Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-06-03, n. 201903711

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2019-06-03, n. 201903711
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201903711
Data del deposito : 3 giugno 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 03/06/2019

N. 03711/2019REG.PROV.COLL.

N. 04011/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4011 del 2018, proposto dalla signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati C M e V M R, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato V M R in Roma, via Caio Mario, n. 7 Scala B Int. 1;

contro

Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n.12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - sezione staccata di Latina - (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente azione di risarcimento del danno in materia di pubblico impiego militare.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2019 il Cons. G C e uditi per le parti gli avvocati C M, V M R e l'Avvocato dello Stato Barbara Tidore.


FATTO e DIRITTO

1. La signora -OMISSIS-, già in servizio presso l’Esercito Italiano, ha chiesto al T.a.r. per il Lazio – sez. di Latina:

a) l’accertamento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale e patrimoniale per la violazione, da parte dell’amministrazione militare, degli obblighi contrattuali di garantire al proprio dipendente l’integrità psicofisica nell’ambiente di lavoro;

- b) la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno biologico, valutabile nella misura del 35% e pari alla somma di euro 250.000,00 secondo le tabelle del Tribunale di Milano, nonché del danno patrimoniale per la perdita di emolumenti da mancata progressione di carriera che avrebbe conseguito e del danno da perdita di chance da valutarsi equitativamente.

2. A sostegno della domanda ha dedotto in fatto:

- che, sin dal 2011, è affetta da una -OMISSIS-, consistente in una -OMISSIS-, e di essere in cura con cadenza quindicinale dal 2012 presso il Policlinico militare di Roma, dipartimento di -OMISSIS-, come risultante dalla documentazione medica relativa agli anni sino al 2017 e dalla consulenza di parte (2015);

- che la suddetta patologia è causalmente riconducibile all’ambito lavorativo;

- che, in particolare, l’11 settembre 2011, veniva informata dal suo collega e all’epoca fidanzato (sig. -OMISSIS-) che un altro collega (sig. -OMISSIS-) aveva trovato sul registro degli automezzi della -OMISSIS-– dove tutti nel periodo prestavano servizio – la seguente frase “ -OMISSIS-” ;

- che la segnalazione al comandante del Reggimento (sig.-OMISSIS-) con cui parlò, dopo essersi subito rivolta ad un sottufficiale presente (sig. -OMISSIS-), la rassicurò, ma tuttavia ciò non produsse alcuna concreta attività tesa alla individuazione dell’autore, posto che il successivo 13 settembre, quando vi fu la turnazione del servizio di guardia guidata dal altro ufficiale (sig. -OMISSIS-) la pagina con la scritta risultava strappata nella parte che la conteneva;

- che lo stesso comandante-OMISSIS- le disse, qualche giorno dopo, di non poter fare nulla perché la frase era “come una scritta sui muri” e che doveva continuare a prestare il servizio di guardia nella medesima polveriera;

- che l’episodio era oggetto di conversazione tra i militari;
che, dopo tale episodio, i colleghi evitavano di conversare con lei e un capitano (sig. -OMISSIS-) cominciò a chiamarla usando il cognome invece del nome, così inducendola ad evitare la mensa comune e i luoghi frequentati dagli stessi e rafforzando il suo disagio;

- che, rappresentata questa situazione di inerzia dell’amministrazione, un ufficiale (sig. -OMISSIS-) le suggerì di “far finta di nulla”;

- che dopo la visita presso il policlinico militare (nell’ottobre del 2012) con diagnosi e cura della malattia il Comandante (sig.-OMISSIS-) le chiese spiegazioni, ma non prese alcuna iniziativa;

- che prima dell’episodio riferito, godeva di ottima salute e aveva conseguito eccellenti risultati in servizio;

- che, per la prima volta, le note caratteristiche contenevano il giudizio di “superiore alla media” e non di “eccellente”;

- che a partire dallo stesso periodo dell’ottobre 2012 è stata temporaneamente giudicata non idonea al servizio militare;

- che dall’aprile 2014 è stata giudicata definitivamente non idonea al servizio militare;

- che dal febbraio 2016 è transitata nei ruoli civili del Ministero dell’interno.

2.1. In diritto, ha argomentato nel senso della violazione dell’obbligo contrattuale in capo all’amministrazione di garantire un ambiente di lavoro che non ne pregiudichi l’integrità psico-fisica e morale, assicurato da norme di settore e da principi costituzionali, ed anche rispetto alla tutela della lavoratrice donna (artt. 25 e 26 d.lgs. n. 198 del 2006, cd. codice pari opportunità), data la connotazione -OMISSIS- dell’offesa;
in particolare ha lamentato l’omissione di ogni attività preventiva e, soprattutto, di ogni azione successiva volta all’ accertamento e alla sanzione del colpevole e ad evitare gli atteggiamenti di isolamento posti in essere dai colleghi e superiori e le occasioni di permanenza con gli stessi colleghi, posto che ha continuato ad essere adibita per un certo periodo di tempo alla guardia della stessa Polveriera.

