Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2013-10-28, n. 201305187

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2013-10-28, n. 201305187
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201305187
Data del deposito : 28 ottobre 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05869/2012 REG.RIC.

N. 05187/2013REG.PROV.COLL.

N. 05869/2012 REG.RIC.

N. 05962/2012 REG.RIC.

N. 06984/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5869 del 2012, proposto da:
Distefano Costruzioni Srl, rappresentata e difesa dall'avv. A L, con domicilio eletto presso A L in Roma, via Ombrone, 12 Pal. B;

contro

Pva Srl., rappresentata e difesa dagli avv. F P, M P, con domicilio eletto presso A. Placidi in Roma, via Cosseria, 2;
W D, B D Sma Vincenzo &
C. S.n.c., Vincenzo Santoiemma, Superette di Calderoni Luigi, Giga di Calderoni Luigi e De Natale Gaetano;

nei confronti di

Comune di Gioia del Colle, Regione Puglia, Apulia Supermercati Srl., Coop. Estense;



sul ricorso numero di registro generale 5962 del 2012, proposto da:
Apulia Supermercati Srl, incorporante Societa' Tintoretto Srl, Coop. Estense, rappresentate e difese dall'avv. Paolo N, con domicilio eletto presso Marco Ravaioli in Roma, via Papiniano, 29;

contro

Pva Srl, rappresentata e difesa dagli avv. M P, F P, con domicilio eletto presso A. Placidi in Roma, via Cosseria, 2;
W D, Bieka di Santoiemma Vincenzo &
C. S.n.c., Superette di Calderoli Luigi, Giga di Calderoni Luigi e De Natale Gaetano, Regione Puglia, Vincenzo Santoiemma;
Comune di Gioia del Colle, rappresentato e difeso dagli avv. Eugenio M, Fulvio M, con domicilio eletto presso Andrea Botti in Roma, via Monte Santo, 25;



sul ricorso numero di registro generale 6984 del 2012, proposto da:
Pva Srl, rappresentata e difesa dagli avv. F P, M P, con domicilio eletto presso Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria, 2;

contro

Comune di Gioia del Colle, rappresentato e difeso dagli avv. Fulvio M, Eugenio M, con domicilio eletto presso Andrea Botti in Roma, via Monte Santo, 25;

nei confronti di

Tintoretto Srl, Di Stefano Costruzioni Srl, Apulia Supermercati Srl;
Coop Estense Sc, rappresentata e difesa dall'avv. Paolo N, con domicilio eletto presso Marco Ravaioli in Roma, via Papiniano, 29;
Regione Puglia, rappresentata e difesa dall'avv. Anna B, con domicilio eletto presso Regione Puglia Delegazione in Roma, via Barberini 6;
Comando Provinciale Vigili del Fuoco di Bari, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la revocazione

con tutti i ricorsi ( nel caso del ricorso della Pva per la revocazione parziale)

della sentenza del Consiglio Di Stato - Sez. IV n. 02578/2012, resa tra le parti, concernente permesso di costruire e autorizzazione commerciale e risarcimento danni.

Visti i ricorsi in revocazione e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Pva Srl., Comune di Gioia del Colle, Coop Estense Sc, Regione Puglia e dComando Provinciale Vigili del Fuoco di Bari;

Visto l'atto di costituzione in giudizio proposto dal ricorrente incidentale Soc Distefano Costruzioni Srl, rappresentata e difeso dall'avv. A L, con domicilio eletto presso A L in Roma, via Ombrone, 12 Pal. B;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 luglio 2013 il Cons. N R e uditi per le parti gli avvocati S, per delega dell'Avv. Lodice, P, M, M, N, B e l'Avvocato dello Stato Elefante;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso iscritto al R.g. n. 2774 del 2004 la società Pva a r.l., unitamente ad altri operatori commerciali locali, impugnavano avanti al TAR Bari l’autorizzazione edilizia n. 115 del 2004, nonché l’autorizzazione commerciale n. 4 del 2004, per violazione degli artt. 22 e 23 delle NTA del vigente PRG del Comune di Gioia del Colle e degli artt. 4 ed 11 del regolamento comunale relativo l’insediamento delle attività commerciali.

