Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2019-06-21, n. 201904266
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Pubblicato il 21/06/2019
N. 04266/2019REG.PROV.COLL.
N. 08527/2018 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 8527 del 2018, proposto da
S S, rappresentato e difeso da sé medesimo, con domicilio eletto presso lo studio legale dell’avvocato L C in Roma, via Pilo Albertelli, 1;
contro
Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa, in persona del legale rappresentante
pro tempore
, nonché Presidente del Consiglio di Stato, entrambi rappresentati e difesi
ex lege
dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, 12, sono elettivamente domiciliati;
nei confronti
L A, Taormina Fabio, Potenza Raffaele, Migliozzi Andrea, Veltri Giulio, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 02040/2018, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa e del Presidente del Consiglio di Stato;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 marzo 2019 il Cons. Valerio Perotti ed uditi per le parti l’avvocato Salvatore S e l’avvocato dello Stato Andrea Fedeli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio, l’avvocato Salvatore S impugnava la deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa in data 8 febbraio 2013, nella parte in cui – secondo quanto comunicato con la nota del magistrato addetto del 26 febbraio 2013 (anch’essa impugnata) il suddetto organo disponeva il “ non luogo a provvedere ” in relazione all’esposto presentato dal ricorrente il 24 dicembre 2012, mediante il quale si chiedeva di avviare un procedimento disciplinare nei confronti di cinque magistrati del Consiglio di Stato (L A, Taormina Fabio, Potenza Raffaele, Migliozzi Andrea e Veltri Giulio).
L’esposto muoveva dalla circostanza che l’avvocato S, patrocinante nelle cause iscritte ai numeri 7867 e 7866 del 2005 del Ruolo generale del Consiglio di Stato, aveva depositato, il 24 ottobre 2012, un’istanza di ricusazione di tre dei cinque componenti del Collegio giudicante;in occasione dell’udienza pubblica del 31 ottobre 2012 le cause erano state trattate e poi definite con le sentenze n. 6186 e n. 6187 del 2012, con le quali il Collegio aveva dichiarato inammissibile la ricusazione proposta e rigettato nel merito gli appelli.
A seguito del deposito di dette sentenze, l’avvocato S aveva presentato esposto del 24 dicembre 2012 al Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa, chiedendo l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti di tutti e cinque i componenti del Collegio che aveva definito i giudizi, sostenendo che:
- i giudici ricusati avrebbero potuto concorrere soltanto alla decisione, in rito, sull’ammissibilità della ricusazione e, quindi, alla determinazione di non sospendere la trattazione della causa base, ma non avrebbero potuto pronunciarsi nel merito della ricusazione;
- i componenti del Collegio non avrebbero in ogni caso potuto pronunciarsi sulla ricusazione senza prima sentire i singoli giudici ricusati;
- la decisione sulla ricusazione sarebbe stata assunta senza la previa fissazione di un’udienza di trattazione ad hoc , ai sensi dell’articolo 18, comma 5, Cod. proc. amm.;
- i componenti del Collegio, per alcuni ricorsi, avrebbero negato la perenzione maturata ope legis sulla base di valutazioni gravemente errate in diritto e in fatto;
- le predette violazioni normative, perpetrate dai componenti del Collegio, sarebbero state suscettibili di valutazione disciplinare ai sensi dell’articolo 1 e dell’articolo 2, comma 1, lettere c), e), m), ff), e g) del d.lgs. n. 109 del 2006.
L’esposto dell’avvocato S veniva trattato nella seduta del Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa dell’8 febbraio 2013, in occasione della quale l’organo di governo autonomo della magistratura amministrativa deliberava di non doversi procedere al riguardo, evidenziando come – “ in disparte il rilievo che le invocate norme sulla responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari non si applicano alla magistratura amministrativa, in forza del disposto di cui all’art. 30 del (...) d.lgs. n. 109 del 2006 ” – dovesse rilevarsi che “ come costantemente affermato, la ritenuta erroneità di una pronuncia giurisdizionale può essere corretta solo mediante l’impiego degli strumenti processuali all’uopo predisposti dall’ordinamento, essendo precluso agli organi di autogoverno delle magistrature esercitare un qualsiasi sindacato di merito sugli atti del giudice. In ossequio a tale principio il C.P.G.A. deve astenersi da ogni valutazione circa le argomentazioni giuridiche avanzate con l’esposto in esame ”.
