Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-03-21, n. 201701267

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-03-21, n. 201701267
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201701267
Data del deposito : 21 marzo 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 21/03/2017

N. 01267/2017REG.PROV.COLL.

N. 00076/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 76 del 2013, proposto dai signori A C e C R, rappresentati e difesi dagli avvocati M R e C D M, con domicilio eletto presso lo studio della signora M G R in Roma, via Michelangelo Tilli, 55;

contro

Il Comune di Afragola, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato G C, con domicilio eletto presso lo studio Leopoldo Di Bonito, in Roma, via Arenula 21;

per la riforma

della sentenza del TAR Campania, sede di Napoli, sezione II 18 novembre 2011, n. 5423, resa fra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso per l’annullamento delle ordinanze del Comune di Afragola 25 luglio 2005, n. 240, 28 luglio 2005, n. 246, 1° agosto 2005, n. 258 e 8 gennaio 2007, n. 1, concernenti l’ingiunzione a demolire ovvero l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, in quanto abusive, di opere eseguite in via Vittorio Veneto 13 e consistenti in un primo ed un secondo piano composti da strutture portanti verticali in pietre di tufo con solaio di copertura in cemento e due rampe scale in calcestruzzo, il tutto per circa mq. 160 per piano, nonché per la condanna del Comune intimato al risarcimento del danno;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Afragola;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2017 il Cons. Francesco Gambato Spisani e udito per le parti l’avvocato G. Russo per delega dell’avv. Casalino;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. I ricorrenti appellanti hanno impugnato in primo grado le ordinanze del Comune di Afragola meglio indicate in epigrafe, concernenti l’ingiunzione a demolire - in quanto abusive - le opere realizzate in via Vittorio Veneto 13, consistenti in un edificio di due piani con strutture portanti verticali in pietre di tufo, solaio di copertura in cemento e due rampe scale in calcestruzzo, il tutto per un’estensione di circa mq. 160 per piano;
essi hanno parimenti impugnato l’ordinanza di acquisizione delle opere realizzate al patrimonio comunale e, contestualmente alla domanda di annullamento, hanno proposto anche domanda di condanna del Comune intimato al risarcimento del danno.

2. Con la sentenza pure indicata in epigrafe, il TAR ha respinto sia la domanda di annullamento, sia la domanda di condanna al risarcimento.

Il Tr ha ritenuto che le opere in questione fossero state realizzate in assenza del necessario permesso di costruire, che non vi fosse alcuno dei presupposti per una sanatoria, e in particolare il Comune non fosse tenuto ad approvare un piano attuativo di recupero dell’insediamento abusivo;
che le ordinanze di demolizione fossero state quindi legittimamente emanate e che l’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale, costituente atto dovuto perché l’ordine di demolizione non era stato eseguito, avesse correttamene individuato l’immobile da acquisire.

Contro tale sentenza, gli originari ricorrenti hanno proposto impugnazione, con appello affidato a cinque motivi, che riprendono parte di quelli dedotti in primo grado:

- con il primo di essi, deducono la violazione dell’art. 7 l. 7 agosto 1990, n. 241, per avere l’amministrazione omesso l’avviso di inizio del procedimento di repressione dell’abuso, avviso a loro dire necessario;

- con il secondo motivo, deducono la violazione dell’art. 3 della stessa legge, perché a loro dire i provvedimenti impugnati sarebbero “frutto di una istruttoria del tutto carente” (pag. 10 decimo rigo dal basso);

- con il terzo motivo, deducono la violazione dell’art. 31 del T.U. 6 giugno 2001, n. 380, perché in primo luogo non sarebbero state spiegate le ragioni per cui è stato disposto l’abbattimento;
in secondo luogo l’ordinanza relativa non avrebbe individuato in modo esatto gli immobili da acquisire al patrimonio comunale, né spiegato in base a quali parametri avrebbe determinato, nell’ambito di essi, l’area di pertinenza acquisita;

- con il quarto motivo, deducono la violazione dell’art. 23 della l.r. Campania 22 dicembre 2004, n. 16, perché a loro dire l’amministrazione comunale avrebbe dovuto procedere mediante una variante urbanistica al recupero dell’insediamento abusivo, e nel frattempo non avrebbe avuto il potere di reprimere l’abuso;

- con il quinto motivo, deducono infine eccesso di potere quanto alla violazione da parte del Comune di un preteso loro affidamento incolpevole;

I ricorrenti appellanti non hanno invece riproposto la domanda di risarcimento.

Il Comune appellato resiste, con memorie 17 giugno 2013 e 24 gennaio 2017, in cui chiede che l’appello sia respinto.

All’udienza del giorno 23 febbraio 2017, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione.

DIRITTO

1. L’appello è infondato e va respinto, per le ragioni di seguito esposte.

2. Il primo motivo di ricorso, incentrato sulla mancanza dell’avviso di inizio del procedimento previsto dall’art. 7 l. 241/1990, è infondato.

In primo luogo, gli atti repressivi degli abusi edilizi, come quelli per cui è causa, sono atti dovuti, che seguono un procedimento vincolato e precisamente tipizzato dalla normativa e si basano, oltretutto, su un presupposto di fatto, la costruzione abusiva, che rientra nella sfera di controllo del destinatario ed è quindi ragionevolmente da lui conosciuto;
di conseguenza, l’avviso di inizio del procedimento non è dovuto (così per tutte C.d.S. sez. V 28 aprile 2014, n. 2194).

Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive (cfr. C.d.s., sez. VI, 6 marzo 2017, n. 1060 e n. 1058;
sez. V, 11 luglio 2014, n. 3568;
sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3955).

In secondo luogo, risulta dalla documentazione acquisita che per l’edificio in questione sono state emesse in precedenza ordinanze di demolizione, nonché un’ordinanza di acquisizione al patrimonio comunale (in data 8 gennaio 2007).

In considerazione anche del fatto che i lavori sono proseguiti anche con la violazione dei sigilli, risulta palesemente infondata la censura degli appellanti, secondo cui si sarebbe dovuto avvisare dell’avvio del procedimento.

3. Il secondo motivo di ricorso è a sua volta infondato.

Da un lato, le opere abusive per cui è causa, consistenti in buona sostanza in due piani ulteriori aggiunti ad un’abitazione, rientrano pacificamente fra le nuove costruzioni per cui il permesso di costruire è necessario ai sensi dell’art. 10 T.U. 6 giugno 2001, n. 380;
risultano però realizzate senza titolo alcuno.

D’altra parte, gli appellanti non allegano neppure elementi da cui si potrebbe desumere la loro regolarità, sì che non si comprende in cosa consisterebbero le carenze istruttorie attribuite al Comune nel perseguire l’abuso.

4. Il terzo motivo è a sua volta infondato.

Sotto il primo dei profili in esso considerati, la ricordata natura di atto vincolato dell’ordine di demolizione delle opere abusive fa sì che esso non necessità di speciale motivazione in ordine all’interesse pubblico sotteso, né alcuna comparazione con un ipotetico interesse del privato a conservare l’opera (così da ultimo, fra le decisioni della Sezione, la sentenza 24 ottobre 2016 n. 4447).

Del resto, quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione – a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore – abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.

La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie sul condono o con la normativa sull’accertamento di conformità (cfr. C.d.S., 6 marzo 2017, n. 1060, cit.).

Sotto l’ulteriore profilo pure considerato, l’ordinanza di acquisizione delle opere le individua in modo esatto, con riferimento all’ubicazione dell’edificio al quale accedono e alla loro natura, mentre nel caso concreto, contrariamente a quanto allega la ricorrente appellante, non è stata acquisita un’area di pertinenza ulteriore.

5. Infondato è anche il quarto motivo.

La norma citata, l’art. 23 della l.r. 16/2004, prevede al comma 5 che “Il PUC”, ovvero il piano urbanistico comunale “può subordinare l'attuazione degli interventi di recupero urbanistico ed edilizio degli insediamenti abusivi, perimetrati ai sensi del comma 3, alla redazione di appositi PUA” ovvero piani urbanistici attuativi “denominati piani di recupero degli insediamenti abusivi”. Si tratta di una previsione ampiamente discrezionale, che oltretutto si applica non a tutti gli immobili abusivi, ma soltanto, come risulta dal comma 6 dello stesso articolo, a quelli suscettibili di sanatoria ai sensi della l. 28 febbraio 1985 n.47 e dell’art. 39 della successiva l. 23 dicembre 1994 n.724, cd. leggi sul primo e secondo condono edilizio.

6. Ciò posto, i ricorrenti non spiegano in alcun modo come tale possibilità di sanatoria rileverebbe a loro favore, dato che si limitano all’affermazione, senza precisazioni ulteriori.

Non risulta infatti che alcuno di questi piani di recupero sia stato nella specie adottato o approvato e comunque, va aggiunto per completezza, dalle norme citate non si desume alcuna regola per cui, nelle more dell’adozione di un’eventuale piano del genere, i poteri sanzionatori del Comune dovrebbero essere sospesi.

Infondato è anche il quinto motivo.

In generale, la buona fede non può essere considerata sussistente a fronte di un illecito permanente come l’abuso edilizio, così come ritenuto per tutte dalla citata sentenza n.4447/2016.

Va comunque osservato che essa nel caso concreto nemmeno è ravvisabile, perché l’autorità comunale ha dovuto adottare tre successive ordinanze di demolizione a fronte della prosecuzione dei lavori, e quindi di una condotta che ha insistito reiteratamente nell’illecito.

Quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione – a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore – abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.

Inoltre, la legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie sul condono o con la normativa sull’accertamento di conformità (cfr. C.d.S., 6 marzo 2017, n. 1060, cit.).

8. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto, perché manifestamente infondato.

Le spese del secondo grado del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

9. Va fatta applicazione dell’art. 26, comma 2, del codice del processo amministrativo, per il quale « Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio…..Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l'articolo 15 delle norme di attuazione ».

In ragione della palese infondatezza dell’appello (connessa alla palese legittimità dei provvedimenti emessi dal Comune di Afragola per il ripristino della legalità), e dunque poiché gli appellanti hanno agito temerariamente in giudizio, il Collegio condanna d’ufficio gli appellanti, in solido tra loro, al pagamento di euro 2.000.

Tale condanna rileva pure agli effetti di cui all'art. 2, comma 2-quinquies, lett. a) e d) della l. 24 marzo 2001, n. 89, come da ultimo modificato dalla l. 28 dicembre 2015, n. 208.

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