Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2021-08-17, n. 202105911

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2021-08-17, n. 202105911
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202105911
Data del deposito : 17 agosto 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 17/08/2021

N. 05911/2021REG.PROV.COLL.

N. 04219/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA IALIANA

IN NOME DEL POPOLO IALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso NRG 4219/2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv.ti E L e V S, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,

contro

il Comune di Mondragone (CE), in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall'avv. G D G, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,

per la riforma

della sentenza del TAR Campania, sez. VI, n. 5952/2019, resa tra le parti e concernente il rigetto dell’istanza attorea di condono edilizio, nonché la revoca della licenza demaniale per l’esercizio di attività balneare;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Mondragone;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica dell’8 luglio 2021 il Cons. S M R e uditi, altresì, per le parti, gli avvocati Laurenza e Della Gatta, in collegamento da remoto ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70 e dell’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare del Segretario generale della Giustizia amministrativa 13 marzo 2020 n. 6305;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


FATTO e DIRITO

1. – Il sig. -OMISSIS- dichiara d’esser titolare dello stabilimento balneare -OMISSIS- , fin dal 1970 esistente in Mondragone (CE), -OMISSIS-su un’area demaniale marittima di mq. 4.638,70, finora occupata previa autorizzazione demaniale, annualmente sempre finora rinnovata.

Il sig.-OMISSIS-rende noto sul punto che l’originaria struttura dello stabilimento (strutture residenziali e non, a suo dire per complessivi mc 731,91), realizzata da suo padre, fu oggetto della di lui istanza (31 marzo 1987) di condono edilizio ex art. 31 della l. 28 febbraio 1985 n. 47. Su tal domanda intervenne sì (31 marzo 2003) il parere negativo della Commissione condono —poiché le opere edilizie accertate dalla Polizia locale risultarono realizzate dopo il termine del 1° ottobre 1983 di cui al medesimo art. 31 per conseguire la sanatoria—, ma non anche un provvedimento definitivo.

Ebbene, il sig.-OMISSIS-, subentrato al padre nella gestione di tal stabilimento, il 10 febbraio 2005 propose a sua volta l’istanza di condono edilizio ex art. 39, co. 10-bis della l. 27 dicembre 1994 n. 724 (pratica n. 803, prot. -OMISSIS-), in espressa conversione di quella presentata dal padre (pratica n. 2585, prot. -OMISSIS-), come evincesi dal certificato comunale da lui stesso richiesto prot. -OMISSIS-Cond del 10 marzo 2011 (in atti del giudizio di primo grado e mai contestato). Su tal istanza in conversione, il 12 settembre 2008 la Commissione condono espresse parere favorevole con richiesta di cospicua integrazione documentale, mentre il Comune, dal canto suo e con le note prot. n. 50496/RTU del 29 novembre 2016 e prot. n. 14401 del 31 marzo 2017, ribadì detto parere e, rispettivamente, comunicò che la liquidazione degli oneri concessori era ancora in itinere . Tuttavia, è intervenuta l’ordinanza dirigenziale n. 35 del 22 novembre 2018, con cui il Comune, senza alcuna previa comunicazione, ha respinto l’istanza attorea di condono del 2005, per la carente integrazione documentale della pratica richiesta dalla Commissione condono (la cui omessa presentazione entro tre mesi dalla richiesta comporta l’improcedibilità dell’istanza stessa) ed a causa del superamento del limite volumetrico di legge (mc 750), essendo stata realizzata, come da perizia asseverata, una volumetria complessiva pari a mc 4113,41. Con l’ordinanza del successivo 3 dicembre, il Comune ha disposto la revoca della licenza demaniale provvisoria n. 32 del 19 novembre 2018, per effetto del citato diniego.