Veniva inoltre ritenuta non configurabile una responsabilità disciplinare da sentenza abnorme, attenendosi “ all’insegnamento impartito in materia dalla Corte di Cassazione (cfr. da ultimo sez. un., 3 luglio 2012 n. 11069) ”.
L’esito della trattazione veniva comunicato all’interessato con nota del magistrato addetto in data 26 febbraio 2013 n. 3803.
Avverso la suddetta deliberazione l’avvocato S deduceva i seguenti profili di gravame, così riassunti nella sentenza attualmente impugnata:
1) plurimi profili di violazione di legge ed eccesso di potere, e in particolare:
a) violazione dell’articolo 18 c.p.a. e degli articoli 51, primo comma, n. 1 e 53 c.p.c.;dell’articolo 1, all. 3 c.p.a. e dei principi in materia di declaratoria di perenzione, dell’articolo 323 c.p.;dell’articolo 32 della legge n. 186 del 1982, in rapporto al regio decreto n. 511 del 1946, nonché al decreto legislativo n. 109 del 2006, articolo 2, comma 1, lett. c), e), g), h), l), m), ff) e articolo 4, lett. d);degli articoli 101 e 111 della Costituzione;
b) eccesso di potere per erroneità e falsità dei presupposti e per sviamento giurisdizionale.
2) Violazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990, per totale carenza di motivazione.
3) Difetto di istruttoria.
4) Eccesso di potere per sviamento.
In relazione poi al secondo paragrafo della deliberazione, individuato nella parte in cui si richiama l’orientamento giurisprudenziale in materia di valutabilità, in sede disciplinare, della sola sentenza abnorme, il ricorrente deduceva plurimi profili di violazione di legge, coincidenti con quelli sopra indicati sub 1-a), nonché censure di eccesso di potere, in quanto la sentenza della Corte di Cassazione richiamata nella deliberazione impugnata sarebbe, in realtà, favorevole alla tesi del ricorrente, atteso che, nel caso di specie, sarebbe ravvisabile una grossolana e inescusabile violazione di legge.
Sul terzo paragrafo della deliberazione, individuato dal ricorrente nella parte in cui si fa riferimento alla motivazione delle sentenze relativamente all’istanza di ricusazione, deduceva infine plurimi profili di violazione di legge, coincidenti con quelli sopra indicati sub 1-a), nonché censure di eccesso di potere, in quanto l’organo di governo autonomo della magistratura amministrativa avrebbe omesso di rilevare che il Collegio del quale facevano parte i magistrati ricusati avrebbe potuto pronunciarsi solo in rito sulla ricusazione, proseguendo la trattazione della causa, ma non assumere una decisione definitiva nel merito.
Costituitasi in giudizio, l’amministrazione rilevava l’infondatezza del ricorso, chiedendo che fosse respinto.
Con sentenza 22 febbraio 2018, n. 2040, il giudice adito rigettava il gravame, sul presupposto della correttezza giuridica del provvedimento di reiezione adottato dal Consiglio di presidenza, non potendosi individuare, nella decisione a suo tempo adottata dal Collegio giudicante, i presupposti per l’esercizio dell’azione disciplinare.
Avverso tale decisione l’avvocato S interponeva appello, articolato nei seguenti profili di impugnazione:
1) L’esposto presentato non era rivolto a denunciare la illegittimità del provvedimento adottato, ma l’operato del Collegio che lo aveva adottato e quindi, il fatto che il Collegio avesse svolto la sua funzione “arbitrariamente”, adottando un provvedimento in oggettiva carenza di legittimazione;
2) l’avere i giudici ricusati adottato la decisione sull’inammissibilità e/o palese infondatezza dell’istanza di ricusazione (nonostante l’art. 18, comma quinto Cod. proc. amm. attribuisca ad altro organo la competenza a decidere sulla ricusazione medesima) avrebbe comportato ex se l’adozione di un operato al di fuori dello schema processuale (ossia abnorme), oltre che viziato da errore macroscopico e da grave ed inescusabile negligenza.
3) il Collegio di cui faccia parte il giudice ricusato non potrebbe mai contribuire alla pronuncia definitiva, “ non solo nel merito ma anche in rito ”, competendo questa solo ad un Collegio privo di giudici ricusati.
4) La circostanza che il d.lgs. n. 109 del 2006 non si applichi ai giudici amministrativi di per sé non esclude che le ipotesi di responsabilità disciplinare ivi contemplate possano trovare applicazione anche al caso qui controverso.
