Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-10-12, n. 201704732
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Pubblicato il 12/10/2017
N. 04732/2017REG.PROV.COLL.
N. 00053/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 53 del 2013, proposto da:
A T, rappresentato e difeso dall’avvocato A C, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Principessa Clotilde, n. 2;
contro
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA LA SAPIENZA, non costituita in giudizio;
per la riforma:
- della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA – SEZ. III n. 4662 del 2012;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 maggio 2017 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati A C;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.– L’appellante, premesso di essere professore ordinario fino al 31 ottobre 2010 ed emerito dal 1 novembre 2010 di Diritto delle Comunità Europee presso la Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma, deduce che: - nel luglio del 2000, è stato nominato membro della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, e che il suo mandato scadrà il 6 ottobre 2018;- a seguito della prima nomina ad Avvocato generale, è stato collocato per tutta la durata del mandato in aspettativa obbligatoria, ai sensi del citato art. 13, comma 1, n. 3 del d.P.R. n. 382 del 1980, con decorrenza dal 7 ottobre 2000;- all’atto della prima nomina era in regime dell’impegno a tempo definito ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382;- dopo la nomina presso la Corte di Giustizia, con opzione in data 11.4.2001, il ricorrente ha richiesto all’Università di appartenenza il passaggio al regime di impegno a tempo pieno;- tuttavia, l’amministrazione resistente, con nota del Rettore in data 30 gennaio 2007, ha respinto il passaggio al regime di impegno a tempo pieno sulla base della seguente motivazione: «Si rappresenta in proposito che, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 705/85 i professori collocati in aspettativa, fermo restando quanto previsto dall’art. 13, quarto comma, del d.P.R. 382/80, mantengono il regime di impegno per il quale hanno optato in precedenza agli effetti della determinazione del trattamento di quiescenza e delle relative incompatibilità;una nuova opzione può essere esercitata al termine del periodo di aspettativa ed ha effetto dall’anno accademico successivo»;- in pendenza del periodo di aspettativa è stato collocato fuori ruolo per il compimento del settantesimo anno di età a decorrere dall’anno accademico 2010-2011, e, conseguentemente, in ragione dell’art. 11 del d.P.R. n. 312 del 1980, non potrà più esercitare l’opzione a favore del tempo pieno.
1.1.– Avverso il citato provvedimento che ha negato la modificazione del regime di impegno, l’istante proponeva ricorso dinnanzi al TAR del Lazio, prospettando (con l’unico motivo di doglianza) l’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 del citato art. 5 della l. n.705/1985 in forza del quale è stata adottata l’impugnata determinazione di rigetto.
2.– Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con ordinanza n. 1619 del 2008, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, penultimo comma, della legge 9 dicembre 1985, n. 705, in riferimento al primo e secondo comma dell’art. 3 della Costituzione.
2.1.‒ Con sentenza n. 311 del 2010, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di costituzionalità, di talché il gravame è stato riassunto e deciso dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio con sentenza n. 4662 del 2012.
Il giudice di prime cure ha, in primo luogo, respinto le doglianze incentrate sulla prospettata illegittimità costituzionale delle disposizioni normative sulla cui base era stato adottato il contestato provvedimento, sul rilievo che la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 5, penultimo comma, della legge 9 dicembre 1985, n. 705. Ha, invece, dichiarato inammissibile la censura di violazione del diritto europeo, in quanto prospettata soltanto in sede di memoria conclusionale, e quindi oltre il termine di decadenza.
3.‒ Avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale, ha proposto appello il professor A T, chiedendo, in sua riforma, l’accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Secondo l’appellante la sentenza impugnata sarebbe erronea nella parte in cui ha omesso di pronunciarsi sulla questione di legittimità comunitaria (incentrata anch’essa sulla violazione dei principi di non discriminazione e parità di trattamento), in quanto la stessa era stata già prospettata nel ricorso originario. Aggiunge che, in ogni caso, secondo i consolidati ed univoci orientamenti giurisprudenziali che regolano i rapporti tra ordinamenti nazionali ed europeo, la violazione delle norme sovranazionali avrebbe potuto essere rilevato anche d’ufficio.
4.‒ L’Università non si è costituita in giudizio.
5.‒ All’udienza del 18 maggio 2017, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.‒ L’appellante sostiene che l’articolo 5, penultimo comma, della legge 9 dicembre 1985, n. 705 (Interpretazione, modificazioni ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, sul riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), dovrebbe essere disapplicato per contrasto con il diritto europeo in riferimento al principio di non discriminazione e parità di trattamento, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato che ha negato il suo passaggio dal regime d’impiego a tempo definito a quello a tempo pieno.
1.1.–Il capo di sentenza che ha dichiarato inammissibile la predetta censura è erronea.
