Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2010-12-15, n. 201008918

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2010-12-15, n. 201008918
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201008918
Data del deposito : 15 dicembre 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 07566/2005 REG.RIC.

N. 08918/2010REG.SEN.

N. 07566/2005 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7566 del 2005, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avv. B C di T, con domicilio eletto presso B C di T in Roma, via di Porta Pinciana, 6;

contro

Presidenza della Repubblica, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti in carica, tutti rappresentati e difesi dalla Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, sono per legge domiciliati;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. del LAZIO – Sede di ROMA- SEZIONE I n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente DISPENSA DAL SERVIZIO PER MOTIVI DISCIPLINARI


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Presidenza della Repubblica e della Presidenza del Consiglio dei Ministri;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 novembre 2010 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Collevecchio per delega di Caravita e l’Avvocato dello Stato De Felice;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il ricorso di primo grado l’odierno appellante -OMISSIS- aveva domandato l'annullamento del d.P.R. 16 luglio 1998 di dispensa dal servizio, notificatogli il 27 luglio 1998, e di ogni atto connesso, con particolare riguardo a quelli del procedimento disciplinare, compresa la contestazione degli addebiti del Ministro dell’Interno 25 marzo 1998.

Egli, dirigente generale di pubblica sicurezza facente parte del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (SISDE), era stato sospeso dal servizio a seguito di un procedimento penale, definito con sentenza del Tribunale di Roma depositata il 20 marzo 1995 , di condanna per peculato e abuso d’ufficio.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del -OMISSIS-, in parziale riforma, aveva proceduto ad una riduzione della pena comminata dal Tribunale al -OMISSIS-.

La Corte di Cassazione, con sentenza -OMISSIS-, aveva annullato parzialmente la decisione di secondo grado, rinviando ad altra sezione della Corte d’Appello per il prosieguo.

Nelle more del processo penale, era stato avviato un procedimento amministrativo per valutare lo stato di salute del dipendente, che si era concluso il -OMISSIS- con la dichiarazione della Commissione Medica Ospedaliera della sua inidoneità permanente ed assoluta al servizio di istituto.

Il 25 marzo 1998 il Ministero dell’Interno aveva aperto a carico del -OMISSIS- un procedimento disciplinare, conclusosi con il decreto presidenziale in oggetto, che aveva impugnato davanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con cinque distinte censure, tutte respinte dal giudice con la sentenza qui appellata.

La doglianza incentrata sull’asserito malgoverno dell’art. 11 d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 e dell’art. 9 l. 7 febbraio 1990, n. 19 (secondo cui l’Amministrazione avrebbe dovuto attendere il passaggio in giudicato della sentenza penale ed all’uopo non sarebbe stata idonea la sentenza della Corte di Cassazione per la ragione che aveva rinviato alla Corte d’Appello per la prosecuzione del processo) è stata respinta in quanto non considerava l’evoluzione in materia di formazione progressiva del giudicato elaborata dalla giurisprudenza di legittimità.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza limitatamente alla qualificazione giuridica di peculato (cui aveva sostituito quella di truffa aggravata) dei prelievi di denaro effettuati in correlazione con la riscossione dei fondi del SISDE ed alla conseguente determinazione della pena.

Pertanto, la sentenza penale di secondo grado aveva acquistato autorità di cosa giudicata in ordine alla responsabilità penale del -OMISSIS-, tanto per le condotte per le quali la Corte di Cassazione aveva confermato la qualificazione giuridica in termini di peculato, quanto per quelle ritenute qualificabili come truffa aggravata.