Il Tar Puglia Bari con sentenza n. 125 del 20 gennaio 2005 dichiarava il ricorso inammissibile, per difetto di legittimazione ad agire dei ricorrenti per non aver fornito prova della vicinitas e dello svolgimento di analoga attività commerciale.

Detta sentenza veniva successivamente appellata per mancata sottoscrizione del Presidente del Collegio giudicante.

Medio tempore il giudice di prime cure rimessa la causa sul ruolo si pronunciava con sentenza n. 2066 del 9 maggio 2005, dichiarandone nuovamente l’inammissibilità.

Avverso detta decisione, i ricorrenti proponevano nuovamente appello, spiegando altresì motivi aggiunti.

Questo Consiglio di Stato, con sentenza n. 5742 del 2006, dichiarava nulla la prima sentenza per omessa sottoscrizione della stessa da parte del Presidente del Collegio giudicante ed inesistente la seconda, per intervenuta consumazione del potere/dovere di decisione, con conseguente rinvio della causa al Tar Puglia, Bari, che con sentenza n. 2393 del 2007 ne dichiarava nuovamente l’inammissibilità, rilevando la tardività del ricorso, tenuto conto che il primo atto lesivo era da individuarsi nella concessione edilizia del 2002, essendo il successivo permesso di costruire in variante, un atto conseguente privo di autonomia.

Con ricorso r.g. n. 110 del 2008 i ricorrenti proponevano appello, riproponendo, oltre alle censure già spiegate, la questione della propria legittimazione ad agire, sostenendo che, comunque, già dalle visure depositate con il ricorso poteva evincersi sia la vicinitas, che la categoria merceologica delle attività commerciali svolte.

In ordine poi alla tardività, sostenevano che il permesso di costruire in variante aveva portato profonde modifiche sostanziali e che l’originaria concessione edilizia era ormai priva di autonoma realizzabilità, sicché l’interesse si allaccerebbe al nuovo provvedimento, tempestivamente impugnato.

In pendenza di giudizio di appello, il Comune di Gioia del Colle, all’esito della conferenza di servizi, autorizzava l’apertura di un “centro commerciale di interesse locale” con provvedimento n. 16 del 10 luglio 2009, così trasformando l’originaria autorizzazione del 2004, avente ad oggetto una media struttura di vendita (M3 alimentare e non) dalla superficie di mq 2.499, in due medie strutture M2, di cui una alimentare e non, di mq 1.500, e l’altra esclusivamente non alimentare di mq 999, oltre ad ulteriori esercizi di vicinato per complessivi ulteriori mq 900.

Anche questa autorizzazione veniva impugnata dinanzi al Tar Puglia, sede di Bari, che con sentenza n. 1133 del 2010 respingeva il ricorso.

Pure avverso la predetta sentenza gli interessati interponevano appello con ricorso rubricato al r.g. n. 6285/2010.

Sugli appelli questa Sezione si pronunciava con sentenza n. 2578 del 2012, che così disponeva: “previa loro riunione, li accoglie e per l’effetto, in riforma delle sentenze gravate, annulla il permesso di costruire n. 115 del 2004 e le autorizzazioni edilizie conseguenti, annulla l’autorizzazione commerciale n. 16 del 2009. Dichiara improcedibile il ricorso in relazione all’autorizzazione commerciale n. 4 del 2004. Salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione”.

Tale decisione si basa, anzitutto, sulla circostanza di aver riconosciuto a tutti i ricorrenti la legittimazione e l’interesse ad agire in ragione della loro qualità di operatori commerciali, potenzialmente danneggiati dall’apertura di nuove strutture commerciali;
nel merito, l’accoglimento del ricorso si basa sulla incompatibilità dell’intervento con le destinazioni di zona F1 ed F2 e per l’avvenuto superamento dell’indice di copertura a causa del computo a tal fine di un suolo non di proprietà del costruttore, ma solo a questi promesso in vendita attraverso un preliminare, con conseguente annullamento del permesso di costruire n. 115 del 2004 e, stante il rilievo dell’incompatibilità urbanistica dell’intervento, anche dell’autorizzazione commerciale n. 16 del 2009.