Costituitasi in giudizio, l’amministrazione ribadiva la correttezza delle proprie determinazioni, chiedendo la reiezione del gravame.
Successivamente le parti ulteriormente ribadivano, con apposite memorie, le proprie ragioni ed all’udienza del 21 marzo 2019, dopo la rituale discussione, la causa veniva trattenuta in decisione.
Con il primo motivo di appello (pag. 10, p.to A, relativo al par. 10 della sentenza di primo grado), viene dedotto che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, “ L’esposto presentato non era rivolto a denunciare la illegittimità del provvedimento adottato, ma l’operato del Collegio che lo aveva adottato e quindi, il fatto che il Collegio avesse svolto la sua funzione “arbitrariamente” adottando un provvedimento in oggettiva carenza di legittimazione-potere.
Lo stesso provvedimento, se adottato dall’organo deputato per legge avrebbe potuto essere erroneo ma non adottato da organo carente di legittimazione ”.
In breve, come puntualizza lo stesso appellante, non era stata eccepita in ricorso la presunta erroneità della decisone del Collegio sulla ricusazione, da assoggettare alle censure consentite dall’ordinamento, bensì – più radicalmente – la stessa carenza di legittimazione del Collegio di pronunciarsi su tale questione. Ciò in quanto, così facendo, gli stessi giudici ricusati avrebbero impropriamente contribuito a decidere sulla loro ricusabilità.
Il motivo, ancorché suggestivo, non può essere accolto.
Preliminarmente ad ogni considerazione sul merito della censura, è opportuno rilevare, alla luce delle risultanze di causa, l’obiettiva carenza di interesse dell’appellante a dolersi della mancata adozione, da parte del Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa, di una sanzione disciplinare a carico dei magistrati componenti il Collegio giudicante pronunciatosi sul merito delle cause patrocinate dall’avvocato Stata, dopo aver ritenuto inammissibile l’istanza di ricusazione.
Va infatti ribadito il consolidato insegnamento ( ex plurimis , Cons. Stato, III, 8 settembre 2016, n. 3829) per cui nel giudizio amministrativo non è consentito, ad eccezione di ipotesi specifiche, adire il giudice al solo fine di conseguire la legalità e la legittimità dell’azione amministrativa, se ciò non si traduca anche in uno specifico ed argomentato beneficio in favore di chi propone l’azione giudiziaria.
Nel processo in questione, l'interesse a ricorrere è condizione dell’azione e corrisponde ad una precisa utilità o posizione di vantaggio che attiene ad uno specifico bene della vita, contraddistinto indefettibilmente dalla personalità e dall'attualità della lesione subita, nonché dal vantaggio ottenibile dal ricorrente.
Sussiste pertanto interesse al ricorso se la posizione azionata dal ricorrente lo colloca in una situazione differente dall’aspirazione alla mera ed astratta legittimità dell’azione amministrativa genericamente riferibile a tutti i consociati, se sussiste una lesione della sua posizione giuridica, se è individuabile un'utilità della quale esso fruirebbe per effetto della rimozione del provvedimento.
Interesse che deve comunque essere caratterizzato dai predicati della personalità (il risultato di vantaggio deve riguardare specificamente e direttamente il ricorrente), dell’attualità (l’interesse deve sussistere al momento del ricorso, non essendo sufficiente a sorreggere quest’ultimo l’eventualità o l’ipotesi di una lesione) e della concretezza (l’interesse a ricorrere va valutato con riferimento ad un pregiudizio concretamente verificatosi ai danni del ricorrente).
Nel caso di specie, non viene chiarito quale concreta utilità – afferente la propria sfera giuridica – il ricorrente avrebbe potuto trarre dall’eventuale accoglimento del gravame, non potendo rilevare a tal fine – come si è detto – un eventuale, generico interesse alla legalità dell’azione amministrativa.
Né potrebbe in ipotesi obiettarsi che sulla questione, non fatta oggetto di specifica censura, si sia formato un giudicato implicito, con conseguente irrilevabilità d’ufficio: deve infatti confermarsi, al riguardo, il principio esposto dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio, con sentenza 26 aprile 2018, n. 4 (dal quale non vi è ragione di discostarsi, nel caso di specie), secondo cui sussiste sempre il potere del giudice di appello di rilevare ex officio l’esistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado, non potendo ritenersi che sul punto si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla deduzione officiosa della questione.
Premesse tali assorbenti considerazioni, va comunque detto – nel merito della questione sollevata dall’appellante – che la stessa non risulta fondata.