Il Tribunale amministrativo rigettava anche la seconda censura, attinente al mancato rispetto dei termini del procedimento disciplinare ( artt. 117 d.P.R. 10 marzo 1957, n. 3, e 9, comma 2, l. 7 febbraio 1990 n. 19, e 9 e 11 d.P.R. 20 ottobre 1981, n. 737). Il -OMISSIS- aveva denunciato la duplice intempestività della contestazione degli addebiti, effettuata il 25 marzo 1998 a fronte della lettura del dispositivo della sentenza della Corte di Cassazione avvenuta il -OMISSIS-. Ciò perché la contestazione degli addebiti era stata notificata prima che fosse intervenuto il deposito della sentenza stessa - -OMISSIS-- e, quindi, a procedimento penale non ancora concluso, ed in quanto, pur assumendo la data del -OMISSIS- come idoneo dies a quo , risultava violato il termine di inizio dell’azione disciplinare - 180 giorni dalla data di avvenuta conoscenza della sentenza di condanna del dipendente-, sancito dall’art. 9, comma 2, della citata l. 7 febbraio 1990 n. 19).

Il Tribunale amministrativo regionale ha respinto la doglianza perché, ai sensi dell’art. 9, comma 2, l. n. 19 del 1990, il termine iniziale del procedimento destitutorio decorre dal momento in cui “l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna” . La tesi del -OMISSIS- che individuava il dies a quo in quello – -OMISSIS- – nel quale era stata pubblicata la sentenza con la lettura del dispositivo in udienza ex art. 545 del Codice di procedura penale, non era fondata. L’esatta percezione, da parte dell’Amministrazione, dell’accertamento dei fatti effettuato in sede penale poteva infatti aversi solo con l’acquisizione del testo integrale della sentenza, non già con la conoscenza del semplice dispositivo. Alla data presa a riferimento dall’interessato non si era concretizzata quella “notizia” che, sola, sarebbe stata idonea a determinare il decorso del termine perentorio per definire la vicenda disciplinare.

Di converso, meritava di essere disattesa la censura di intempestività dell’azione a cagione della circostanza che venne iniziata prima che fosse pubblicata la sentenza della Corte di Cassazione: l’art. 9, comma 2, l. n. 19 del 1990 vuole evitare che l’Amministrazione, pur non avendo piena conoscenza dell’accertamento del fatto operato in sede penale, sia costretta ad avviare il procedimento disciplinare per non incorrere in una decadenza insanabile: ciò nel solo interesse dell’autorità pubblica;
l’eventuale avvio anticipato del procedimento destitutorio, per converso, era insuscettibile di arrecare nocumento all’inquisito. Al contrario, risultava in linea con il suo interesse alla sollecita definizione della vicenda disciplinare e pertanto non poteva reputarsi illegittima la determinazione dell’Amministrazione di procedere alla contestazione degli addebiti prima che fosse intervenuta la suddetta pubblicazione.

Del pari per il Tribunale amministrativo infondata era la violazione dell’art 9, comma 2, della l. n. 19 del 1990, sub specie di inosservanza del termine di novanta giorni previsto per la durata complessiva del procedimento disciplinare, in concreto conclusosi il 27 luglio 1998: ciò alla stregua del principio enunciato dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 2004, in base al quale il suddetto termine iniziava a decorrere non dalla data di effettivo avvio del procedimento disciplinare, ma dalla scadenza dei centottanta giorni, sempre previsti dall’art. 9, comma 2, che costituiscono il periodo temporale massimo entro il quale – avuta conoscenza della sentenza penale di condanna – deve avere inizio (o proseguire) il procedimento, sicché il tempo per l’esercizio dell’azione assomma ad un totale di duecentosettanta giorni.

Tale affermazione, da un lato conduceva all’irrilevanza nella specie del computo dei soli novanta giorni a far tempo dal 25 marzo 1998 e, dall’altro, considerato che il dies a quo risulta oramai sganciato dalla data di lettura del dispositivo in udienza (-OMISSIS-), all’affermazione circa l’osservanza da parte dell’appellata amministrazione del Ministero dell’Interno del termine lungo imposto dall’ordinamento.

