Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2022-03-14, n. 202201763
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Testo completo
Pubblicato il 14/03/2022
N. 01763/2022REG.PROV.COLL.
N. 08565/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8565 del 2021, proposto dal Fallimento Selca S.p.a, in persona del curatore fallimentare
pro tempore,
rappresentato e difeso dagli avvocati S A e T M, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio della prima in Roma, viale Tiziano, n. 108,
contro
- il Comune di Berzo Demo e l’Unione dei Comuni della Valsaviore, in persona dei rispettivi legali rappresentanti
pro tempore
, rappresentati e difesi dall’avvocato D B, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia;
- la Provincia di Brescia, in persona del Presidente
pro tempore
, rappresentata e difesa dagli avvocati Gisella Donati e Magda Poli, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Magda Poli in Roma, via Sistina, n. 42;
- Corbat S.r.l., non costituita in giudizio.
per la riforma
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Berzo Demo, dell’ Unione dei Comuni della Valsaviore e della Provincia di Brescia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 27 gennaio 2022, il Cons. Vincenzo Lopilato e viste le conclusioni delle parti come da verbale;
FATTO
1.‒ L’area ex Selca faceva parte di un sito industriale dismesso, situato nella zona di fondo valle, in un contesto ambientale caratterizzato da intensa antropizzazione. I primi insediamenti produttivi, degli inizi del 1800, si erano occupati della produzione di materiale bellico. In seguito, tra il 1917 e il 1930, aveva operato un’acciaieria con forno di fusione e a partire dal 1928 era iniziata la produzione di elettrodi di grafite per i forni ad arco, le cui materie prime di base erano costituite principalmente da coke di petrolio e pece di catrame allo stato solido: questa attività aveva avuto il massimo sviluppo industriale verso il 1960 a opera della società Union Carbide Italia S.p.a. (poi divenuta Ucar S.p.a.) ed era terminata nel 1994.
Nell’ ex stabilimento Ucar si erano successivamente insediate due società: Graftech S.p.a., che si era specializzata nella produzione di manufatti in grafite per applicazioni industriali e civili, e Selca S.p.a..
La società Selca S.p.a era stata autorizzata dalla Regione nel 1998 (e poi dalla Provincia nel 2003) a svolgere operazioni di stoccaggio e trattamento finalizzate al recupero di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi mediante operazioni di messa in riserva [R13] e riciclo/recupero di metalli e composti metallici [R4] e di altre sostanze inorganiche [R5];i materiali decadenti dalle operazioni di trattamento della società Selca S.p.a. erano commercializzati come materie prime secondarie in metallurgia e nei cementifici e detta attività era stata svolta dal 1998 al 2010, fino alla dichiarazione di fallimento (la Regione aveva rilasciato l’autorizzazione integrata ambientale nel 2007 ed aveva rinnovato l’autorizzazione nel 2010).
Nei terreni di proprietà della società Graftech S.p.a. era stata realizzata una discarica per sottoprodotti carboniosi, detriti da demolizioni e residui inerti di grafite.
In adiacenza ai suddetti terreni si trovava l’area dell’ ex discarica comunale, attualmente di proprietà dello stesso Comune di Berzo Demo.
Dopo il fallimento di Selca S.p.a. sull’area sono rimasti depositati enormi cumuli di rifiuti.
La Provincia di Brescia, con provvedimento del direttore del settore ambiente del 19 marzo 2015, n. 1959, ha diffidato, ai sensi dell’art. 244, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (“ Norme in materia ambientale ”), i soggetti ritenuti responsabili dell’inquinamento alla messa in sicurezza di emergenza e alla presentazione di un piano di caratterizzazione.
Tale provvedimento è stato impugnato innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, che, con sentenza 3 dicembre 2016, n. 669, ha rigettato il ricorso.
La Curatela del fallimento ha proposto appello e il Consiglio di Stato, sez. IV, con sentenza 4 dicembre 2017, n. 5668, ha accolto il ricorso, ritenendo che la Curatela, per la sua natura giudica, non potesse essere considerata soggetto responsabile.
2.‒ Il Comune di Berzo Demo, prima dell’adozione della suddetta sentenza, ha adottato una ordinanza contingibile ed urgente 13 aprile 2017, n. 3.
