Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2012-04-18, n. 201202264

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2012-04-18, n. 201202264
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201202264
Data del deposito : 18 aprile 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08602/2011 REG.RIC.

N. 02264/2012REG.PROV.COLL.

N. 08602/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8602 del 2011, proposto da V M E, rappresentato e difeso dall'avv. E M, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Tacito n. 50;

contro

Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I TER n. 02441/2011, resa tra le parti, concernente DESTITUZIONE DAL SERVIZIO


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 marzo 2012 il Cons. Alessandro Botto e uditi per le parti l’avvocato Mazzola e l’avvocato dello Stato Urbani Neri;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

V M E propone appello avvero la sentenza indicata in epigrafe, con la quale è stato respinto il ricorso presentato per l’annullamento del decreto del Capo della Polizia del 9 novembre 2009, recante la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio, e dichiarata cessata la materia del contendere relativamente al ricorso proposto avverso il decreto del Capo della Polizia del 22 marzo 2010, pure recante la sanzione della destituzione dal servizio. .

Riferisce l’appellante di essere stato destituito dal servizio con decreto del 12 giugno 2003 (e decorrenza dal 12 maggio 2000) e di essere stato successivamente riammesso in servizio (dal 21 marzo 2009) in seguito alla sentenza del TAR Lazio n. 1003/2009, che aveva annullato il predetto provvedimento.

Il giorno della riammissione in servizio veniva nuovamente effettuata la contestazione degli addebiti, in sede di reiterazione del procedimento disciplinare annullato, e all’esito del relativo iter procedimentale veniva adottato il decreto del Capo della Polizia del 9 novembre 2009, impugnato in primo grado.

In relazione a tale impugnazione, il TAR, con la sentenza oggetto del presente appello, ha respinto le censure proposte.

Nelle more, peraltro, era stato attivato un terzo procedimento disciplinare, concluso anch’esso con la destituzione dal servizio e pure questo era stato impugnato.. Poiché nel corso del giudizio tale ultimo provvedimento veniva annullato in via di autotutela, il TAR, sempre con la sentenza oggetto di appello, dichiarava cessata la materia del contendere.

Effettuata una ricostruzione dei fatti posti a fondamento della presente controversia, afferma l’appellante di essere stato rinviato a giudizio per i seguenti reati, costituenti altrettanti capi d’imputazione: a) reato di cui agli artt. 81 cpv., 110, 56, 640, 61 n. 8, c.p. per tentata truffa in concorso con l’avv. C d M ai danni di tre compagnie assicurative;
b) reato di cui agli artt- 110, 478, commi 1 e 2, 482, 61 n. 2 c.p., perché, dopo avere presentato denuncia di furto della propria autovettura indicando nel relativo verbale una certa compagnia assicuratrice, formava due copie di tale verbale in cui indicava, in sostituzione della compagnia assicuratrice, altre compagnie;
quindi, produceva tali copie alle diverse compagnie assicuratrici al fine di commettere il delitto di truffa di cui al capo a);
c) reato di cui all’art. 640 c.p., per avere acquistato un’autovettura pagando il prezzo di lire 6.000.000 con una cambiale rimasta insoluta.

Precisava l’appellante di essere stato assolto dalla imputazione di cui al capo b) perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, mentre l’imputazione di cui al capo c) si è conclusa con la remissione della querela da parte della persona offesa. Aggiungeva, poi, che il procedimento conclusosi con la seconda destituzione è stato avviato in data 21 marzo 2009 con la contestazione degli addebiti, che dava atto dell’intervenuta remissione di querela e dell’assoluzione per il capo b) sopra riportato.

In sostanza, all’esito del procedimento penale l’Amministrazione avrebbe instaurato due procedimenti disciplinari: con il primo sarebbero stati contestati al ricorrente i due comportamenti oggetto di esame del giudice penale e non sanzionati da quest’ultimo;
con il secondo, invece, il comportamento relativo alla tentata truffa, sanzionato penalmente.