La società Distefano Costruzioni s.r.l., con ricorso r.g. n. 5859 del 2012, la Coop Estense e la Apulia Supermercati con ricorso iscritto al r.g. n. 5962 del 2012, hanno chiesto la revocazione della prefata decisione, n. 2758 del 2012 ai sensi e per gli effetti dell’art. 395, nn. 1 e 6 c.p.c. e 106 c.p.a..

Anche la Pva s.r.l., con ricorso iscritto r.g. n. 6984 del 2012, ha chiesto la parziale revocazione della medesima sentenza, limitatamente al capo relativo alla omessa pronuncia sulla domanda risarcitoria “formulata con il ricorso r.g. 110/2008”, nella misura di euro 707.051,74, come indicata nella CTP del 23.03.2007 a firma dell’ing. Mauro Mastrovito, ovvero quella ritenuta di giustizia, anche previa CTU, ove occorra, oltre interessi e rivalutazione monetaria come per legge.

All’udienza del 2 luglio 2013, le cause, chiamate congiuntamente per la trattazione, sono state trattenute in decisione.

DIRITTO

Preliminarmente, tenuto conto della connessione esistente tra i tre ricorsi e che trattasi della impugnazione per revocazione della medesima sentenza, gli stessi possono essere riuniti per essere decisi unitamente, ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a..

Quanto ai ricorsi nn. 5869 e 5962 del 2012.

La richiesta delle predette società si sostanzia in due censure, con cui, nella prima, si rileva la errata percezione e travisamento degli atti e documenti processuali da parte del giudice in ordine ai tre permessi di costruire rilasciati dal Comune di Gioia del Colle (artt. 395 n. 4 c.p.c. e 106 c.p.a.), e nella seconda si sostiene che la revocanda decisione sia l’effetto del dolo dei ricorrenti in danno delle altre parti processuali (artt. 395 n. 1 c.p.c. e 106 c.p.a.).

In particolare, con la prima censura la società Distefano ritiene che la sentenza sia incorsa nell’errore di attribuire al permesso di costruire n. 115 del 2004 (il terzo) rilevanti variazioni volumetriche e di superficie dell’immobile che erano semmai da attribuire al secondo permesso di costruire n. 118 del 2002, non annullato perché non impugnato tempestivamente.

Quanto alla seconda censura essa si riferisce all’errore di aver riconosciuto l’interesse ad agire di tutti i ricorrenti, indotto dal dolo dei ricorrenti, che avrebbero sottaciuto la circostanza di aver cessato l’esercizio della propria attività commerciale ben prima dell’udienza di merito del 27 marzo 2012 dinanzi a questo Consiglio, ciò essendo provato documentalmente dal deposito delle visure. Si sostiene che il complesso delle condotte dolosamente tenute dai ricorrenti al fine di nascondere o alterare la verità dei fatti in ordine alla propria legittimazione è stato tale da falsare obiettivamente l’esito del giudizio.

Quanto al ricorso iscritto al n. r.g. 6984 del 2012 la soc. Pva rimarca, anzitutto, l’inammissibilità dei ricorsi avversari iscritti con r.g. n. 5869 del 2012 e 5962 del 2012, evidenziando in particolare che le censure addotte dalle controparti non atterrebbero ad un punto controverso, in quanto il giudice si sarebbe adeguatamente espresso, e che l’esame approfondito della complessiva documentazione prodotta dalle controparti richiederebbe un vero e proprio terzo grado di giudizio, non previsto e non consentito dalla legge.

La Pva prosegue sostenendo che nella sentenza n. 2578/2012 il giudice avrebbe, tuttavia, omesso di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria da essa formulata;
ed in considerazione di ciò sostiene che tale omessa pronuncia su una domanda ritualmente formulata consentirebbe l’impugnazione per revocazione.

Ciò con riferimento alla fase rescindente, mentre con riferimento alla fase rescissoria, per quanto riguarda la “colpa” dell’Amministrazione, afferma che la prevalente e consolidata giurisprudenza, pur escludendo ogni automatismo, ritiene che essa possa e debba presumersi in caso di riconosciuta illegittimità dei provvedimenti annullati, salvo prova contraria fornita da chi vi abbia interesse.

