e utilizzate, invero, nel procedimento disciplinare.

L'appellante soggiunge che la violazione e l’utilizzazione come prove nell’ambito del procedimento disciplinare di atti di indagine dichiarati successivamente nulli, comporterebbe la nullità dello stesso procedimento disciplinare, posto che l'art. 270 c.p.p. dispone che "i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza".

2b.- La censura non è meritevole di accoglimento.

Si osserva, preliminarmente, che il T.A.R. ha correttamente evidenziato che non vi sia connessione tra procedimento penale per il reato stralciato e procedimento disciplinare, anche se nel secondo sono state utilizzate intercettazioni telefoniche acquisite nel primo, la cui acquisizione eventualmente non rituale ai fini del processo penale "non ne elide il carattere di fatti storici comunque valutabili … (quale) … dato meramente confermativo e rafforzativo del corredo probatorio raccolto, già di per sé sufficiente a sostenere la fondatezza degli addebiti".

Ed invero l'Amministrazione può legittimamente promuovere un procedimento disciplinare contestando al pubblico dipendente la condotta fatta oggetto dell'imputazione nel processo penale conclusosi con sentenza irrevocabile di non luogo a procedere in ordine al reato ascritto, perché estinto per prescrizione e applicare la sanzione disciplinare ove disattenda le controdeduzioni eventualmente svolte dal dipendente a sua difesa sulla base di autonomi elementi di valutazione tratti da tutti gli atti formati ed acquisiti nell'ambito del procedimento penale.

Gli eventuali errori nella procedura di acquisizione delle prove da parte dell'Autorità giudiziaria, che rendano le stesse inutilizzabili nel procedimento penale, non ne comportano, infatti, l'automatica inutilizzabilità in sede amministrativa nel procedimento disciplinare nei confronti del pubblico dipendente (cfr. Consiglio di Stato, sez III, 26 maggio 2014, n. 2689).

Tanto perché il principio dell'inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite (art. 191, c.p.p.) opera nel solo processo penale e non dispiega effetti nell'ambito del procedimento disciplinare attivato dalla pubblica amministrazione nei confronti del proprio dipendente.

2c.- Circa il rispetto delle previsioni della circolare n. 1/1993, il Collegio osserva che le valutazioni in ordine alla fondatezza dei fatti ascritti all'appellante sono state effettuate dall'Amministrazione in via autonoma, sulla base delle risultanze istruttorie acquisite e non solo sulla base delle contestazioni avanzate in sede penale e di ciò è stato dato puntualmente conto attraverso una esaustiva motivazione.

Come già rilevato, l’avvio del procedimento disciplinare è stato disposto a seguito della sentenza penale n. 1548/04, passata in giudicato in data 13 marzo 2004, con cui è stato dichiarato non doversi procedere nei confronti del ricorrente per intervenuta prescrizione dei reati di cui agli artt. 319, 326, 640, 56, 81, 110, 112 del codice penale ed è solo a tali comportamenti che si riferisce il procedimento disciplinare contestato.

Il TAR ha ben evidenziato, peraltro, senza che ciò sia stato sostanzialmente contestato dall'appellante, che la responsabilità disciplinare e il correlato provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti del sig. C M hanno trovato fondamento non solo nelle intercettazioni telefoniche, ma "anche su dichiarazioni spontanee di accusa nei confronti del ricorrente, dall’esito delle perquisizioni, da cui è emerso il possesso (non rileva dove), da parte del ricorrente, di documentazione relativa ad accertamenti preliminari e test attitudinali, e dall’interrogatorio reso da Ufficiale coinvolto nel procedimento inerente raccomandazioni ricevute dal ricorrente".

3.- Nel secondo motivo di appello il sig. M lamenta l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tribunale non ha riconosciuto la violazione dell’art. 120 del T.U. n. 3 del 1957, che dispone che il procedimento disciplinare si estingue nel termine perentorio di 90 giorni dall’ultimo atto senza che sia stato adottato un ulteriore atto.

L'appellante sostiene che l’indicato termine, di natura endoprocedimentale, sarebbe stato superato, in quanto la notifica del provvedimento gravato è avvenuta in data 5 settembre 2005, mentre l'ultimo atto adottato dall'amministrazione, individuato nella delibera del Consiglio di disciplina di non meritevolezza di conservare il grado, è stata adottata in data 9 maggio 2005, né gli atti interni intervenuti risultano idonei ad impedire l’estinzione del procedimento.

