Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2016-05-03, n. 201601684
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N. 01684/2016REG.PROV.COLL.
N. 04188/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4188 del 2015, proposto da:
Comune di Cittadella, in nome del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. A C, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. R C in Roma, viale Liegi n.35/ B;
contro
Associazione Culturale Islamica "Asar", in nome del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'avv. F P, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, p.zza Mazzini n. 8;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. VENETO - VENEZIA: SEZIONE II n. 00091/2015, resa tra le parti, concernente la chiusura immediata dei locali utilizzati per lo svolgimento dell’attività statutaria dell’associazione perché in contrasto con la destinazione d’uso e sospensione dell’esercizio della medesima attività.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Associazione Culturale Islamica "Asar";
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 febbraio 2016 il Cons. Oreste Mario Caputo e uditi per le parti gli avvocati Aristide Police su delega dell'avv. A C e F P;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
L’Associazione culturale islamica “ASAR”, conduttrice del capannone sito in via G.Pascoli n. 53 ubicato nella zona artigianale del comune di Cittadella, ha impugnato l’ordinanza di chiusura dell’immobile e di ripristino dello stato dei luoghi adottata dal Comune per “l’abusivo mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da produttivo-artigianale a luogo di culto”.
A fondamento dell’impugnazione deduceva la plurima e concorrente violazione della legge urbanistica per l’irrilevanza sotto il profilo urbanistico, in assenza di opere edilizie, dell’uso di fatto del capannone;nonché l’eccesso di potere per difetto d’istruttoria e sviamento della causa tipica del provvedimento impugnato preordinato a vietare l’attività culturale statutariamente espletata dalla compagine associativa.
Si costituiva in giudizio il comune di Cittadella eccependo la carenza di legittimazione attiva al ricorso dell’Associazione, instando nel merito per la sua infondatezza in ragione dell’incompatibilità edilizio-urbanistica dell’attività esercitata dall’Associazione con la destinazione produttiva-artigianale del capannone.
Il TAR Veneto, sez. II, respingeva l’eccezione preliminare riconoscendo in capo all’Associazione la titolarità statutaria dell’interesse collettivo dei singoli associati a svolgere l’attività associativa e a professare la propria fede quale espressione la loro comune identità culturale, e, nel merito, accoglieva il ricorso, annullando l’ordinanza impugnata.
La sentenza denegava il mutamento di destinazione dell’immobile rispetto alla sua destinazione in considerazione sia della ristretta cerchia degli utenti del servizio offerto dall’Associazione, esclusivamente riservato agli associati, senza alcun sensibile incremento del c.d. carico urbanistico, che dell’uso, costituente, sotto il profilo assiologico dei principi di stampo costituzionale, (libera) manifestazione dello ius utendi del proprietario e, per esso, dell’Associazione conduttrice dell’immobile.
Appella la sentenza il comune di Cittadella. Resiste l’Associazione ASAR.
Alla pubblica udienza del 18.02.2016 la causa, su richiesta delle parti, è trattenuta in decisione.
Coi motivi d’appello, il Comune denuncia gli errori di giudizio in cui sarebbe incorso il Tribunale amministrativo regionale: avrebbe in limine apoditticamente respinto l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva; e, nel merito, avrebbe disatteso le risultanze istruttorie dalle quali emergeva – sulla base dei rilievi compiuti dalla Polizia Locale e dal Vigili del Fuoco – l’uso indiscriminato del capannone come luogo di culto, testimoniato dalla presenza di arredi e paramenti sacri all’interno dell’immobile e, in aggiunta, dall’accoglienza di tutti coloro che “vogliono accostarsi alla pratica ed alle attività in esso svolte”.
L’appello è infondato.
1) La legittimazione al ricorso avverso l’impugnazione dell’ordinanza comunale di chiusura dei locali scaturisce in presa diretta dal contratto di locazione sottoscritto dall’Associazione appellata che è conduttrice dell’immobile e quindi è diretta destinataria dell’ordinanza interdittiva dell’uso a cui è strumentale il rapporto di locazione.
In aggiunta, l’ordinanza incide, precludendola, sull’attività – a prescindere dalla sua qualificazione di esercizio del culto o d’attività culturale preordinata alla promozione del culto – svolta statutariamente nell’interesse collettivo degli associati, all’interno del locali dall’Associazione, radicando la legittimazione al gravame.
2) Nel merito.
Al di là della tensione dialettica da cui muovono le opposte prospettazioni – quella del Comune appellante che individua nell’immobile un vero e proprio luogo di culto;quella dell’Associazione che, viceversa, nell’attività socio-culturale statutariamente esercitata di cui è parte (anche) la promozione del culto islamico quale comune matrice dell’identità spirituale dei singoli associati, individua lo scopo principale della fruizione del capannone – la vicenda dedotta va circoscritta ed inquadrata nell’ambito della normativa urbanistico-edilizia.