2. – Contro tali statuizioni è insorto il sig.-OMISSIS-innanzi al TAR Napoli, col ricorso NRG 500/2019, deducendo: 1) – l’omesso rispetto delle garanzie procedimentali partecipative, viepiù giustificate dai reiterati pareri favorevoli resi dal Comune nell’arco di tredici anni (anche sull’inapplicabilità del limite volumetrico alle opere edilizie realizzate) e avvalorati dalla circolare del Ministero dei ll.pp., sì da creare, in capo al ricorrente, un forte affidamento sull’esito positivo della sua istanza, al quale comunque andava consentito, come da lui chiesto il 2 maggio 2019, di ridimensionarne la domanda;
2) – l’omessa indicazione specifica dell’asserita carenza documentale;
3) – l’inapplicabilità in ogni caso del limite d’incremento volumetrico di mc 750 per le strutture prettamente balneari, assentite stagionalmente ogni anno e subito dopo rimosse (a differenza di quelle residenziali);
4) – l’omessa definizione dell’istanza attorea di condono ex l. 47/1985 la quale, per il contrastante orientamento del Comune, andava decisa prima dell'emanazione degli atti impugnati;
5) – l’illegittimità derivata della revoca della licenza demaniale.

L’adito TAR, con sentenza n. 5952 del 19 dicembre 2019, ha in parte dichiarato inammissibile (a causa della consolidazione di come la P.A. aveva descritto la conversione dell’originaria istanza di condono ex l. 47/1985, per l’intervenuto parere negativo del 1999, in quella ex art. 39, co. 10–bis della l. 724/1994) e l’ha respinto per la restante parte.

Appella quindi il sig.-OMISSIS-, col ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza alla luce di quattro articolati gruppi di censure. Resiste in giudizio il Comune intimato, concludendo per il rigetto dell’appello.

3. – L’appello non convince sotto tutti i profili dedotti.

L’appellante afferma la necessità nella specie del preavviso di rigetto, il quale, però e come ogni garanzia procedimentale pretermessa, va calibrata in ragione del tipo (vincolato, o no) di funzione amministrativa esercitata e dell’esistenza di serie alternative in fatto o in diritto che il privato, se avvertito, avrebbe potuto rappresentare alla P.A. procedente a confutazione del preavviso o per indurla ad assumere una statuizione d’altro contenuto.

Ebbene, l’appellante, ad una serena lettura della sua doglianza ed a fronte d’una potestà strettamente conformate dalla legge sui limiti di cubatura aggiuntiva condonabile, non offre soluzioni alternative concretamente praticabili, né ne dimostra l’esistenza. E ciò nonostante sia l’omessa tempestiva (e necessitata) integrazione documentale (da lui ben nota perlomeno dal certificato n. 2194/2011), sia l’eccesso di cubatura realizzata, tra manufatti “facilmente” o “difficilmente” amovibili (il cui limite è e resta per legge fissato in mc 750, per tutti gli usi delle costruzioni da condonare). Non va certo misconosciuta un minimo di forme collaborative col privato, secondo le regole di buona fede nel procedimento, anche a fronte di funzioni vincolate. Resta però fermo il principio (cfr., per tutti e da ultimo Cons. St., VI, 2 novembre 2018 n. 6219;
id., II, 18 marzo 2020 n. 1925) per cui il diniego di sanatoria, in quanto atto vincolato ad iniziativa di parte, non abbisogna del preavviso di rigetto, con la conseguenza che la mancata comunicazione di tal preavviso non determina, in base alla norma ex art. 21-octies, co. 2, I per. della l. 241/1990, effetti vizianti.

Ma pur ad accedere alla tesi sull’obbligo o, almeno, dell’opportunità del preavviso di rigetto, ancor oggi non si ravvisano argomenti attorei che aggrediscano entrambi i motivi, su cui si basa il diniego impugnato dell’istanza attorea di condono ex art. 39, co. 10-bis della l. 724/1994, ciascuno dei quali di per sé solo idoneo a giustificare la misura assunta. Invero, si tratta, da un lato, della confutazione dei criteri di calcolo nonché del risultato stesso delle maggiori cubature accertate e, dall’altro, il mancato corretto adempimento dell’incombente istruttorio disposto dalla Commissione condono nel 2008 e ribadito dal certificato del 2011 o, se del caso, la dimostrazione della manifesta inutilità di uno o più dei documenti così richiesti.