Dovevano essere respinte, per il Tribunale amministrativo, le censure di merito fondate su un asseritamente acritico recepimento delle risultanze del procedimento penale, atteso che in detta sede era emerso che l’interessato aveva tenuto condotte di elevata gravità e che il diritto di difesa dinanzi all’autorità disciplinare non aveva subito vulnus , avendo egli potuto interloquire in osservanza della normativa di settore.

Quanto infine alla censura relativa alla violazione degli artt. 123, 124 e 130 d.P.R. 10 marzo 1957 n. 3 e 2 della l. 7 agosto 1990 n. 241 (nonché dell’art. 97 Cost.) attinente al rapporto fra il procedimento di destituzione e quello di dispensa dal servizio, ai quali il dipendente era contemporaneamente sottoposto, il primo giudice ha respinto la censura alla stregua di un argomento di fatto. Dall’appellante, infatti, si era sostenuto che, poiché la Commissione Medico Ospedaliera ne aveva pronunciato la fisica inidoneità il -OMISSIS-, egli avrebbe dovuto essere dispensato dal servizio per tal causa, il che avrebbe impedito l’ulteriore prosecuzione del procedimento disciplinare. Secondo il primo giudice, la infondatezza discendeva dalla circostanza che solo il 5 settembre 1998 – quindi dopo l’emanazione dell’atto impugnato – l’interessato aveva portato a conoscenza l’Amministrazione del giudizio reso dalla C.M.O. in uno con l’istanza di pensione privilegiata.

La piena autonomia fra i due procedimenti impediva di considerare rilevante la considerazione secondo cui il Ministero dell’Interno avrebbe dovuto farsi parte diligente presso la Commissione prima di procedere disciplinarmente.

Avverso la sentenza l’interessato ha proposto appello, reiterando le censure di primo grado, proponendo istanza di acquisizione e facendo presente che già il -OMISSIS- era stato dichiarato non idoneo al servizio dalla CMO, e riproponendo le censure procedimentali respinte e la tematica relativa alla persecutoria iniziativa disciplinare intrapresa nei propri confronti acriticamente fondata sulle risultanze emerse innanzi al giudice penale.

La sentenza appellata, in quanto illogica, meritava a suo avviso di essere annullata.

DIRITTO

La sentenza deve essere confermata in ragione dell’infondatezza dell’appello.

Deve premettersi che la causa appare compiutamente istruita e che, pertanto, non v’ è necessità di disporre alcun incombente istruttorio e può procedersi all’esame del merito delle censure proposte.

La prima doglianza proposta (violazione dell’ art. 11 d.P.R. 25 ottobre 1981 ed art. 9 l. 7 febbraio 1990, n. 19) è infondata alla stregua del costante orientamento giurisprudenziale - del quale il primo giudice ha fatto buongoverno - secondo cui con riferimento alla formazione progressiva del giudicato, qualora la Suprema Corte, in sede di giudizio penale, abbia rimesso al giudice del rinvio esclusivamente la questione relativa alla determinazione della pena, il giudicato si forma sull'accertamento del reato e la responsabilità dell'imputato, impedendo, con la definitività della decisione su tali punti, sia l'applicazione delle cause estintive del reato sopravvenute all'annullamento parziale, sia che possano essere rimesse in discussione le questioni anzidette nel successivo giudizio civile di danno (Cass., III, 8 giugno 2007, -OMISSIS-;VI, 21 ottobre 1998, n. 13416).

Il principio desumibile detta giurisprudenza penale è che l’affermazione di penale responsabilità confermata in sede di giudizio di Cassazione non risente (neppure) delle eventuali vicende estintive sopravvenute.

Si può fare riferimento al concetto di intervenuto giudicato se il giudice penale ha accertato il materiale verificarsi del fatto storico della fattispecie contestata.

Ne discende l’infondatezza della tesi per cui l’azione disciplinare sarebbe stata intempestiva per carenza del presupposto del passaggio in giudicato del processo penale.

Anche la seconda censura relativa ai termini del procedimento disciplinare è infondata.