Il Tribunale avrebbe errato, pertanto, laddove ha ritenuto che l'atto finale del procedimento sarebbe il provvedimento sanzionatorio, intervenuto il 1° agosto 2005 e che il momento della sua comunicazione rileverebbe solo sul piano dell’efficacia, senza effetti invalidanti della sanzione disciplinare.

3b.- La censura è infondata.

Diversamente da quanto assunto dall'appellante, la giurisprudenza amministrativa, in sede di interpretazione dell'art. 120 del T.U. n. 3/1957, si è ripetutamente espressa, infatti, nel senso che va considerato perentorio il termine per l'adozione del provvedimento e non quello relativo alla sua successiva comunicazione all'interessato, né la natura recettizia del provvedimento espulsivo osta a tale interpretazione, atteso che ciò che viene differito al momento della conoscenza della misura è la sua efficacia e non la sua perfezione. Ed è ben chiaro che l'efficacia, consistente nell'idoneità del provvedimento a spiegare gli effetti ad esso connessi secondo l'ordinamento giuridico, si distingue dalla perfezione, che segna il momento in cui sono compiuti tutti gli atti necessari affinché il provvedimento stesso pervenga ad esistenza. (Consiglio di Stato, sez. V, 23/11/2007, n. 6015).

4.- Nel terzo motivo di appello il sig. M lamenta l'erroneità della sentenza laddove il T.A.R. ha ritenuto infondata la censura con la quale egli ha contestato la violazione da parte dell'Amministrazione del D.P.R. n. 3 del 1957, della legge n. 599 del 1954 e della legge n. 260 del 1957, nonché della Circolare n. 1/1993 del Comando Generale della Guardia di Finanza, per la genericità degli addebiti contestati che non gli avrebbe consentito un adeguato esercizio del diritto di difesa.

4b.- Quanto asserito dall'appellante non è condivisibile.

Ad avviso del Collegio, non è dato riscontrare, invero, la lamentata genericità degli addebiti contestati, atteso che, come ha rilevato il TAR, il richiamo contenuto nella comunicazione di avvio del procedimento ai fatti che hanno determinato la sentenza di condanna del Tribunale di Roma è risultato idoneo a mettere l'interessato nella condizione di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa che è la ratio di tale adempimento.

Gli addebiti contestati e sui quali il procedimento disciplinare si è sviluppato, invero, sono agevolmente ricavabili dall'atto con cui sono stati formulati e non rileva una sia pur palese coincidenza degli stessi con i capi di imputazione ascritti in sede di rinvio a giudizio e di cui non è stata dimostrata l'insussistenza in sede di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

L'atto di contestazione di addebiti ha assolto con completezza alla funzione di far conoscere all'interessato le specifiche trasgressioni e i fatti di cui è stato chiamato a rispondere in sede disciplinare e gli ha consentito di difendersi all'interno del relativo procedimento.

5.- Con il quarto motivo di appello il sig. M lamenta l'erroneità della sentenza laddove il Tribunale ha ritenuto infondata la censura con cui aveva contestato la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 per difetto di motivazione dell'atto sanzionatorio, basato unicamente sulle risultanze del procedimento penale, conclusosi senza svolgimento di alcuna attività istruttoria ed accertamento dei fatti.

L'appellante sostiene che l’Amministrazione avrebbe erroneamente considerato la sentenza dichiarativa della prescrizione alla stregua di una sentenza di condanna.

5b.- Orbene, il Collegio osserva che l’avere il giudice penale dichiarato l’estinzione dei reati ascritti al ricorrente implica necessariamente che sia intervenuta una verifica negativa in ordine alla sussistenza dei presupposti per poter pronunciare una sentenza di assoluzione e non sia emersa dagli atti processuali l'immediata estraneità dell'imputato rispetto a quanto contestatogli.

Di tale circostanza viene dato, nel gravato provvedimento, puntualmente atto, per cui non vi è stata alcuna equiparazione, da parte dell’Amministrazione procedente, della sentenza di non doversi procedere a una sentenza di condanna, ma una corretta valutazione della portata da annettersi a tale sentenza.