Ciò premesso, l’appellante ripropone il primo motivo di ricorso di primo grado, con cui si è censurata la violazione dell’art. 119 del DPR 3/1957, poiché la rinnovazione del procedimento disciplinare sarebbe avvenuta dopo la scadenza del termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza di annullamento. Infatti, tale sentenza è stata pubblicata il 3 febbraio 2009 e lo stesso giorno copia conforme è stata trasmessa al Ministero dell’Interno, mentre il procedimento disciplinare è stato avviato solo in data 21 marzo 2009. All’uopo l’Amministrazione ha depositato copia della sentenza recante un timbro di ricevimento con la data del 20 febbraio 2009, ma in tale data la sentenza risulta arrivata presso la segreteria del dipartimento della Pubblica Sicurezza, mentre non sarebbe acquisibile la data di arrivo della comunicazione presso la posta centrale del Ministero.

Sottolinea l’appellante che la mancata registrazione della posta all’arrivo presso il Ministero non dovrebbe ritorcersi a danno dei soggetti interessati a dare rilievo al dies a quo , atteso altresì che i successivi smistamenti all’intero del dicastero in questione dovrebbero essere irrilevanti per i soggetti terzi.

Evidenzia, inoltre, l’appellante che non era nella sua disponibilità fornire la prova della effettiva ricezione della sentenza da parte dell’Amministrazione, non potendo disporre di alcun mezzo probatorio in merito.

Ripropone, poi, l’appellante il terzo motivo di ricorso introduttivo, con il quale è stato denunciata la violazione del termine di conclusione del procedimento disciplinare. Infatti, la contestazione, com’è noto, è avvenuta il 21 marzo 2009, mentre il decreto di destituzione risulta adottato il 9 novembre 2009 e notificato il successivo 1 dicembre.

Ed invero, sulla base delle considerazioni svolte al punto precedente, si dovrebbe ritenere che il Ministero abbia ricevuto la comunicazione della sentenza di annullamento da parte del TAR Lazio in data prossima al 3 febbraio 2009. O, ipotizzandosi che sia avvenuta il 10 febbraio 2009, ne dovrebbe discendere che il termine di conclusone del procedimento risulta spirato il 7 novembre 2009. Inoltre, nel termine di conclusione del procedimento dovrebbe essere ricompresa anche la fase della notifica all’interessato, altrimenti rischiandosi di vanificare, in punto di fatto, la stessa perentorietà del termine di conclusione del procedimento.

In ordine, poi, al secondo, quarto e quinto motivo di ricorso, trattati unitariamente dal giudice di primo grado, osserva l’appellante che l’Amministrazione, con la seconda contestazione degli addebiti, avrebbe indebitamente parcellizzato il comportamento unitario contestato in sede penale, mentre il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare si fonderebbe sul presupposto della identità del fatto contestato nelle due sedi, altrimenti non potendosi neppure ipotizzare una disposizione come l’art. 653, comma 1 bis, c.p.p., che attribuisce efficacia al giudicato penale di condanna in sede disciplinare quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e alla commissione da parte dell’imputato.

In altre parole, l’Amministrazione non avrebbe potuto procedere alla sola contestazione del falso separatamente dalla truffa, tenuto conto che la falsificazione rappresentava proprio la modalità nella quale si era concretizzato il tentativo di truffa, come riconosciuto dallo stesso giudice penale.

Ad avviso dell’appellante, poi, la nuova destituzione dal servizio adottata con il provvedimento in esame, datato 9 novembre 2009 e notificato il 1 dicembre 2009, avrebbe altresì violato il giudicato formatosi sulla sentenza TAR Lazio n. 1003/2009. Infatti, con tale sentenza il TAR ha ritenuto sussistenti i due vizi denunciati, ossia la violazione dell’art. 11 DPR 737/1981 e il vizio di istruttoria, avendo ritenuto che fosse necessaria una valutazione unitaria della condotta del dipendente rispetto a quanto contestato in sede penale. Da ciò l’illegittimità della segmentazione operata successivamente, con duplicazione della contestazione in sede disciplinare.

L’appellante ripropone, inoltre, la violazione dell’art. 1, ultimo comma, DPR 737/1981, dell’art. 3 della legge 241/1990, del vizio di motivazione, di mancanza di proporzionalità della sanzione, di violazione dell’art. 1, penultimo comma, DPR 737/1981, dell’art. 13 DPR 737/1981 e di abnormità della sanzione inflitta.

Il TAR sul punto ha affermato che l’Amministrazione avrebbe preso in considerazione i precedenti di carriera del dipendente e che quest’ultimo non avrebbe indicato la sanzione applicabile al caso in esame, in questo modo impedendo lo svolgimento della relativa censura.