Alle richieste avanzate dalla soc. Pva replicano la Regione Puglia ed il Comune di Gioia del Colle, eccependone la inammissibilità: la Regione, in quanto nessuna richiesta di risarcimento è stata mai rivolta nei propri confronti, per cui dichiara di non accettare il contraddittorio su tale domanda;
ed il Comune in quanto la domanda risarcitoria sarebbe preclusa dalla declaratoria di improcedibilità della domanda di annullamento dell’autorizzazione commerciale n. 4/2004;
entrambe eccepiscono, comunque, l’inammissibilità per assoluta mancanza di allegazione di ogni supporto probatorio.

I ricorsi per revocazione sono inammissibili.

Occorre premettere che, come di recente ribadito dall’Adunanza Plenaria (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 17 maggio 2010, n. 2 e 10 gennaio 2013, n. 1), la giurisprudenza del Consiglio di Stato e quella della Corte di Cassazione hanno pressoché univocamente individuato le caratteristiche dell’errore di fatto revocatorio, che, ai sensi rispettivamente dell’art. 81 n. 4 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, ora dell’art. 106 c.p.a., e dell’art. 395, comma 4, c.p.c., può consentire di rimettere in discussione il contenuto di una sentenza;
i limiti a questo tipo di ricorso sono stati evidenziati (nell’azione giurisprudenziale di pertimetrazione di cui sopra) per evitare che il distorto utilizzo di tale rimedio straordinario dia luogo ad un inammissibile ulteriore grado di giudizio di merito, non previsto e non ammesso dall’ordinamento.

E’ stato più volte ribadito che l’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi delle citate disposizioni normative, deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere esistente un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato;
b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa (Cons. St., sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162;
24 maggio 2012, n. 3053;
sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503, 23 settembre 2008, n. 4607;
16 settembre 2008, n. 4361;
20 luglio 2007, n. 4097;
e meno recentemente, 25 agosto 2003, n. 4814;
25 luglio 2003, n. 4246;
21 giugno 2001, n. 3327;
15 luglio 1999 n. 1243;
C.G.A., 29 dicembre 2000 n. 530;
sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 708;
17 dicembre 2008, n. 6279;
C.G.A., 29 dicembre 2000, n. 530;
Cass. Civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12962;
5 marzo 2012, n. 3379;
sez. III, 27 gennaio 2012, n. 1197).

L’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (Cons. St., sez. VI 25 maggio 2012, n. 2781;
5 marzo 2012, n. 1235).

L’errore di fatto revocatorio si sostanzia, quindi, in una svista o abbaglio dei sensi, che abbia provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti in causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti della causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, il peculiare rimedio previsto dal legislatore costituendo lo strumento per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi (Cons. St., sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162;
sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587;
1 dicembre 2010, n. 8385).

Pertanto, l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale [senza coinvolgere la successiva attività d’interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell’errore di fatto, di cui all’art. 395, n. 4), c.p.c., i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo: Cons. St., sez. III, 24 maggio 2012, n. 3053],;
esso errore, invece, non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali, oppure di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo, se mai, ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall’ordinamento: Cons. St., sez. III, 8 ottobre 2012, n. 5212;
sez. V, 26 marzo 2012, n. 1725;
sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587;
15 maggio 2012, n. 2781;
16 settembre 2011, n. 5162;
Cass. Civ., sez. I, 23 gennaio 2012, n. 836;
sez. II, 31 marzo 2011, n. 7488).

L’istituto della revocazione, infatti, in quanto rimedio eccezionale, non può e non deve convertirsi, lo si ripete, in un terzo grado di giudizio (Cons. St., sez. IV, 8 gennaio 2013, n. 41;
id., 24 gennaio 2011, n. 503).

Ciò posto, nella fattispecie sottoposta all’esame, non si rinvengono affatto gli estremi dell’errore di fatto revocatorio, secondo le caratteristiche delineate dal ricordato indirizzo giurisprudenziale.

E, infatti, le censure attengono proprio a punti controversi sui quali la decisione impugnata per revocazione ha espressamente motivato, involgendo peraltro attività valutative del giudice circa le risultanze processuali, con particolare riferimento alla portata sostanziale dei diversi provvedimenti amministrativi oggetto di impugnazione, nonché alla ricostruzione, secondo i consueti canoni ermeneutici, della legittimazione e dell’interesse ad agire dei ricorrenti.