1.2.– È noto infatti che il sistema del rinvio pregiudiziale, introdotto dall’art. 267 TFUE per assicurare l’uniformità dell’interpretazione del diritto dell’Unione negli Stati membri, istituisce una cooperazione diretta tra la Corte di Giustizia e i giudici nazionali, attraverso un procedimento in cui la determinazione e la formulazione delle questioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione ‒ se necessarie ai fini della risoluzione della controversia oggetto del procedimento principale ‒ spettano al giudice nazionale e le parti in causa nel procedimento principale non possono modificarne il tenore ( ex plurimis , Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenze 16 dicembre 2008, C , C-210/06;21 luglio 2011, K , C-104/10;14 aprile 2011, Vlaamse Dierenartsenvereniging e J , C-42/10, C-45/10 e C-57/10).
Le norme nazionali di procedura ‒ nel caso in esame il giudice di primo grado invoca quelle che impongono la formulazione dei motivi entro il termine di decadenza ‒ non possono ridurre la competenza e gli obblighi incombenti su di un giudice nazionale in quanto giudice di rinvio ai sensi dell’articolo 267 TFUE. Il giudice nazionale ha quindi l’obbligo di garantire la piena efficacia del sistema di rinvio pregiudiziale, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione della legislazione nazionale, senza doverne attendere la previa soppressione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenze 16 dicembre 2008, C , C-210/06, punti 93, 94 e 98;da ultimo, sentenza 18 luglio 2013, n. 136)
2.‒ Nel merito, il prospettato contrasto tra norme interne e sovranazionali ‒ che per quanto detto è rilevabile d’ufficio senza la necessità di una specifica domanda di parte ‒ non appare sussistente.
2.1.‒ L’articolo 5, penultimo comma, della legge 9 dicembre 1985, n. 705, recita testualmente: «I professori collocati in aspettativa, fermo restando quanto previsto dall’art. 13, quarto comma, mantengono il regime di impegno per il quale hanno optato in precedenza agli effetti della determinazione del trattamento di quiescenza e delle relative incompatibilità;una nuova opzione può essere esercitata al termine del periodo di aspettativa ed ha effetto dall’anno accademico successivo;tuttavia i professori collocati in aspettativa in regime di impegno a tempo pieno possono, allo scadere del biennio di cui al secondo comma dell’articolo 11, optare per il regime di impegno a tempo definito».
La disposizione censurata si articola in tre proposizioni normative.
La prima riguarda tutti i professori collocati in aspettativa, per i quali è previsto il mantenimento del regime d’impegno (a tempo pieno o a tempo definito) da loro in precedenza scelto agli effetti della determinazione del trattamento economico e delle relative incompatibilità.
La seconda stabilisce che una nuova opzione può essere esercitata al termine del periodo di aspettativa ed ha effetto dall’anno accademico successivo.
La terza introduce un’eccezione a tale principio, dettando la regola che «i professori collocati in aspettativa in regime d’impegno a tempo pieno possono, allo scadere del biennio di cui al secondo comma dell’art. 11, optare per il regime d’impegno a tempo definito».
2.2.– L’appellante sostiene che la normativa in questione realizzerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei professori universitari che, alla data del collocamento in aspettativa, si trovavano in regime a tempo definito rispetto a quelli che erano in regime a tempo pieno, in quanto soltanto a questi ultimi il menzionato art. 5 consentirebbe di optare per il regime d’impegno a tempo definito. Le categorie di docenti considerate – docenti in regime di tempo pieno o di tempo definito – si troverebbero infatti in situazioni comparabili, poiché i relativi regimi di lavoro sarebbero, secondo la giurisprudenza europea, identici. L’accesso al ruolo dei professori universitari “ordinari” avrebbe luogo senza alcuna distinzione in base alla tipologia di impegno futuro prescelto mediante pubblici concorsi per titoli, intesi ad accertare la piena maturità scientifica dei candidati. La discriminazione relativa al periodo di aspettativa tra docenti a tempo pieno e a tempo definito non troverebbe giustificazione non avendo alcuna finalità di politica sociale e non essendo correlata a particolari necessità. Aggiunge che il regime instaurato dalla norma in esame determinerebbe peraltro un’ingiustificata disparità di trattamento anche riguardo alla determinazione della base pensionabile, la quale (ai sensi dell’articolo 40, primo comma, del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, sarebbe correlata al numero degli anni in cui un professore universitario ha esercitato in regime a tempo pieno.
3.‒ Ritiene il Collegio che gli stessi principi del diritto europeo, come declinati dalla giurisprudenza richiamata dall’appellante, rendono evidente che la possibilità di modificare il proprio regime d’impegno (da tempo pieno a tempo definito) è offerta ai soli professori collocati in aspettativa in regime d’impegno a tempo pieno – mentre non è consentita l’opzione inversa (da tempo definito a tempo pieno) – non realizzandosi così un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei professori universitari che, alla data di collocamento in aspettativa, si trovavano in regime d’impegno a tempo definito.