Anche a prescindere dal rilievo – dedotto dall’appellata amministrazione – secondo cui l’eccepita carenza di legittimazione dell’organo giudicante ad assumere una decisione non potrebbe non tradursi nell’erroneità della decisione ciò nonostante presa, con la conseguenza che l’interessato avrebbe dovuto proporre nei suoi confronti gli ordinari mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento, anziché ripiegare sulla responsabilità disciplinare dei membri dell’organo giudicante per il fatto stesso di avere adottato una pronuncia giurisdizionale, non si ravvisa, allo stato degli atti, la denunziata carenza di legittimazione.
Ritiene infatti il Collegio di dover confermare il principio ( ex multis , Cons. Stato, IV, 12 giugno 2012, n. 3409) secondo cui, allorquando l’istanza di ricusazione appaia al Collegio giudicante palesemente inammissibile o infondata, lo stesso non è tenuto a sospendere il giudizio per attivare il sub -procedimento di cui all’art. 18 Cod. proc. amm., ben potendo decidere il merito della controversia anche in composizione comprendente il o i magistrati ricusati.
Ai sensi dell’art. 18, comma 4, Cod. proc. amm., “ il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l’istanza inammissibile o manifestamente infondata ”;peraltro, precisa il successivo quinto comma, “ la decisione definitiva sull’istanza [di ricusazione - ndr] è adottata, entro trenta giorni dalla sua proposizione, dal collegio previa sostituzione del magistrato ricusato, che deve essere sentito ”.
Deve pertanto concludersi che la questione del rinvio della trattazione della causa ad altra udienza si ponga solo quando non si rinvengano ragioni fondanti la declaratoria di inammissibilità o manifesta infondatezza dell'istanza (e quindi la stessa debba essere compiutamente esaminata). Nel caso in cui il Collegio ritenga invece che sussistano tali presupposti, ben potrà decidere nel merito la causa, nell’originaria composizione, senza ulteriori rinvii.
In termini, anche Cass. civ. Sez. un., ord. 22 luglio 2014, n. 16627 evidenzia come “ il giudice della controversia è innanzitutto giudice della propria legittimazione a decidere. E’ pertanto suo potere ma soprattutto suo dovere procedere al controllo preventivo della propria regolare investitura e composizione, compatibilità, giurisdizione, competenza, al fine di "proteggere" il deliberato finale da possibili illegittimità.
In questa fase vanno inseriti "incidenti" come l’astensione o la ricusazione, dovendo, con particolare riguardo a quest'ultima, ritenersi che nella previsione codicistica anche le parti, pur ciascuna portatrice di propri interessi sostanziali contrapposti, contribuiscano a questa preventiva attività di controllo in vista della "protezione" del deliberato, finale ad ogni illegittimità ed in funzione dell’interesse (generale oltre che proprio) al corretto esercizio della giurisdizione ”.
Nel caso di specie, il Collegio aveva regolarmente svolto l’obbligatoria valutazione preliminare sull’ammissibilità e/o fondatezza dell’istanza di ricusazione, motivatamente concludendo per la sua inammissibilità: tale giudizio, in quanto imposto da una norma di legge, certo non avrebbe potuto integrare un comportamento passibile di illecito disciplinare, al più potendo risultare erroneo e, come tale, passibile di revocazione (in presenza, ovviamente, dei relativi presupposti).
Tale conclusione non muterebbe neppure nell'ipotesi in cui destinatari dell’istanza di ricusazione fossero tutti i componenti del Collegio, di modo che lo stesso dovrebbe in ogni caso valutare innanzitutto l'istanza e, ove la ritenesse inammissibile o manifestamente infondata, procedere oltre nel giudizio.
Analogamente non potrebbe essere fonte di responsabilità disciplinare il fatto di aver deciso la causa nel merito, non sussistendo in tal caso, come si è detto, un obbligo di sospensione del procedimento e, dunque, non potendosi in alcun modo qualificare la sentenza così adottata come “abnorme”.
Nel caso di specie, il Collegio aveva così motivato in ordine alla richiesta dell’avvocato S (raccolta a verbale d’udienza del 30 ottobre 2012) di adottare in via preliminare il provvedimento sulla ricusazione da lui proposta, sul presupposto che la causa non potesse essere decisa nel merito prima di tale provvedimento: “ Deve preliminarmente esaminarsi l’istanza di ricusazione, proposta dall’avvocato dell’appellante per ragioni che asseritamente attengono all’adozione di pregresse decisioni sfavorevoli emesse all’esito di numerosi giudizi promossi dal medesimo avvocato (difeso da se medesimo), nei quali erano stati parimenti proposte istanze di ricusazione giudicate manifestamente inammissibili contestualmente alla decisione di merito della causa.