In primo luogo, è stato ordinato alla Curatela fallimentare di « effettuare tutti gli interventi necessari atti alla messa in sicurezza delle acque sotterranee finalizzate a garantire il contenimento del pennacchio inquinante e scongiurare la diffusione della contaminazione verso valle idrogeologico ». Si è previsto che detta messa in sicurezza « potrà essere effettuata attraverso uno sbarramento idraulico opportunamente dimensionato e posizionato rispetto al plume dell’inquinante ». Si è aggiunto che: i ) « lo scopo dello sbarramento idraulico è quello di intercettare le acque di falda contaminate da fluoro (f) e di interrompere così la migrazione di detto composto verso il valle idrologico che comprende anche il fiume Oglio posto subito a valle del sito contaminato »; ii ) « le acque raccolte andranno opportunamente trattate attraverso un impianto mobile di trattamento acque o utilizzando l’impianto di depurazione sul sito, se adatto al trattamento di queste acque e se utilizzabile, e scaricate secondo quanto previsto dalla legge vigente »; iii ) « questo intervento appare estremamente urgente a causa della persistenza sul sito contaminato delle sorgenti primarie di contaminazione ».
In secondo luogo, si è imposto alla Curatela di « eseguire il monitoraggio delle acque con frequenza trimestrale per almeno due anni, al fine di valutare e controllare possibili evoluzioni della contaminazione piezometriche della falda, in attesa dei necessari interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dell’area ».
3.‒ La Curatela ha impugnato tale ordinanza innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, per i motivi riproposti in sede di appello e riportati nei successivi punti.
4.‒ Il Tribunale amministrativo, con sentenza 15 giugno 2021, n. 554, ha rigettato il ricorso.
5.‒ La Curatela ha proposto appello.
6.‒ La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 17 gennaio 2022.
DIRITTO
1.‒ La questione all’esame della Sezione attiene alla legittimità dell’ordinanza comunale contingibile ed urgente 13 aprile 2017, n. 3, con cui è stato ordinato alla Curatela fallimentare di effettuare tutti gli interventi a tutela del sito contaminato descritti nella parte in fatto.
2.‒ L’appello non è fondato.
3.‒ Con un primo motivo si assume l’erroneità della sentenza per violazione del principio del ne bis in idem di matrice europea e del giudicato. In particolare, si assume che questo Consiglio, con la citata sentenza n. 5668 del 2017, avrebbe deciso la medesima questione relativa all’impugnazione del provvedimento della Provincia, essendo presenti le « stesse parti processuali », l’« identico sito », le « stesse misure ».
Il motivo non è fondato.
In una prima accezione, il principio del ne bis in idem di valenza processuale, di cui all’art. 649 cod. proc. pen. impedisce che si inizi un nuovo procedimento penale quando è stata già adottata una sentenza di proscioglimento o di condanna (in ambito europeo, si v. art. 50 Carta di Nizza e art. 4 del Protocollo n. 7 della Cedu). Si tratta di un divieto espressione di un diritto fondamentale di civiltà giuridica il quale intende evitare che una persona possa essere esposta senza certezze allo svolgimento di plurimi procedimenti sanzionatori. Tale preclusione opera in presenza del cd. idem factum , inteso come fatto naturalistico, comprensivo di condotta, rapporto di causalità ed evento (Corte cost. n. 43 del 2018). Il principio in esame si applica anche in presenza di provvedimenti amministrativi aventi natura afflittiva. I criteri per individuare tale tipologia di provvedimenti sono costituiti: i ) dalla qualificazione giuridica dell’illecito; ii ) dalla natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione, di carattere generale, della norma che lo prevede (deve essere rivolto alla generalità dei consociati) e dallo scopo perseguito che deve essere non risarcitorio ma afflittivo; iii ) dal grado di severità della sanzione, che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non a quella concretamente applicata (Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Bassi).
In una seconda accezione, il principio del ne bis in idem , « ricavabile dagli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ., in applicazione del quale è vietato al giudice di pronunciarsi due volte sulla medesima controversia, è applicabile anche al processo amministrativo, in virtù del rinvio esterno contenuto nell’art. 39 comma 1, cod. proc. amm., perché espressivo di esigenze comuni a qualsiasi ordinamento processuale, consistenti nel prevenire l’inutile ripetizione di attività processuali e possibili contrasti di giudicati » (Cons. Stato, sez. V, 23 marzo 2015, n. 1558). Tale preclusione opera soltanto nel caso in cui venga riproposta un’azione, tra i medesimi soggetti, avente la stessa causa petendi e lo stesso petitum (cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 agosto 2019, n. 5627;Cons. Stato, sez. III, 29 novembre 2018, n. 6808).
Nella fattispecie in esame, non è chiaro a quale delle due accezioni del principio in esame l’appellante abbia inteso fare riferimento. In ogni caso, la violazione contestata non sussiste.
Con riferimento alla prima accezione, da un lato, l’appellante non ha dimostrato che il provvedimento impugnato abbia natura sostanzialmente penale, dall’altro lato, il secondo procedimento è iniziato e si è concluso prima dell’adozione della sentenza di questo Consiglio n. 5668 del 2017, realizzando così una contestualità di procedimenti e non una loro successione.