Il Collegio condivide l’orientamento espresso da questo Consiglio di Stato per cui ai fini della decorrenza del termine di centottanta giorni per la prosecuzione o il promovimento del procedimento disciplinare, a seguito di condanna in sede penale, come previsto dall'art. 9 comma 2 l. 7 febbraio 1990 n. 19, occorre che l’amministrazione venga a conoscenza dell’integrale sentenza di condanna irrevocabile, e non già del semplice dispositivo, in quanto essa deve avere esatta cognizione dei fatti accertati in sede penale, onde contestarli al dipendente e valutarli in sede disciplinare. (Cons, Stato, IV, 27 settembre 1996, -OMISSIS-).

Nel periodo intercorrente tra lettura del dispositivo e motivazione pertanto non si verifica alcuna decadenza: il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi da tale orientamento.

Che la disposizione predetta, tuttavia, facoltizzi ma non obblighi l’amministrazione ad attendere il deposito della motivazione, è dato che si ricava dal tenore letterale e dalla ratio della disposizione.

Quanto al primo profilo (“La destituzione può sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni. Quando vi sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore ad anni cinque. Decorso tale termine la sospensione cautelare è revocata di diritto”) come si è detto, si esclude che il concetto di notizia possa riposare nel (mero) dispositivo della sentenza.

Tuttavia, da ciò non può discendere la conseguenza, pretesa dall’appellante, per cui occorre sempre e comunque attendere il deposito della motivazione.

D’altro canto, il termine decadenziale rispondere all’interesse dell’incolpato, al fine di evitare che questi sia sottoposto, sine die , al possibile avvio dell’azione disciplinare: all’evidenza, l’appellante non ha interesse perciò a dolersi della circostanza che l’amministrazione intraprese l’azione antecedentemente al deposito della motivazione della decisione.

Sotto altro profilo, se si tiene presente che la disposizione legittima l’avvio del procedimento disciplinare in epoca successiva alla lettura del dispositivo della sentenza condannatoria e rapporta i termini alla “compiuta notizia” coincidente con il deposito della motivazione, l’infondatezza dell’appello appare evidente sol che si consideri che postulerebbe una interpretazione additiva nel senso che qualora comunque l’amministrazione avvii il procedimento senza attendere il deposito della motivazione, i predetti termini decorrono dalla lettura del dispositivo.

Sennonché una tale tale lettura collide con la ratio della norma, e più ancora con la costante interpretazione secondo per cui i termini previsti dalle disposizioni in materia disciplinare non hanno carattere perentorio, bensì ordinatorio, ove non sia prevista alcuna decadenza per la loro inosservanza (Cons. Stato, IV, 15 novembre 2004, n. 7459).

L’effetto di un simile principio sarebbe quello (contrario all’interesse degli incolpati a vedere sollecitamente risolta la loro posizione disciplinare) per cui l’amministrazione attenderebbe sempre e comunque il deposito delle motivazioni, anche allorché, a seguito dello studio del caso successivo alla pubblicazione del dispositivo, ciò non si appalesi necessario.

Merita reiezione altresì la terza doglianza, in quanto collidente con l’orientamento che considera cumulabili i termini previsti dalla invocata disposizione di legge sino a raggiungere il complessivo monte di giorni 27. Infatti il termine perentorio di novanta giorni per l'irrogazione di sanzioni disciplinari a impiegati dello Stato comincia a decorrere non già dall'avvio del procedimento disciplinare, ma dalla «scadenza virtuale» del termine di centottanta giorni, fissato dall'art. 9 l. 7 febbraio 1990, n. 19, per l'inizio del procedimento stesso e decorrente «dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna». Il legislatore ha inteso sollecitare la definizione della posizione del dipendente prevedendo un complessivo termine di duecentosettanta giorni, decorrente dall'avvenuta «notizia della sentenza irrevocabile», ed entro il quale l'amministrazione può legittimamente attivare e concludere il procedimento disciplinare. Il lasso temporale che non può quindi essere superato a pena di violazione della perentorietà del termine è quello totale di duecentossettanta giorni (Cons. Stato, VI, -OMISSIS-).