Afferma in proposito l’appellante che l’Amministrazione non avrebbe assolto all’onere motivazionale su di essa gravante e, comunque,. avrebbe adottato la destituzione dal servizio in violazione del principio di proporzionalità imposto in subiecta materia .

Infatti, al di là di vuote definizioni, l’Amministrazione non avrebbe dato conto della specifica gravità intrinseca della condotta sanzionata e del pregiudizio che la stessa possa avere arrecato all’Amministrazione e allo svolgimento del servizio (tenuto conto che si tratta di condotte poste in essere al di fuori dell’attività di servizio).

Inoltre, l’Amministrazione non avrebbe considerato la non rilevanza penale delle stesse condotte contestate (tenuto conto che la truffa è stata stralciata e contestata nel terzo procedimento disciplinare, poi annullato in via di autotutela), il contesto in cui sono state poste in essere, i giudizi positivi riportati negli anni di servizio e il comportamento corretto tenuto dopo la commissione del reato e la ripresa del servizio.

Da ultimo, l’appellante ripropone l’illegittimità del provvedimento impugnato per violazione dell’art. 149, penultimo comma, DPR 737/1981 ( recte : 3/1957). Infatti, l’ispettore capo M S ha svolto le funzioni di componente del Consiglio provinciale di disciplina sia nel primo che nel secondo procedimento disciplinare. Ciò comporterebbe, secondo l’appellante, che il M aveva già manifestato la propria opinione circa l’applicazione della destituzione e non potrebbe attribuirsi una interpretazione riduttiva alla norma in materia di incompatibilità, tenuto conto che, se è grave avere esposto il proprio pensiero al di fuori dell’esercizio delle funzioni, ancora più grave dovrebbe essere considerata l’ipotesi della esternazione ufficiale del proprio pensiero in merito alla fattispecie disciplinare in esame.

L’appellante, deducendo un danno grave ed irreparabile, chiede altresì la sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, ma tale domanda cautelare risulta essere stata successivamente rinviata al merito in sede di udienza camerale.

Si è costituita in giudizio l’amministrazione dell’Interno per resistere all’appello proposto. Con successiva memoria l’Amministrazione appellata evidenzia, innanzitutto, che la data di ricezione della sentenza da parte del TAR Lazio non possa che essere quella del 20 febbraio 2009, come attestato dal relativo timbro datario ed una eventuale conoscenza anticipata non potrebbe essere inferita da mere presunzioni che non assurgono al rango di prove.

Non potrebbe, poi, computarsi nel termine di conclusione del procedimento anche il tempo necessario per eseguire la notifica, trattandosi di attività estrinseca di mera partecipazione all’interessato della decisione adottata.

Quanto, poi, alla dedotta artificiosa segmentazione del fatto contestato in sede penale (tentata truffa), non sarebbe ravvisabile tale segmentazione, atteso che il tenore delle contestazioni coprirebbe l’intero fatto storico, fatta comunque salva la possibilità di una separata valutazione sub specie juris , come d’altronde avvenuto anche in sede penale.

Il provvedimento impugnato, poi, risulterebbe adeguatamente motivato e sarebbe altresì immune dalla dedotta illegittimità per violazione del principio di proporzionalità. Comunque, l’adeguatezza della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato spetterebbe in equivocamente all’Amministrazione, con una valutazione insindacabile in sede giurisdizionale, salva la manifesta eccessività, non riscontrata e non riscontrabile nel caso di specie.

Infine, del tutto destituita di fondamento sarebbe poi la dedotta causa di incompatibilità.

DIRITTO

Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato e, pertanto, debba essere respinto.

Ed invero, in ordine alla dedotta violazione del termine per iniziare il procedimento disciplinare rispetto all’avvenuta comunicazione della sentenza di annullamento del precedente provvedimento di destituzione dal servizio, non può non convenirsi con quanto affermato dal giudice di primo grado. Infatti, l’appellante cerca di dimostrare che la data di effettiva conoscenza sarebbe anteriore a quella apposta con il timbro di ricezione da parte del Dipartimento di Pubblica Sicurezza sulla base di un giudizio meramente ipotetico, non avvalorato da alcun riscontro, neppure indiziario.

Né si può ritenere che l’interessato fosse nella assoluta impossibilità di dedurre (almeno) un inizio di prova al riguardo, ben potendo egli fornire, ad esempio, una traccia documentativa relativa alla riferita prassi di smistamento della posta all’interno dell’Amministrazione.