Il provvedimento impugnato, riconducibile ad una sanzione ripristinatoria di natura edilizia ed urbanistica, è stato infatti adottato per “l’abusivo mutamento della destinazione d’uso dell’immobile passato da produttivo artigianale a luogo di culto”.
Il capannone utilizzato è ubicato in zona ZTO “D”, ossia in un perimetro della rete urbana che gli strumenti di pianificazione destinano all’attività produttiva-artigianale. Al di fuori dell’ipotesi astratta disciplinata dall’art. 32 l. n. 383 del 2000, ossia dell’attività associativa svolta da enti di promozione sociale regolarmente iscritti nell’apposito registro, la pianificazione comunale non consentirebbe nessuna deroga all’insediamento di attività diverse da quella produttiva-artigianale.
Nondimeno il presupposto della mutamento di destinazione giuridicamente rilevante, ai fini dell’eventuale adozione della sanzione interdittiva del cambio di destinazione non consentito, è che l’uso diverso – ovviamente attuato senza opere a ciò preordinate – comporti un maggior peso urbanistico effettivamente incidente sul tessuto urbano. L’aggravio di servizi – quali, ad esempio: il pregiudizio alla viabilità ed al traffico ordinario nella zona; il maggior numero di parcheggi nelle aree antistanti o prossime l’immobile rispetto a quello programmato e realizzato;l’incremento quantitativo e qualitativo dello smaltimento dei rifiuti conseguenti alla nuova attività ivi intrapresa – è l’ ubi consistam del mutamento di destinazione che giustifica la repressione dell’alterazione del territorio in conseguenza dell’incremento del carico urbanistico come originariamente divisato nella pianificazione del tessuto urbano dall’amministrazione locale.
Ed in conformità, va sottolineato, all’art. 32, comma 1, lett. a) del d.P.R. n. 380 del 2001: il mutamento di destinazione d’uso non autorizzato, attuato senza opere, comporta una c.d. variazione essenziale sanzionabile se ed in quanto comportante una variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, ossia dei carichi urbanistici relativi a ciascuna delle categorie urbanistiche individuate nella fonte normativa statale in cui si ripartisce la c.d. zoning del territorio.
In caso contrario, non essendo stata realizzata alcuna opera edilizia né alcuna trasformazione rilevante, il mutamento d’uso costituisce espressione della facoltà di godimento, quale concreta proiezione dello ius utenti , spettante al proprietario.
3) Nel caso in esame da nessun elemento oggettivo, versato in causa, e prima ancora perspicuamente indicato nell’atto impugnato, s’evince il mutamento del carico urbanistico della zona conseguente all’attività esercitata all’interno del capannone dall’Associazione.
I referti-rapporti redatti dai Vigili del Fuoco e dalla Polizia Municipale, eseguiti oltretutto in assenza di specifico e puntuale contraddittorio con i responsabili dell’Associazione, fanno generico riferimento alla presenza di “arredi sacri all’interno del manufatto”; all’uso “probabilmente religioso dell’immobile”, al numero dei “frequentatori colti in preghiera” quantificati in un “centinaio” (d. 30.05.2014 e 13.06.2014), maggiore rispetto al numero totale degli iscritti all’Associazione, pari a 70 associati. Ma non indicano in che misura l’attività dispiegata dall’associazione all’interno del capannone, ubicato in zona artigianale, abbia effettivamente inciso negativamente sui servizi della zona – su almeno uno di essi riferiti alla dinamica del traffico dei veicoli o al numero dei parcheggi o ai servizi accessori – che fungono da parametro di verifica del carico urbanistico.
Accertamento tanto più necessaria in ragione del fatto che gli accadimenti storici, elencati nei verbali richiamati, non attestano l’esclusiva destinazione a “luogo di culto”, ritenuta dal Comune ostativa alla destinazione impresa all’immobile (cfr., in termini, in vicenda analoga, sulla necessaria verifica di elementi oggettivi di riscontro dell’attività effettivamente esercitata, Cons. St., sez. IV, 27 ottobre 2011 n. 5778).
La transeunte e contingente presenza di un maggior numero di persone all’interno del manufatto – occasionalmente verificata dagli organi ispettivi in due soli episodi – non consente, nemmeno a livello di corretta inferenza presuntiva, di ritenere provata, per un verso, l’apertura indiscriminata al pubblico e, per l’altra, praesumptio de praesumpto, la destinazione del capannone ad esclusivo luogo di culto, ex se incompatibile con la zonizzazione dell’area di insediamento.
Conclusivamente l’appello deve essere respinto.
Sussistono giustificati motivi per compensare le spese di lite individuabili nella controvertibilità in fatto delle questioni dedotte in giudizio.