I fatti oggetto degli asseriti errori, pertanto, costituiscono altrettanti punti controversi, sui quali la sentenza impugnata per revocazione si è espressamente pronunciata, per cui il giudizio revocatorio su tali fatti finirebbe per trasformarsi in un ulteriore - e non consentito - grado di giudizio.

Né può configurare errore revocatorio ammissibile la circostanza che il giudicante abbia dato una lettura ed un’interpretazione degli atti e dei documenti di causa difforme da quella proposta da una delle parti, dal momento che tale attività esegetica rientra nell’alveo proprio dell’esercizio del potere giurisdizionale e, come tale, non è suscettibile di sindacato con il ricorso per revocazione (cfr. Cons. St., sez. VI, 20 luglio 2011, n. 4305).

Quanto all’asserito dolo delle parti ricorrenti in danno delle altre (art. 395 n. 1 c.p.c.), costituisce ius receptum che il dolo processuale revocatorio presuppone un’attività intenzionalmente fraudolenta, che si concretizzi in artifici o raggiri soggettivamente diretti e oggettivamente idonei a paralizzare la difesa avversaria e a impedire al giudice l’accertamento della verità, pregiudicando l’esito del processo, a nulla rilevando la mera violazione dell’obbligo di lealtà e probità previsto dall’art. 88 c.p.c. ovvero il solo mendacio, le false allegazioni o le reticenze (cfr. Cons. St., sez. II, 11 luglio 2007, n. 2230);
pertanto, non sono idonei a realizzare simile fattispecie, che richiede l’allegazione di un’attività deliberatamente fraudolenta - il che nel caso di specie non è avvenuto -, la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, tutte condotte, queste, che semmai possono essere censurabili sotto il profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall’ordinamento al fine di pervenire all’accertamento della verità (cfr. Cons. St., sez. III, 31 maggio 2010, n. 3127;
C.G.A., 29 giugno 2005, n. 401).

I primi due ricorsi per revocazione sono, pertanto, inammissibili.

Quanto al terzo ricorso per revocazione “parziale” - in quanto, a parti invertite, è la parte vittoriosa in giudizio che deduce l’omessa pronuncia sulla domanda risarcitoria ritualmente formulata -, si osserva quanto segue.

L’omissione di pronuncia su domande o eccezioni delle parti, invero, sebbene costituisca, di per sé, violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato sancito dall’art. 112 c.p.c., o comunque difetto di motivazione, non elimina la rilevanza del processo causale che ha determinato l’evento omissivo e non esclude che l’omissione di pronuncia possa essere fatta valere non ex se, ma come risultato di un vizio della formazione del giudizio e, quindi, errore di fatto revocatorio, atteso che nel caso di omessa pronuncia errore revocatorio e violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non sono in relazione di alternatività, ma il primo è possibile fonte della seconda (cfr. Cons. St., sez. III, 24 maggio 2012, n. 3053;
id., sez. VI, 20 luglio 2011, n. 4305;
id., 29 gennaio 2008, n. 241).

L’omessa pronuncia su un vizio deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile (cfr. Cons. St., sez. IV, 17 dicembre 2012, n. 6455;
id., sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009), oppure quando la pronuncia su di esso c’è stata, ma è stata resa con una motivazione che non prendeva specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte a sostegno del motivo di doglianza (cfr. Cons. St., sez. VI, 21 aprile 2009, n. 2414).

Tanto premesso, la ricorrente deduce che la sentenza impugnata, “ineccepibile per l’accoglimento della domanda di annullamento…”, “ha tuttavia omesso di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria formulata … con il ricorso R.G. n. 110/2008”.

In ordine a tale ricorso n. 110/2008, la sentenza impugnata, al punto 8, così recita: “ L’accoglimento dei sopradetti motivi è sufficiente a dare completa soddisfazione alla domanda degli appellanti, non occorrendo l’analitica disamina delle altre censure di natura urbanistica, comunque non decisive, avuto anche riguardo alla radice squisitamente commerciale dell’interesse che le anima ”.