6.- Con il quinto motivo di appello il sig. M lamenta l'erroneità della sentenza del TAR, laddove i giudici di prime cure hanno rigettato la censura con la quale era stata contestata la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 11 della Costituzione e della Circolare n. 1/1993 del Comando Generale della Guardia di Finanza.

L'appellante sostiene che l'amministrazione avrebbe violato il principio del giusto procedimento e del diritto di difesa per non avere acquisito tutti gli atti del procedimento penale - tra cui i verbali di interrogatorio e gli accertamenti bancari – recanti fondamentali elementi di non colpevolezza del ricorrente, per cui non gli sarebbe stato consentito di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa, oltre ad aver utilizzato atti di indagine dichiarati nulli successivamente all’adozione del gravato provvedimento.

6b.- La censura è infondata.

Dagli atti del procedimento disciplinare si evince che l'Amministrazione ha svolto una articolata istruttoria, con acquisizione della documentazione ritenuta utile, su cui si sono basati i pronunciamenti giudiziali e ha proceduto ad un'autonoma valutazione della loro valenza probatoria in ordine agli addebiti contestati ed alla responsabilità del ricorrente, dando puntualmente conto, con un diffuso e congruo apparato motivazionale, delle ragioni su cui poggia la gravata determinazione.

Con riguardo alla asserita violazione della circolare n. 1/1993, si osserva che quanto ai tempi di acquisizione degli atti relativi al processo penale, per l'ipotesi in cui si intenda mutuare il convincimento circa la responsabilità disciplinare anche da quello maturato in sede penale, occorre ricorrere ad una interpretazione delle regole in modo coerente con la fisionomia del procedimento disciplinare, con il conseguente riconoscimento della possibilità di successiva integrazione delle acquisizioni documentali di base laddove ritenute idonee, comunque, a sorreggere l'avvio dell'inchiesta formale. La circolare è tuttavia chiara nel delimitare tale necessità ai soli casi in cui l'Amministrazione intenda mutuare il suo convincimento solo in ordine alla responsabilità disciplinare dell'incolpato da quello formulato in sede penale, circostanza che, come si è detto, non ricorre, se non in parte, nel caso di specie.

La circostanza che l'appellante abbia potuto esercitare adeguatamente il proprio diritto ad acquisire atti e a partecipare al procedimento è, del resto, provata dalle memorie difensive presentate e dalla relazione riepilogativa ricevuta.

Il TAR sul punto ha, poi, correttamente osservato che " quanto alle ulteriori richieste istruttorie avanzate da parte ricorrente nell’ambito del procedimento disciplinare, osserva il Collegio come l’Ufficiale Inquirente abbia dato puntualmente conto delle ragioni per cui ha ritenuto di doverle disattendere, giudicandole inconferenti, non pertinenti e non determinanti, anche tenuto conto della pregnanza delle risultanze istruttorie già acquisite".

7.- Con il sesto motivo di appello il sig. M lamenta l'erroneità della sentenza del TAR, laddove i giudici di prime cure hanno rigettato la censura con la quale egli aveva contestato la violazione dell'art. 97 della Costituzione, della legge n. 599/1954 e della legge n. 260/1957 nonché il difetto di motivazione ex art. 3 della legge n. 241 del 1990.

L'appellante sostiene che la sanzione disciplinare irrogata dall'amministrazione si porrebbe in contrasto con il principio di proporzionalità e di gradualità della stessa, evidenziando che i fatti contestati risalivano al 1995 e che il conseguimento di buoni risultati, durante il servizio prestato nei 5 anni successivi alla condotta contestata, dimostrerebbe come essa non avesse reso incompatibile la sua ulteriore permanenza in servizio.

7b.- La censura è infondata.

È da ritenersi legittimo, infatti, il provvedimento adottato di rimozione dal grado dell'appellante, finanziere in servizio permanente, a seguito di un comportamento ritenuto indizio sintomatico della mancanza delle qualità etiche e professionali indispensabili per assolvere alla propria missione istituzionale.