Da ciò discende anche l’infondatezza della seconda censura prospettata, con la quale viene dedotta la tardiva adozione/notifica del provvedimento di destituzione dal servizio, tenuto conto che anche in questo caso la presunta anticipata individuazione del dies a quo risulta fondata sulle stesse inferenze congetturali in precedenza prese in esame.

Né può ricomprendersi nel termine di conclusione del procedimento anche la fase della notifica del provvedimento, trattandosi, come correttamente affermato dal giudice di primo grado in ossequio ad un consolidato insegnamento giurisprudenziale, di attività partecipativa, di integrazione dell’efficacia, estrinseca alla formazione della volontà dell’Amministrazione (cfr. C.d.S., IV, 30 giugno 2010 n. 4163;
VI, 9 aprile 2009 n. 2190 ecc.).

Quanto, poi, alla dedotta illegittimità della pretesa segmentazione in sede disciplinare delle condotte contestate in sede penale, osserva il Collegio come, in realtà, tale frammentazione della contestazione in sede disciplinare non appare riscontrabile. Infatti, come si evince dall’atto di contestazione, al dipendente in questione risulta essere stata contestata, oltre che l’acquisto non saldato di un’autovettura, l’attività di falsificazione della documentazione relativa alla denuncia di furto della propria autovettura , con conseguente inoltro a ben quattro compagnie assicuratrici, al fine di riscuotere da ognuna il relativo ristoro economico.

Ebbene, a prescindere dalle qualificazioni giuridiche attribuite a tale fatto in sede penale, esso è stato contestato nella sua interezza al dipendente, senza alcuna artificiosa frammentazione. Che, poi, l’Amministrazione intendesse perseguire il dipendente anche con un ulteriore procedimento disciplinare per il fatto qualificato come tentata truffa in sede penale è circostanza che esula dalla presente valutazione e, comunque, si configura come irrilevante in questa sede, atteso che il terzo procedimento disciplinare, sfociato in un autonomo provvedimento di destituzione dal servizio, risulta essere stato oggetto di autotutela, con conseguente annullamento.

Anche sul punto, quindi, il giudice di primo grado ha correttamente argomentato, potendosi altresì aggiungere alla convincente motivazione adottata che il ricorrente non risulta abbia subito lesione alcuna dalla formulazione dell’atto di contestazione: egli, infatti, ha perfettamente percepito la portata dell’addebito, difendendosi nel merito delle accuse in maniera adeguata, ancorché non ritenuta meritevole di accoglimento da parte dell’Amministrazione.

In ordine alla dedotta violazione del principio di proporzionalità della sanzione, appare sufficiente evidenziare come tale valutazione impinga nella sfera della discrezionalità dell’Amministrazione, suscettibile di revisione giudiziaria solo ove presenti manifesti sintomi di illogicità. Ebbene, nulla di tutto ciò nel caso di specie, tenuto conto che la condotta tenuta dall’odierno appellante risulta essere stata della massima gravità, in relazione ai doveri etici e deontologici di un appartenente alle forze di polizia. Pertanto, nonostante , nonostante l’avvenuta valutazione di elementi favorevoli deducibili dall’attività di servizio svolta, l’Amministrazione ha ritenuto di dover fare prevalere la particolare gravità del comportamento tenuto, suscettibile intrinsecamente di gettare discredito sull’intero Corpo di appartenenza.

Da ciò la non illogicità di una sanzione espulsiva. .

Infine, quanto alla dedotta violazione dell’art. 149, penultimo comma, DPR 737/1981 ( recte : 3/1957), ritiene il Collegio che sia sufficiente evidenziare che le cause di incompatibilità non sono suscettibili di lettura estensiva e che non possono equipararsi le situazioni dedotte dall’appellante come analoghe, ossia la precedente partecipazione alla commissione di disciplina (il cui atto finale è stato cassato dal giudice amministrativo) e la valutazione espressa in altra sede da parte del membro della commissione disciplinare.

A ciò si aggiunga che, comunque, l’appellante non ha proposto alcuna istanza preliminare di ricusazione nei riguardi della partecipazione del membro in asserita situazione di incompatibilità.

Alla luce delle suesposte considerazioni occorre, pertanto, respingere, l’appello in esame.

Giustificati motivi consentono di compensare tra le parti le spese del grado di appello.

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