Ogni questione attorea contro il giudizio d’inammissibilità reso dal TAR sul secondo motivo (circa l’idoneità ed il preciso oggetto della documentazione richiesta al sig.-OMISSIS-) scolora a fronte del fatto che la legittimità del provvedimento sotto l’altro profilo motivatorio (superamento del limite volumetrico) ha obliterato ogni interesse all’esame della censura stessa, trattandosi del gravame nei confronti d’un provvedimento plurimotivato.

Quanto, poi, alla pretesa completezza, o meno, dei documenti da presentare, la questione soltanto quantitativa è di mero fatto. O l’appellante ha versato agli atti del procedimento di condono quanto richiesto, oppure no: tertium non datur , per cui egli sa che cosa ha prodotto, o no e deve dimostrare in questa sede la completezza dell’adempimento. Nell’un caso o nell’altro, il mancato adempimento fattuale e/o la mancata contestazione rendono adesso inammissibile ogni questione sul punto.

4. – Inoltre, quando il condono è condizionato da un limite dimensionale di cubatura insuperabile, non v’è necessità dell’invocato dissenso costruttivo e ciò per due ragioni.

Per un verso, ben lo si evince dal citato art. 39, l’abuso condonando è valutato per legge in modo unitario e, trattandosi d’un illecito permanente, se non è sanabile, va rimosso comunque, al più lasciando le sole parti lecite ab origine . Per altro verso ed essendo facoltà di questi e non un dovere della P.A. procedente, al più è il privato che deve rinunciare alla parte di cubatura realizzata sine titulo eccedente i mc 750, altre alternative non essendo praticabili per riportare a legalità una tal situazione.

Né giova invocare l’ipotesi d’un PDC a sanatoria con prescrizioni, seguendo, cioè, il modello di Cons. St., VI, n. 6327/2018 e della giurisprudenza colà citata. La ragione è evidente: le eventuali prescrizioni devono esser anzitutto consustanziali alla sanabilità d’un certo abuso che già possieda i presupposti a tal uopo. Invero, nel caso indicato dall’appellante, la Sezione aveva chiarito, per un verso, che non fosse di per sé vietato, anzi era ammissibile inserire nella concessione edilizia, in via generale e non essendovi specifiche norme di legge contrarie, prescrizioni a tutela sia dell'ambiente, sia del tessuto e del decoro abitativo, stante la natura fortemente semplificativa di tali clausole, che, in loro mancanza sarebbe necessario respingere l'istanza del privato (spiegando i punti del progetto che da rivedere), ripresentare il progetto e, poi, approvarlo emendato. Però, se la P.A. può imporre prescrizioni, esse non devono contrastare con la natura e la tipicità del provvedimento, non devono snaturare l'atto (negandone la funzione) e non devono imporre sacrifici ingiustificabili, immotivati o sproporzionati. Pertanto, un PDC in sanatoria può legittimamente introdurre o recepire prescrizioni, intese ad imporre correttivi sull'esistente o a mitigare l'impatto paesaggistico del manufatto, ove si tratti di integrazioni minime o, comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non rilasciabile (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 19 aprile 2018 n. 2366;
id., VI, 9 novembre 2018 n. 6327).

Fuori da queste ipotesi, le prescrizioni non possono mai sostituire o attenuare i limiti di legge (come tali, vincolanti: p. es., nei casi di “doppia conformità” ex art. 36 del DPR 380/2001, cfr. Cons. St., VI, 13 gennaio 2021 n. 423), oltre o senza i quali il bene non è mai sanabile.