Si tratterebbe, secondo il ricusante, di una prassi giudiziaria (quella del decidere la ricusazione contestualmente alla decisione della causa), del tutto in contrasto con il tenore testuale delle norme di rito e con i principi declinati dalla Corte Costituzionale, che denoterebbe un atteggiamento “funzionale” ostile nei confronti dell’istante.
2. Giova precisare che la ricusazione ha in particolare interessato tre componenti del collegio, e costituisce la riproposizione di istanza di ricusazione, a suo tempo presentata per altri componenti del collegio (consiglieri G e F), ed in generale e collettivamente per tutti i magistrati della Sezione, sempre per motivi attinenti alla soluzione data dai collegi a questioni di carattere processuale (cfr., ex multis, dec. nn. 5321, 5324, 5335 del 17/10/2012) .
3. All’udienza di discussione il ricusante ha insistito per una preliminare decisione dell’istanza da parte del collegio in diversa composizione, rifiutando espressamente di discutere la causa.
4.1 Ritiene il collegio che la questione, in quei casi come in questo manifestamente inammissibile, possa essere decisa contestualmente alla decisione della causa, essendo - come più volte affermato dalla giurisprudenza della Sezione - l’applicazione dell’art. 18 c.p.a. (ed in particolare l’obbligo, ivi previsto, di sostituzione dei magistrati ricusati e l’adozione, da parte del nuovo collegio, di una decisione specifica sull’istanza di ricusazione) riservata alle sole ipotesi di ricusazione enucleate dall’art. 51 cpc, e non a quelle che, in ragione del loro oggetto, totalmente estraneo all’elenco dell’art. 51 né in alcun modo partecipe della natura delle cause ivi prese in considerazione, costituiscano un anomalo utilizzo dell’istituto processuale, foriero di inutile dispendio di energie processuali o addirittura di effetti paralizzanti per l’attività decisoria dell’organo giurisdizionale ”.
In pratica, dunque, il Collegio aveva deciso il merito della causa dopo aver assunto la determinazione che l’istanza di ricusazione fosse inammissibile. Il che, come in precedenza detto, era del tutto corretto.
Neppure, a rigore, integrerebbe un comportamento disciplinarmente illecito la valutazione del Collegio – adottata all’esito di un articolato percorso motivazionale – di non doversi ulteriormente procedere in ordine al sub -procedimento di ricusazione, una volta ritenuta la manifesta infondatezza (e/o inammissibilità) della relativa istanza, essendosi anche in questo caso solamente in presenza di una decisione al più erronea, per tale al più suscettibile dei rimedi giurisdizionali previsti dal legislatore.
Con il secondo motivo di appello (pag. 11, p.to B, relativo al par. 11 della sentenza impugnata) viene inoltre dedotto che l’avere i giudici ricusati adottato la decisione sull’inammissibilità dell’istanza di ricusazione (nonostante l’art. 18, comma 5, Cod. proc. amm. attribuisca ad altro organo la competenza a decidere sulla ricusazione medesima) avrebbe comportato “ ex se adozione di operato al di fuori dello schema processuale, oltre che viziato da errore macroscopico e da grave inescusabile negligenza ”, in breve un provvedimento abnorme.
Il motivo non è fondato, per le ragioni in precedenza evidenziate: in presenza di una valutazione di inammissibilità o palese infondatezza dell’istanza di ricusazione, infatti, il Collegio non è tenuto a sospendere il giudizio nell’attesa della definizione del relativo sub -procedimento di cui all’art. 18, commi 5 e 7, Cod. proc. amm., ma può proseguire con le modalità ordinarie, fermo quanto previsto al comma 8 della medesima disposizione.
Né, per contro, sono ravvisabili i profili di illegittimità dell’impugnata sentenza (terzo motivo di appello, pag. 12, relativo al par. 12 della sentenza), pur genericamente dedotti dall’appellante.
Sul presupposto infatti che “ il Collegio di cui faccia parte il giudice ricusato non potrebbe mai contribuire alla pronuncia definitiva, “non solo nel merito ma anche in rito”, competendo questa solo ad un Collegio privo di giudici ricusati ”, parte appellante qualifica come “abnorme” il provvedimento decisorio adottato dal Collegio.