Con riferimento alla seconda accezione, la prima questione esaminata da questo Consiglio ha riguardato un provvedimento adottato dalla Provincia nell’esercizio dei poteri riconosciuti all’Amministrazione dal d.lgs. n. 152 del 2006, in tema di bonifica dei siti inquinati;la questione all’esame del Consiglio, in questo processo, ha ad oggetto un provvedimento adottato dal Comune nell’esercizio dei poteri di cui agli articoli 50 e 54 del decreto legislativo 31 marzo 2000, n. 267, in presenza di una condizione di rischio sanitario. Si tratta di due provvedimenti diversi che rendono diverso il rapporto giuridico di diritto pubblico dedotto nel presente giudizio. In definitiva, il primo giudicato ha avuto ad oggetto un rapporto con diverso petitum con la conseguenza che non vi sono ostacoli alla proposizione del presente giudizio.
4.‒ Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza per violazione dell’art. 73 cod. proc. amm. e del principio del giusto processo, in quanto il Tribunale ha ritenuto tardiva la documentazione presentata dalla Curatela fallimentare relativa alla presentazione al giudice delegato dell’istanza, ai sensi dell’art. 104- ter , comma 8, legge fallimentare e conseguente modifica del programma di liquidazione. In particolare, dopo avere ricevuto il 12 maggio 2021 dalla cancelleria la comunicazione del visto del giudice delegato, la Curatela ha comunicato, in data 14 maggio 2021, ai creditori la rinuncia alla liquidazione del sito e di tutto quanto su di esso è collocato, con rimessione in disponibilità e possesso al debitore.
Il motivo non è fondato.
L’art. 73 cod. proc. civ. prevede che i documenti devono essere depositati quaranta giorni prima dell’udienza. L’art. 54 cod. proc. amm. dispone che « la presentazione tardiva di memorie o documenti può essere eccezionalmente autorizzata, su richiesta di parte, dal Collegio, assicurando comunque il pieno rispetto del diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti, qualora la produzione nel termine di legge sia risultata estremamente difficile ».
Nel caso di specie, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti previsti da tale ultima disposizione, la documentazione indicata dall’appellante non è rilevante. Questa Sezione ha già avuto modo di affermare che rispetto al Curatore fallimentare rilevano « gli obblighi e le responsabilità di diritto pubblico, con la conseguenza che eventuali atti di dismissione dei beni, anche se legittimamente adottati in base all’art. 104- ter della legge fallimentare, andranno considerati come atti privatistici, non dismissivi della responsabilità di diritto pubblico ». In definitiva, « la Curatela non può ritenersi liberata dalle responsabilità connesse alla discarica per il solo fatto di avere rinunciato a liquidarla » (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 8 giugno 2021, n. 4383).
5.‒ Con un terzo motivo si assume che la Curatela non potrebbe essere considerata responsabile del danno ambientale perché il primo giudice ha basato la propria decisione sulla sentenza 26 gennaio 2021, n. 3, dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ha riconosciuto (in relazione ad una fattispecie diversa) la legittimazione passiva della Curatela. Ciò in quanto la parte non avrebbe potuto prevedere, al momento dell’illecito, quale fosse la regola di condotta applicabile. Inoltre, si afferma che il Tar avrebbe fondato l’intera decisione su un accertamento dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) del 2017, senza tenere conto delle successive determinazioni del 2021 della stessa Arpa.
Il motivo non è fondato.
Questa Sezione (da ultimo, con sentenza n. 4383 del 2021, cit.) ha affermato che il principio generale di diritto europeo “chi inquina paga” che regola la materia della responsabilità per danno ambientale si declina (per quanto interessa in questa sede) nel senso di seguito indicato:
a ) la tutela dell’ambiente ruota « intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione »;
b ) « la responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (corrispondenti, rispettivamente, al contenuto di un diritto personale o reale di godimento) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto, dal momento che grava su colui che è in relazione con la cosa l’obbligo di attivarsi per fare in modo che la cosa medesima non rappresenti più un danno o un pericolo di danno (o anche di aggravamento di un danno già prodotto) »;
c ) la responsabilità in questione « è pur sempre ascrivibile secondo i canoni classici, comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole, dal momento che la personalità e la rimproverabilità dell’illecito risiedono nel comportamento del soggetto che volontariamente sceglie di sottrarsi o, il che è lo stesso, di non attivarsi anche per mera negligenza, per ripristinare l’ambiente »;
d ) in particolare, l’accertamento del nesso di causalità si fonda non sulla regola probatoria penalistica basata sul principio dell’accertamento della responsabilità “al di là di ogni ragionevole dubbio” ma sul principio civilistico del “più probabile che non” (in questo senso, Cons. Stato, sez. IV, n. 5668 del 2017, cit.);
e ) « l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario »;
f ) « la responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale non costituisce un’esimente, né elide, tantomeno in via successiva, la responsabilità di coloro che divengono proprietari del bene o che vantano diritti o relazioni di fatto col bene medesimo ».