L'appellante non può dolersi di alcuna lesione del criterio della proporzionalità, posto che vale senza dubbio al riguardo la giurisprudenza - elaborata da questo Consiglio di Stato con riguardo ad appartenenti alla Guardia di Finanza (ma più in generale a militari)- secondo cui: "a) la potestà disciplinare, nelle sue forme proprie, opera in sfera diversa da quella che inerisce al magistero penale;
b) la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati al pubblico dipendente, in relazione all'applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che per violazione delle norme procedurali o in alcune ipotesi-limite di eccesso di potere, sotto il profilo della abnormità e del travisamento dei fatti (fattispecie che qui non ricorrono);
c) il principio di proporzionalità consiste in un canone legale di raffronto che, anche dopo la sua espressa codificazione a livello comunitario sulle suggestioni del diritto tedesco (art. 5, ultimo comma, del Trattato C.E., e ora art. 5, comma 4, del Trattato U.E.), non consente di controllare il merito dell'azione amministrativa".

7c.- La condotta rimproverata al sig. C M è da considerarsi, alfine, del tutto inammissibile per un appartenente al Corpo della Guardia di Finanza perché, ponendosi in conflitto con uno specifico dovere istituzionale, costituisce una violazione degli obblighi assunti con il giuramento di fedeltà allo Stato;
il che rende del tutto irrilevante qualunque considerazione degli asseriti precedenti positivi di carriera dell'incolpato e giustifica la sanzione espulsiva adottata ai sensi dell'art. 60 comma 1 punto 6, della legge n. 599 del 31 luglio 1954 e dell'art. 40, n. 6, della legge 3 agosto 1961, n. 833, in base a cui il militare incorre nella perdita del grado quando è stato rimosso per violazione del giuramento o per altri motivi disciplinari, ovvero per comportamento comunque contrario alle finalità del Corpo o alle esigenze di sicurezza dello Stato, previo giudizio di una Commissione di disciplina.

Come ha più volte affermato questo Consiglio di Stato, la perdita del grado è "sanzione unica ed indivisibile", non essendo suscettibile di essere regolata tra un minimo e un massimo entro i quali all'Amministrazione spetti di esercitare il potere sanzionatorio. (Cons. Stato, sez IV, 26.7.2012, n. 4257).

Correttamente il T.A.R. ha evidenziato, quindi, la contrarietà dei fatti contestati al sig. M rispetto ai doveri di onestà, fedeltà, lealtà e rettitudine, assunti con il giuramento, per cui il nocumento derivante al superiore interesse pubblico ed all’Istituzione, non consente di ritenere sproporzionata la sanzione irrogata della perdita del grado per rimozione.

8.- Con il settimo motivo di appello il sig. M lamenta la violazione dell'art. 120 del DPR n. 3/1957, dell’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001.

L'appellante sostiene che, nel caso di specie, sia stato superato sia il termine di conclusione del procedimento disciplinare di 180 giorni che quello di inizio, stabilito in 90 giorni dalla comunicazione della sentenza, termini applicabili in via analogica anche ai casi di sentenze di non luogo a procedere, in quanto volti ad assicurare la ragionevole durata del procedimento di cui all'art. 111 della Costituzione.

Censura, pertanto, la sentenza laddove il T.A.R. ha ritenuto che il comma 4 dell'art. 5 della legge n. 97 del 2001 sia riferibile solo ai casi di sentenza irrevocabile di condanna intervenuta per reati contro la pubblica amministrazione, mentre per le altre ipotesi trova applicazione l'art. 120 del T.U. n. 3/1957 che dispone quale causa di estinzione del procedimento disciplinare il solo superamento del termine edoprocedimentale di 90 giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato adottato.

L'appellante contesta, poi, che sia stata ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dell’art. 120 del D.P.R. n. 3 del 1957 per mancata previsione di un termine per la conclusione del procedimento, come stabilito dall’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001, per i casi di sentenze di non doversi procedere per prescrizione del reato, e dell’art. 5 della legge n. 97 del 2001 laddove non prevede i casi di sentenza di non doversi procedere per prescrizione del reato tra quelli sottoposti ai termini indicati.

8b.- Le censure non sono condivisibili.

Diversamente da quanto eccepito, il termine di 90 giorni di cui all'art. 5 comma 4, l. n. 97 del 2001 trova applicazione solo per le condanne relative ai reati indicati nell'art. 3 l. n. 97 del 2001, dovendosi in tal senso intendere la dizione "sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell'art. 3" della legge stessa (si tratta dei delitti previsti dagli art. 314 comma 1, 317, 318, 319, 319 ter e 320 c.p. e dall'art. 3 l. 9 dicembre 1941 n. 1383).