5. – Si legge nel citato certificato n. 2194/2011, che l’appellante rinunciò al “primo” condono, proposto sì da suo padre, ma per costruzioni tardive rispetto al termine indicato dall’art. 31 della l 47/1985. In tali condizioni, tal condono soggiacque al parere negativo della Commissione condono del 1999, tant’è che l’appellante adoperò al riguardo la procedura agevolata di conversione ex 39, co. 10-bis della legge n. 724. Ma la conversione comportò un effetto abdicativo verso la precedente sanatoria e, al tempo stesso, la soggezione di quegli abusi al limite dimensionale della cubatura aggiuntiva prevista dal c.d. “secondo” condono (cioè: esistenza di opere di difficile rimozione su una superficie di mq 871,07 con conseguente sviluppo di una volumetria superiore a mc 750), cui evidentemente l’appellante non badò. È appena da soggiungere l’infondatezza dell’assunto attoreo circa un affidamento incolpevole, in capo all’appellante, a causa del lungo tempo trascorso da tal conversione o per il sol fatto del rinnovo annuale della licenza demaniale, essendo l’uno frutto dell’inerzia pure dell’appellante medesimo e l’altro legato ad atti provvisori a cadenza annuale e non ad un vero rapporto concessorio per l’uso particolare continuo dell’arenile.

Né basta: gli atti comunali, prodotti dal patrono dell’appellante in primo grado, furono non già un pieno accoglimento della pretesa sanatoria, bensì la conferma della richiesta della documentazione che l’appellante era onerato a produrre o, al più, furono atti meramente interlocutori.

In tutta franchezza, al Collegio sfugge che cos’altro mai avrebbe dovuto fare il TAR ed il Comune (dal canto suo), a fronte dell’istanza attorea di riesame, nella quale l’appellante ha dichiarato la sua disponibilità a rimuovere le parti eccedenti il predetto limite. Egli ben avrebbe potuto, se veramente ne avesse avuto una tal intenzione, adempiere all’ordine di ripristino ingiunto in una col diniego di sanatoria e, in sede di esecuzione di esso, far constare tal riduzione a legalità (sanabile) e così fruire, adempiuto ogn’altro obbligo, di quel condono da lui invocato.

Il TAR ha correttamente interpretato il predetto limite massimo di cubatura aggiuntiva condonabile, onde non può esser oggi contestato il superamento di tale limite volumetrico nella domanda di sanatoria, richiamando la circolare del Ministero ll.pp. n. 2241/Ul del 17 giugno 1995. Invero, se egli ha voluto seguire, nel 2005, una circolare superata dagli eventi e recante interpretazioni spurie e non seguite, imputet sibi . Né si comprende perché mai egli abbia voluto inserire nella procedura (e nella stessa istanza) anche le strutture che costituiscono lo stabilimento balneare, se queste sono facilmente smontabili e non chiuse, determinando in tal modo la difficile comprensibilità, per il Comune procedente, di quali opere fossero realmente precarie (e, quindi, improduttive di nuova cubatura), oppure no.

Va solo precisato che lo smontaggio e la natura precaria d’una costruzione non son sinonimi, poiché la precarietà è un dato non già materiale, ma funzionale. Infatti, temporanea e precaria è solo quella struttura che, per sua oggettiva finalità, reca in sé visibili i caratteri della durata limitata in un lasso ragionevole di tempo, a nulla rilevando la destinazione intenzionale del proprietario;
quindi, perché una struttura sia qualificata come precaria, è necessario che sia destinata ad un uso specifico e temporalmente limitato del bene e anzi la stagionalità non esclude, anzi postula il soddisfacimento di interessi non occasionali e stabili nel tempo (cfr. Cons. St., V, 25 maggio 2017 n. 2464;
id., II, 3 novembre 2020 n. 6768). Sicché non può dirsi meramente precario un lido balneare sol perché ha talune parti strutturali amovibili, mentre esso postula, come ogni altra impresa commerciale, il soddisfacimento di interessi non occasionali e stabili nel tempo, non necessariamente legati solo alla stagione balneare.

6. – In definitiva, l’appello va integralmente respinto, nei sensi fin qui visti. Tutte le questioni testé vagliate esauriscono la vicenda sottoposta all’esame della Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c. e gli argomenti di doglianza non espressamente valutati son stati ritenuti dal Collegio non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.

Le spese del presente grado di giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

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