La sentenza appellata, in realtà, semplicemente dà atto di come un provvedimento giurisdizionale può dirsi “abnorme” – e, dunque, potenzialmente suscettibile di dar luogo a responsabilità disciplinare per il suo autore – solo ove adottato al di fuori degli schemi legali: “ Se è vero che l’attività d’interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione dei fatti e delle prove […] non possono dare luogo a responsabilità disciplinare […], diversa è la fattispecie nella quale sia stato emesso un atto giurisdizionale non consentito da alcuna legge, al di là di ogni potere del giudice che lo ha adottato ovvero di qualsiasi magistrato, in cui nessuna attività ermeneutica dell'ordinamento può ritenersi svolta ”, per poi correttamente escludere come tale ipotesi si sia verificata nel caso di specie, avendo il Collegio proceduto – quanto alla decisione nel merito della causa – nel solco di quanto previsto dall’art. 18 Cod. proc. amm.
Parte appellante contesta che, avendo l’organo giudicante ritenuto possibile arrestare l’ iter procedurale attivato dall’istanza di ricusazione alla sommaria delibazione del Collegio, una volta ritenuta la manifesta infondatezza e/o inammissibilità dell’istanza medesima (a seguito di un giudizio sommario cui avevano preso necessariamente parte gli stessi giudici ricusati), di fatto questi ultimi avrebbero concorso a definire nel merito (ossia in via definitiva) l’incidente di ricusazione, divenendo impropriamente giudici di sé medesimi.
In ciò risiederebbe l’abnormità della sentenza a suo tempo adottata, con conseguente responsabilità disciplinare dei membri del Collegio deliberante.
Premesso che la suddetta “abnormità”, ove in ipotesi configurabile, avrebbe dunque riguardato solo gli eventuali capi della decisione relativi alla (definitiva) pronuncia sull’incidente di esecuzione e non anche quelli concernenti la preliminare valutazione di infondatezza della stessa e la correlata decisione nel merito della causa – il che si riflette sul già ritenuto difetto di interesse al ricorso – va detto che il vizio denunciato dall’appellante si concreta, in realtà, in un’erronea interpretazione della norma processuale, sicuramente insuscettibile di dar luogo ad un procedimento disciplinare ove adottata alla luce di un approfondito ragionamento ermeneutico (sia pure, se del caso, non condivisibile), come risulta essere avvenuto nel caso di specie.
Risulta dunque pertinente quanto evidenziato dal primo giudice in ordine alla circostanza che la decisione giurisdizionale sia stata “ meditata e diffusamente argomentata ”, ciò portando ad escludere “ l’astratta possibilità di riscontrare l’abnormità del provvedimento, come del resto correttamente affermato nella deliberazione impugnata ”.
A dar atto di quanto sopra, correttamente la sentenza impugnata ha evidenziato come “ Le decisioni contestate […] sono state assunte sulla base di una meditata e argomentata ricostruzione del quadro normativo di riferimento, sostenuta da specifici precedenti giurisprudenziali, per cui non ricorre in alcun modo la fattispecie della decisione abnorme ”.
La decisione in esame, corretta o meno la si voglia considerare, certo non può essere definita in alcun modo “abnorme”, ossia adottata fuori degli schemi legali: coerente risulta di conseguenza la successiva decisione del Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa di ritenere infondato l’esposto dell’odierno appellante, non emergendo profili di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati fatti oggetto di segnalazione.
Con ulteriore doglianza (pag. 14, relativamente al par. 13 della sentenza appellata) viene poi eccepito – in modo del tutto generico e, dunque, inammissibile – che “ Il fatto che il D. L.vo 109/06 non si applichi ai GGAA non esclude che le ipotesi di responsabilità disciplinare ivi contemplate possano costituire parametri utilizzabili anche qui ”.
Va al riguardo ricordato, come già fatto dal primo giudice, che le previsioni sulla responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari contenute nel d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 non sono estensibili ai magistrati amministrativi, ai sensi dell’art. 30 del medesimo decreto, il quale inequivocabilmente chiarisce che “ Il presente decreto non si applica ai magistrati amministrativi e contabili ”.
In conclusione, alla luce dei rilievi che precedono l’appello va respinto.
La particolarità e novità delle questioni esaminate giustificano peraltro, ad avviso del Collegio, l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese di lite del grado di giudizio.