La norma è quindi applicabile ai procedimenti disciplinari conseguenti a sentenze di condanna penale finalizzate a sanzioni espulsive e non è ipotizzabile porre sullo stesso piano sentenze di condanna e provvedimenti di proscioglimento per prescrizione.

Conseguentemente, come correttamente ritenuto dal TAR " nei confronti di tutti i pubblici dipendenti, inclusi i militari, che siano stati coinvolti in processi penali definiti con sentenza di proscioglimento, il giudizio disciplinare che si apra successivamente è governato dalle norme sancite dagli artt. 97 e 120 D.P.R. n. 3 del 1957 che ne scandiscono il relativo svolgimento".

La tutela del dipendente è, poi, garantita dai tempi fissati dalla suddetta norma, essendo previsto che il procedimento sia avviato entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza definitiva di proscioglimento mediante la contestazione degli addebiti, e per evitare lungaggini è espressamente stabilito che il procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi 90 giorni dall'ultimo atto.

Nel caso in trattazione tali termini risultano essere stati rispettati e va preso atto che la conclusione del procedimento è intervenuta in tempi del tutto ragionevoli fermo restando che è ad essa che bisogna fare riferimento, non essendo il provvedimento finale atto di natura ricettizia.

E' evidente che le differenze che il legislatore ha previsto nei tempi di promozione e sviluppo del procedimento disciplinare tengono conto della diversa situazione in cui si viene a trovare il dipendente in presenza di una sentenza di condanna o di proscioglimento, fattispecie che richiedono una diversa tempestività che, comunque, nel caso di specie è stata rispettata, senza che siano stati, quindi, intaccati i diritti costituzionali del dipendente.

9.- Con l'ottavo e il nono motivo di appello il sig. M lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, della legge n. 599 del 1954, della legge n. 113 del 1954, della legge n. 833 del 1961, della legge n. 1089 del 1959, del D.lgs. n. 196 del 1995.

L'appellante sostiene che il TAR avrebbe errato nel ritenere legittima la disposta cessazione dal servizio, rilevando che la sanzione della perdita del grado consentirebbe comunque la prosecuzione del rapporto nel corpo di appartenenza e, conseguentemente, l'amministrazione avrebbe dovuto degradarlo a finanziere e non a soldato semplice.

L'appellante chiede, pertanto, il pagamento delle retribuzioni arretrate, nella differente misura prevista sia nell'ipotesi in cui venga disposto l'annullamento del provvedimento di perdita del grado, che nell'ipotesi in cui si ritenga di affermare il diritto alla permanenza nel corpo della Guardia di Finanza con il grado di finanziere.

L'appellante lamenta, infine, l'erroneità della sentenza del TAR nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto che "nessun rilievo, infine, può assumere l’intervenuta assoluzione del soggetto coimputato del ricorrente, stante la diversità delle relative posizioni e degli elementi di prova a carico".

9b.- Anche tali ultime censure sono da ritenersi infondate.

L'appellante è stato sottoposto a procedimento disciplinare per grave violazione dei doveri assunti con il giuramento e a conclusione dello stesso è stata a lui irrogata la sanzione disciplinare della perdita del grado, a termini dell'art. 60 punto 6 della legge 31.7.1954 n. 599, estesa ai sottoufficiali della Guardia di Finanza dall'art. 1, comma 1, della legge 17.4.1957 n. 260 e dall'art. 40, punto 6, della legge 3 agosto 1961 n. 833.

L'art. 26, comma 1, lett. g) della legge n. 599/1954, poi, fa discendere dalla sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione, prevista dal summenzionato art. 60, la cessazione dal servizio permanente per il sottoufficiale, per cui l'Amministrazione ha coerentemente disposto la risoluzione del rapporto di lavoro, con la messa a disposizione del sig. C M del Centro documentale, come soldato semplice.

Né alcun rilievo assume l’intervenuta assoluzione del soggetto coimputato del ricorrente, stante la diversità delle rispettive posizioni e degli elementi di prova a carico.

In conclusione, l'appello è infondato e va respinto.

10.- Per la particolarità della materia trattata, sussistono giusti motivi perché le spese anche del presente grado di giudizio siano compensate tra le parti.

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