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la citata sentenza n. 3 del 2021, ha affermato che « la Curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito (…), anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale» non può andare esente da responsabilità « lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività imprenditoriale dell’impresa cessata ». Diversamente argomentando i costi « finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio comunitario “chi inquina paga”, ma anche in contrasto con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio ».
Tale regola di responsabilità può trovare applicazione anche in questo caso, senza che possa valere in senso contrario invocare il principio convenzionale di irretroattività delle prescrizioni sfavorevoli. Esso, infatti, non opera in presenza di mutamenti di orientamenti giurisprudenziali che hanno valenza meramente dichiarativa. Nel caso in esame non viene neanche in rilievo un ovverruling , in quanto, al momento della condotta, la giurisprudenza era divisa in ordine alla sussistenza o meno della responsabilità del Curatore, il che esclude che la regola giuridica fosse non prevedibile o accessibile.
Per quanto attiene alla riconduzione della fonte di pericolo per l’ambiente della condotta della curatela, il primo giudice ha correttamente richiamato quando accertato dall’Arpa con la relazione del 10 maggio 2017, che ha confermato il superamento delle Csc per il parametro fluoruri nei piezometri Pz15 e Pz18. Per quanto attiene alla sussistenza del rapporto di causalità, in attuazione del principio civilistico del “più probabile che non”, alla luce della documentazione in atti, la riconducibilità eziologica dell’inquinamento alla condotta della curatela, in quanto « nessuna delle attività industriali o anche di smaltimento, precedenti e/o coeve, sviluppatesi nella stessa area dove sorge lo stabilimento ex Selca ovvero anche in aree viciniori era caratterizzata da un processo produttivo che possa “giustificare” il rilascio di fluoruri riscontrato » (in questo senso, già sentenza n. 5668 del 2017, cit).
Né varrebbe rilevare, come fanno gli appellanti, che si sarebbe dovuto esaminare l’ultimo report 12 aprile 2021 dell’Arpa nonché che si sarebbe dovuto tenere conto dei risultati cui è pervenuto, dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, il perito di parte dott. Leoncini nella relazione del 27 agosto 2021. La regola generale, applicabile anche in questo ambito, è quella del tempus regit actum, con conseguente irrilevanza delle emergenze fattuali e normative sopravvenute rispetto al momento in cui vennero emanati gli atti impugnati. Questa Sezione ha già avuto modo di affermare che « il contraddittorio processuale non può essere dilatato sine die , in attesa di sempre nuovi dati (nel caso di specie nuovi campionamenti) che comprovino – o smentiscano – l’ipotesi sottesa ai campionamenti sui quali si è fondato il provvedimento impugnato: il giudice ha l’obbligo di decidere la causa in un tempo ragionevole e l’alternativa che si pone è quindi quella di ritenere il dato tecnico che l’amministrazione ha posto a supporto del proprio provvedimento rispettivamente attendibile od inattendibile» (Cons. Stato, sez. IV, n. 5668 del 2017, cit.).
Le eventuali sopravvenienze idonee a mutare la situazione di fatto possono rilevare nella fase di esecuzione del giudicato, al fine di stabilire se la parte ha correttamente adempiuto agli obblighi discendenti dalla sentenza di cognizione.
6.‒ Con un quarto motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha ravvisato la violazione delle regole del contraddittorio procedimentale.
Il motivo non è fondato.
L’art. 7 della legge n. 241 del 1990 prevede che la pubblica amministrazione deve comunicare l’avvio del procedimento, tra gli altri, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti. L’art. 21- octies della stessa legge dispone che « il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato ».
Nella fattispecie in esame, il provvedimento adottato, come correttamente rilevato dal primo giudice, si inserisce nell’ambito di una complessa interlocuzione con il Comune, con concessione anche di più proroghe per consentire l’osservanza dei tempi imposti per l’adempimento dell’ordinanza. In ogni caso, avuto riguardo al rapporto dedotto in giudizio e alla documentazione in atti, l’eventuale partecipazione procedimento non avrebbe inciso, ai sensi dell’art. 21- octies , sul contenuto sostanziale della determinazione finale assunta dal Comune.
7.‒ Deve, infine, rilevarsi che non possono trovare ingresso nel presente giudizio le questioni prospettate dagli appellanti nelle memorie di replica con riferimento alla asserita insussistenza dei poteri di urgenza del Sindaco, non essendo questo un motivo ritualmente fatto valere con il ricorso in appello.
8.‒ Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.