Con il quarto motivo di censura si sono introdotte nel processo amministrativo inammissibili valutazioni di merito: il mezzo non merita accoglimento. Il Collegio rammenta il consolidato orientamento per cui la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all'applicazione di una sanzione disciplinare costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, ad es. per la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l'evidente sproporzionalità e il travisamento (Cons. Stato, IV, 31 maggio 2007, n. 2830;
Cons. Stato, VI, 22 marzo 2007, n. 1350).

Nel caso in oggetto la gravità delle condotte dell’odierno appellante (utilizzo di denaro pubblico giovandosi di una posizione di assoluto privilegio anche sotto il profilo del quomodo della rendicontazione) costituisce dato agevolmente percepibile;
la valutazione dell’amministrazione non appare né abnorme né sproporzionata;
la severità delle pene inflittegli testimonia la circostanza che la valutazione di gravità delle condotte non era disallineata rispetto alle risultanze probatorie.

La censura merita la reiezione, in adesione all’orientamento secondo il quale in sede di procedimento disciplinare nei confronti di pubblici dipendenti, la valutazione circa la gravità dei fatti commessi ai fini dell'irrogazione di una sanzione disciplinare è estrinsecazione di discrezionalità amministrativa ed è insindacabile dal giudice amministrativo, salvo che per eccesso di potere nelle sue varie articolazioni di natura sintomatica, fra cui l'evidente sproporzionalità della misura disciplinare adottata rispetto alla gravità dei fatti accertati (Cons. Stato, IV, 16 ottobre 2009 , n. 6353).

L’ultimo aspetto da vagliare attieneal rapporto - asseritamente preclusivo della prosecuzione del procedimento disciplinare- intercorrente tra questo ed il procedimento culminato nella dispensa dal servizio per inidoneità fisica.

A quanto condivisibilmente rilevato dal primo giudice in proposito, circa l’epoca in cui l’amministrazione ebbe notizia dell’esito del procedimento di dispensa, e l’epoca in cui l’interessato portò a conoscenza del’amministrazione medesima la circostanza, va aggiunta la considerazione, che elide alla radice la possibilità di accogliere la doglianza, per cui costituisce principio pacifico quello per cui sussiste una ontologica diversità tra l'ipotesi di dispensa dal servizio a causa di malattia per scadenza del periodo massimo di aspettativa - il provvedimento relativo alla quale ha carattere dichiarativo ed effetto retroattivo ex tunc , venendo il dipendente ad essere dispensato dalla data di scadenza del periodo massimo di aspettativa – e la fattispecie ( che ricorre nel caso di specie) di ipotesi di dispensa per inidoneità fisica.

In tale ultima ipotesi, infatti, il provvedimento ha carattere costitutivo e non può avere decorrenza anteriore alla data della dispensa stessa: se ne è fatta discendere pertanto, la condivisibile conseguenza per cui la cessazione del rapporto di lavoro per dipendenza dovuta ad infermità permanente decorre dal decreto che conclude il procedimento e non dalla data del verbale con il quale il competente organo sanitario ha pronunciato il giudizio di permanente inidoneità.

Ne consegue che comunque, alla indicata data del -OMISSIS-, indicata dall’appellante (accertamento della inidoneità fisica da parte della competente commissione) il rapporto di impiego era in itinere e che, pertanto, nessuna preclusione alla prosecuzione del procedimento disciplinare poteva ravvisarsi.

Conclusivamente, il ricorso in appello è infondato e, conseguentemente, deve essere respinto e deve essere confermata la sentenza in epigrafe.

Possono essere compensate le spese processuali sostenute dalle parti a cagione della complessità e novità delle questioni esaminate.

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