3.1.– La parità di trattamento configura un principio generale del diritto dell’Unione, sancito dall’articolo 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e il principio di non discriminazione enunciato all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta ne costituisce una particolare espressione. Sebbene in linea di principio il divieto di discriminazioni relative ai lavoratori «che si trovino in una situazione comparabile tra loro» costituisce un principio fondamentale nell’ordinamento dell’Unione, la stessa giurisprudenza europea ammette che «ragioni oggettive» possano giustificare eventuali differenze (cfr. ex plurimis Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenze 13 settembre 2007, Del Cerro Alonso, causa C 307/05;22 dicembre 2010, Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres , cause riunite C 444/09 e C 456/09). Anche la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997, allegato alla direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall'UNICE, dal CEEP e dalla CES, stabilisce che «per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale», salvo che un trattamento differente «sia giustificato da ragioni obiettive».
3.2.– Ebbene nel caso di specie, la differenza di trattamento appare pienamente giustificata dalla significativa diversità di stato giuridico che rende non omogenee le posizioni dei docenti in regime d’impegno a tempo pieno e quelle dei docenti in regime d’impegno a tempo definito.
Come rilevato dalla Corte costituzionale italiana, con la sentenza n. 311 del 2010, attraverso l’art. 11 del d.P.R. n. 382 del 1980, il legislatore ha inteso operare una differenziazione tra i docenti di ruolo a seconda che essi intendano, sulla base di una scelta soggettiva e personale, dedicare la loro attività esclusivamente all’insegnamento universitario o, invece, svolgere anche attività professionali, cioè attività esulanti da quella didattica e scientifica, che è caratteristica fondamentale del docente universitario. Per cogliere le principali differenze è stato rilevato che il regime d’impegno a tempo definito è incompatibile con le funzioni di rettore, preside, membro elettivo del consiglio di amministrazione, direttore di dipartimento e direttore dei corsi di dottorato di ricerca, mentre è compatibile con lo svolgimento di attività professionali e di attività di consulenza anche continuativa esterne e con l’assunzione di incarichi retribuiti (escluso l’esercizio del commercio e dell’industria). Per contro, il regime a tempo pieno è incompatibile con lo svolgimento di attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito (oltre che con l’esercizio del commercio e dell’industria), con esclusione delle perizie giudiziarie e dei particolari incarichi provenienti da amministrazioni dello Stato, enti pubblici e organismi a prevalente partecipazione statale, di cui al citato art. 11.
Ciò posto, la disposizione derogatoria risponde ad una reale necessità che bene spiega gli obiettivi in vista dei quali il legislatore italiano ‒ al quale peraltro deve riconoscersi un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di organizzazione del lavoro pubblico, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo ‒ non ha ritenuto di prevedere, in costanza della posizione di aspettativa, la possibilità di passare dal regime a tempo definito a quello a tempo pieno.
La disposizione censurata è, infatti «coerente con la posizione del docente in regime d’impegno a tempo definito che, avendo minori obblighi verso l’Università di appartenenza, ha maggiori possibilità di conciliare, almeno in parte, gli impegni connessi alla carica ricoperta (che, in linea di principio, creano comunque una situazione d’incompatibilità) con le attività in ambito universitario consentite dall’art. 13, sesto comma, del d.P.R. n. 382 del 1980, sicché ben si spiega che il legislatore abbia inteso favorire il passaggio dal regime a tempo pieno a quello a tempo definito. Lo stesso non può dirsi per il percorso inverso, perché il tempo pieno postula l’obbligo per il docente di dedicarsi in via principale ed assorbente ai compiti istituzionali dell’Università di appartenenza, con la conseguenza che tale regime appare incompatibile con le cariche e gli uffici previsti dall’art. 13 del d.P.R. n. 382 del 1980 in modo molto più marcato del regime a tempo definito» (così la sentenza della Corte costituzionale n. 311 del 2010).
4.– Qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione di interpretazione del predetto Trattato. La giurisprudenza europea ha, tuttavia, precisato che, dal rapporto fra il secondo e il terzo comma dell'articolo 267 TFUE deriva che i giudici di cui al comma terzo dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentir loro di decidere. Tali giudici non sono, pertanto, tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia. In sintesi, è stato chiarito che l’obbligo del giudice nazionale di ultima istanza non sussiste se: a) la questione di interpretazione di norme comunitarie non è pertinente al giudizio (vale a dire nel caso in cui la soluzione non possa in alcun modo influire sull'esito della lite);b) la questione è materialmente identica ad altra già decisa dalla corte o comunque il precedente risolve il punto di diritto controverso;c) la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito a nessun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione (c.d. teoria dell’atto chiaro, sul punto è sufficiente il richiamo alla sentenza capostipite della Corte del Lussemburgo 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit ).
4.1.‒ Nel caso in esame, le considerazioni sopra svolte inducono il Collegio a ritenere che sussiste, nella presente controversia, l’ultima delle citate deroghe. Del resto ‒ come affermato dallo stesso appellante ‒ non è possibile «considerare separati il rilievo costituzionale e il rilievo comunitario del medesimo principio di parità di trattamento di univoco contenuto e univoca portata precettiva».
5.– L’appello, dunque, va respinto.
Nulla per le spese del secondo grado di lite, atteso che la controparte non si è costituita in giudizio.