3. Il T.a.r., con la sentenza specificata in epigrafe, ha rigettato il ricorso.

4. Avverso la suddetta sentenza, ha proposto appello l’originaria ricorrente.

4.1. Il Ministero si è costituito in prossimità dell’udienza, chiedendo il rigetto.

5. Il primo giudice ha rigettato il ricorso, ritenendo escluso il nesso eziologico tra l’episodio e la malattia, sulla base delle essenziali argomentazioni che seguono:

a) ai fini del nesso causale tra patologia lamentata e scritta oltraggiosa si tratta di accertare se la diligenza cui il datore di lavoro è obbligato includa anche un onere di controllo per impedire accadimenti isolati i cui responsabili sono restati ignoti;

b) il datore di lavoro è tenuto a misure di cautela, che sostanziano la diligenza, ma tale sforzo non è indefinito, bensì circoscritto attraverso il richiamo al principio di correttezza o buona fede in senso oggettivo;

c) gli obblighi di lealtà e di salvaguardia, obbligano il datore di lavoro a “tener conto” e ad assicurare un ambiente di lavoro sereno nei limiti di un apprezzabile sacrificio;

d) l’obbligo del datore di lavoro non può spingersi oltre limiti improntati alla ragionevolezza, specie quando tali limiti oltrepassano la sfera del normale affidamento che ciascun datore deve riporre sul contegno dei propri dipendenti;

e) con la conseguenza che, se rispetto ad un licenziamento illegittimo potrebbe derivare una patologia come quella lamentata, “meno scontata” è la sussistenza del nesso causale nell’ipotesi in esame, frutto di un episodio isolato, che in ogni caso sarebbe stato difficile, se non impossibile, contenere e prevenire attraverso adeguate misure precauzionali;

f) spetta all’interessato indicare attività e servizi o episodi che abbiano determinato in maniera preponderante la patologia.

6. Con un unico complesso motivo, l’appellante censura la sentenza sotto più profili di difetto di motivazione e di istruttoria:

a) per aver considerato solo la prospettata mancanza di attività preventiva, ritenendola non esigibile rispetto ad un unico isolato episodio non prevedibile, e non anche le inadempienze successive poste in essere dall’amministrazione improntate a totale superficialità, quali la prospettata mancanza di ogni attività volta ad acquisire subito il registro, di ogni indagine in ordine all’accertamento del colpevole, di ogni attività volta ad impedire l’emarginazione e a tutelare la dignità, l’onore e l’integrità psico-fisica della persona offesa, per di più donna-soldato ferita da atteggiamenti sessisti, nell’ambiente di lavoro, dove la ricorrente ha continuato a prestare servizio con i colleghi di sesso maschile;
comportamenti, questi ultimi, che sono ragionevolmente esigibili da un datore di lavoro, e in particolare dalla amministrazione della difesa militare, improntata al rigido rispetto della disciplina e delle regole, essendo volti ad evitare il ripetersi in futuro di tali riprovevoli comportamenti;

b) per aver considerato solo l’episodio della scritta offensiva e non anche i comportamenti dei colleghi, di emarginazione e di isolamento, e gli atteggiamenti noncuranti e superficiali dei superiori, che costituiscono parte integrante dell’evento stressante continuativo e ripetuto nel tempo causativo della patologia documentata;

c) per non aver considerato la richiesta di prova testimoniale sui fatti di causa, articolata con il ricorso introduttivo, senza indicare alcuna motivazione ostativa all’ammissione;

d) per non aver tenuto conto che il Ministero non aveva mosso alcuna specifica contestazione sui fatti di causa e si era limitato a produrre una relazione di servizio e delle dichiarazioni scritte delle persone indicate dalla ricorrente come testimoni – contestate con la memoria del 19 gennaio 2018 in primo grado – alcune delle quali (sig. -OMISSIS- e sig. -OMISSIS-) confermano la prospettazione della ricorrente, peraltro suffragata dalle foto della scritta e della pagina strappata;

e) per aver escluso il nesso di causa, ed anche solo di concausa preponderante, rispetto al singolo episodio ma in presenza di successivi comportamenti omissivi dell’amministrazione e di emarginazione dei colleghi, senza disporre la consulenza tecnica richiesta, pur in presenza di documentazione allegata attestante la persistenza della patologia, oltre alla consulenza di parte.

Conclude nel senso che, risultando dagli atti la patologia e la sua insorgenza in concomitanza con le vicende narrate, la prova della assenza della colpa grava sull’amministrazione, e ripropone la domanda di danni articolata in primo grado.

Chiede dichiararsi ammissibile il certificato dell’aprile 2018 del dipartimento salute mentale di Latina, successivo alla sentenza, attestante la persistenza della patologia e reitera la richiesta di consulenza e di prove testimoniali, se ritenute necessarie.