Quanto all’autorizzazione commerciale n. 4/2004, provvedimento causativo del preteso danno concorrenziale oggetto della domanda risarcitoria (che si appunta sulle annualità dal 2003 al 2007: cfr. ricorso per revocazione pagg. 4 e ss.), la sentenza della cui revocazione si tratta così statuisce al punto 9: “ In ordine ai residui motivi, relativi ai vizi propri dell’autorizzazione commerciale n. 4/2004, deve rilevarsi che a quest’ultima ha fatto seguito l’autorizzazione n. 16 del 10 luglio 2009, con la quale il Comune di Gioia del Colle ha autorizzato l’apertura di un “Centro commerciale di interesse locale” (insediamento previsto dall’art. 2 del reg. reg. 1/2004 e dall’art. 5 del regolamento comunale approvato con deliberazione consiliare n. 18 del 2006) sulla base della scissione dell’originaria media struttura di vendita (M3 alimentare e non) già assentita con l’aut. 4/2004 in due medie strutture (M2 – l’una alimentare e non, e l’altra sono non alimentare), integrate da ulteriori esercizi di vicinato. Tale ultimo provvedimento costituisce l’oggetto del giudizio n.6285/2010. Esso determina l’improcedibilità dei motivi aventi ad oggetto l’autorizzazione commerciale sostituita, ed impone invece di concentrare lo scrutinio sulla più recente controversia ”.

La Sezione ha, dunque, dichiarato improcedibile la domanda di annullamento dell’autorizzazione commerciale n. 4/2004, fonte dei danni lamentati dai ricorrenti, e, quanto alla successiva autorizzazione n. 16 del 2009, oggetto del giudizio n. 6285 del 2010, ha così ritenuto nel capo 10: “… l’accoglimento di una parte delle censure di carattere urbanistico, giusto quanto sopra disposto, all’esito dell’odierno giudizio, richiamato in funzione preclusiva dal primo giudice, elide in radice la questione problematica. L’appellante può cioè giovarsi del giudicato su tali questioni, semplicemente evidenziandone le ricadute vizianti sull’autorizzazione commerciale da ultimo rilasciata. Essa è illegittima in ragione dell’incompatibilità urbanistica delle strutture ove è insediato il centro commerciale ed esercitata l’attività di vendita. Inutile, in quanto non decisivo, l’esame delle ulteriori censure di natura commerciale pure riproposte dall’appellante ”.

Appare evidente, dunque, ad avviso del Collegio, che dalla lettura integrale della sentenza qui parzialmente impugnata per revocazione, si evince che essa:

1) ha ritenuto, in maniera espressa, come integralmente satisfattiva (“completa soddisfazione”) della pretesa azionata dai ricorrenti la pronuncia di accoglimento di alcuni motivi, riguardanti gli aspetti urbanistici, con declaratoria di assorbimento degli altri, ivi compresi quelli di natura squisitamente commerciale;

2) ha ritenuto con ciò, dunque, come integralmente satisfattiva la pronuncia di accoglimento della domanda di annullamento della (nuova) autorizzazione commerciale, evidentemente in tal modo ritenendo di dover accogliere (solamente) la domanda di risarcimento del danno in forma specifica (annullamento del provvedimento lesivo), in quanto ritenuta misura idonea a tutelare l’interesse azionato in giudizio, e, pertanto, sia pur implicitamente, di dover rigettare quella di risarcimento del danno per equivalente. E, invero, l’art. 34, comma 1 lett. c) del c.p.a., quanto al possibile contenuto delle sentenze (di merito) di condanna, stabilisce che questa può avere riguardo “al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 del codice civile”.

Ad avviso del Collegio, dunque, quel tipo di omissione di motivazione, che ricorre quando - come nella specie - domande ed eccezioni siano state volutamente disattese dall’organo giudicante, fornendosi, però, un implicito ma chiaro ragionamento che giustifichi il mancato pronunciamento al riguardo, si pone al di fuori dell’errore di fatto revocatorio.

Per le suesposte considerazioni, i tre ricorsi per revocazione, previamente riuniti, devono essere dichiarati inammissibili.

Stante la reciproca soccombenza, sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione fra le parti delle spese, competenze ed onorari della presente fase.

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