6. L’appello è infondato e va rigettato.

6.1. L’appellante censura la sentenza laddove il primo giudice prende solamente in considerazione il fatto offensivo e oltraggioso denunciato, ritenendo poi non esigibile un’attività preventiva rispetto alla specifica tipologia dell’episodio del tutto isolato, e, quindi, negando il nesso di causa, tra la patologia accertata e la violazione degli obblighi contrattuali in capo all’amministrazione di garantire un ambiente di lavoro che non ne pregiudichi l’integrità psico-fisica e morale. Essenzialmente, si imputa alla decisione gravata di non aver considerato, sempre nell’ottica del nesso causale, anche le inadempienze successive poste in essere dall’amministrazione, quali: - la mancanza di ogni indagine in ordine all’accertamento del colpevole e di ogni attività volta ad impedire l’emarginazione da parte dei colleghi nell’ambiente di lavoro;
- la scelta di far permanere la ricorrente nello stesso servizio;
tutti comportamenti che avrebbero costituito parte integrante dell’evento stressante continuativo e ripetuto nel tempo, causativo della patologia.

6.2. Ritiene il Collegio che il T.a.r. abbia fatto corretta applicazione della teoria della causalità adeguata, soffermandosi sulla unicità e specificità dell’episodio della scritta offensiva e ritiene, anche, che non possa ravvisarsi la riconducibilità causale della patologia agli obblighi incombenti sull’amministrazione quale datore di lavoro neanche se si considerano i comportamenti omissivi successivi denunciati dalla ricorrente a sostegno della integrazione di un evento stressante continuativo nel tempo.

Sia nell’ottica dei comportamenti preventivi che di quelli successivi omessi attribuiti dall’appellante all’Amministrazione - dall’episodio della scritta offensiva all’omesso accertamento del colpevole, dai comportamenti meno socializzanti dei colleghi alla permanenza nello stesso incarico di lavoro - al fine di escludere la rapportabilità causale della patologia agli stessi, rileva la loro intrinseca non idoneità a produrre l’evento secondo l’ id quod plerumque accidit .

Se da un lato, come correttamente rilevato dal primo giudice, non era esigibile un’attività preventiva rispetto ad un comportamento offensivo con le caratteristiche descritte in un ambiente di lavoro improntato al rigido rispetto della disciplina e delle regole, che legittimamente fondava l’affidamento dei superiori in comportamenti corretti da parte dei sottoordinati;
dall’altro, proprio l’unicità dell’episodio, in uno con il carattere non circostanziato dell’offesa, rendeva difficile, se non in concreto quasi impossibile un’indagine volta all’accertamento del colpevole e, contemporaneamente, meno lesiva l’offesa in sé e, quindi, meno idonea a determinare causalmente, secondo la comune esperienza, la sindrome depressiva accertata.

Allo stesso modo, anche i comportamenti successivi dedotti, i quali, secondo la prospettazione dell’appellante avrebbero dovuto essere impediti dall’amministrazione, sostanziandosi solo in atteggiamenti meno socializzanti da parte dei colleghi nello stesso luogo di lavoro dove il fatto era accaduto, appaiono di per sé non idonei, secondo la comune esperienza, ad essere considerati causativi della sindrome depressiva, essendo ben diversi da comportamenti ripetuti diretti alla persecuzione, all’emarginazione, alla vessazione del dipendente.

Peraltro, anche ad ipotizzare come effettivamente integrati sia comportamenti superficiali da parte dell’amministrazione, sia comportamenti di emarginazione posti in essere dai colleghi, appare evidente che questi non sono idonei a svolgere un ruolo causale nella determinazione della patologia clinica lamentata. A tal fine, è sufficiente considerare che la ricorrente ha prestato servizio nello stesso contesto di lavoro solo per circa un mese subito dopo l’episodio;
sono seguiti lunghi periodi di convalescenza e ricovero che l’hanno tenuta lontano dal servizio cui era restata destinata (come risulta dal foglio delle presenze, all. C e D, in atti nel giudizio di primo grado). In definitiva, un così breve lasso di tempo rende difficile ravvisare l’integrazione di un evento stressante idoneo a costituire anche solo una concausa e, ancor meno, una causa preponderante della patologia accertata.

6.3. Escluso il nesso causale sulla base delle argomentazioni che precedono, diventa non influente l’ammissione delle prove testimoniali chieste per la conferma dei comportamenti dedotti assunti come lesivi e, a maggior ragione, la richiesta di consulenza per l’accertamento del danno patito;
così come diventa irrilevante la dedotta mancata prova da parte dell’amministrazione in ordine all’assenza della colpa.

Tale assenza di elemento soggettivo, comunque, si staglia evidente, per ognuno dei segmenti presi in esame nel ricorso:

a) quanto al profilo impeditivo dell’evento, non si vede come possa – anche in astratto - l’Amministrazione porre in essere efficaci cautele preventive per impedire comportamenti (certamente inurbani, incivili, ed esecrabili) che purtroppo possono connotare gli ambienti di lavoro (salvo volere ipotizzare rimedi draconiani, e peraltro in parte impossibili da attuare in ambienti lavorativi, quali la collocazione “a tappeto” di videocamere);

b) quanto al profilo concernente l’attività di individuazione del colpevole, la estrema genericità dell’offesa rendeva impraticabile ogni possibile indagine mirata sull’autore (ricerca movente, pregressi contrasti, etc.) allargando a dismisura il campo di verifica.

7. Per la peculiarità della controversia sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese del grado di appello.

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