Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2011-09-16, n. 201105170

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2011-09-16, n. 201105170
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201105170
Data del deposito : 16 settembre 2011
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00075/2009 REG.RIC.

N. 05170/2011REG.PROV.COLL.

N. 00075/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello numero di registro generale 75 del 2009, proposto da.
F E, Psan Orestina in F, F Raffaele, P S in F, F Viliano, R R in F, F Valentino, F Viliana, rappresentati e difesi dagli avv.ti G A, M T B F, con domicilio eletto presso l’avv. M T B F in Roma, viale Giulio Cesare, 14;

contro

Comune di Mesola, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avv. F D, con domicilio eletto presso Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;
Azienda Agricola Sant’Antonio di Monzardo Gilberto &
C. s.a.s. e la Ditta Fratelli Canella s.r.l. in persona dei rispettivi legali rappresentanti, non costituiti in questo grado del giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo dell’Emilia – Romagna, sede di Bologna, Sezione I, n. 02515/2007, resa tra le parti, concernente AUTORIZZAZIONE ASPORTAZIONE MATERIALE DI CAVA


Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 giugno 2011 il Cons. Manfredo Atzeni e uditi per le parti gli avvocati Barbantini e Dani;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1a. Con tre ricorsi al Tribunale amministrativo dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, rubricati ai nn. 890/1999, 950/1999 e 1332/1999, i sigg.ri F E, Psan Orestina in F, F Raffaele, P S in F, F Viliano, R R in F, F Valentino, F Viliana impugnavano:

a) ricorso n. 890/1999: il provvedimento prot. n. 4934-7038 del 23 novembre 1994 con il quale il Sindaco di Mesola (Ferrara) aveva rilasciato autorizzazione provvisoria all’asportazione del materiale di cava da un fondo confinante con quello dei suddetti ricorrenti, la relativa convenzione Rep. n. 3131 del 10 novembre 1994 e l’autorizzazione definitiva prot. n. 10192 del 30.7.1997;

b) ricorso n. 950/1999: il provvedimento di proroga della precedente autorizzazione, prot. n. 6718 del 22 maggio 1999, la deliberazione della Giunta comunale di Mesola n. 153 del 29 aprile 1999, di analogo oggetto, e l’art. 17 delle n.t.a. del Piano comunale per le attività estrattive (PAE);

c) ricorso n. 1332/1999: il provvedimento del Vicesegretario del Comune di Mesola n. 1901 prot. n. 10597 del 13 agosto 1999, relativo all’esecuzione dell’ordinanza n. 320/99 con il quale il Tribunale amministrativo dell’Emilia-Romagna, sede di Bologna, aveva sospeso l’efficacia dei provvedimenti di cui al ricorso n. 950/1999.

Venivano dedotti i seguenti motivi:

con il primo ricorso:

a1: violazione dell’art. 11 della legge regionale dell’Emilia-Romagna 18 luglio 1991, n. 17 sulla disciplina delle attività estrattive;

a2: violazione dell’art. 12 della stessa legge regionale;

a3: violazione dell’art. 13 della stessa legge ragionale;

a4: violazione dell’art. 8 delle Norme tecniche di attuazione del Piano comunale delle attività estrattive;

a5: eccesso di potere sotto diversi profili;

con il secondo ricorso:

b1, 2, 3: violazione degli artt. 15 secondo comma, 15 primo comma, e 14 della legge regionale 18 luglio 1991, n. 17;

b3, 4: violazione degli artt. 17 e 18 delle norme tecniche di attuazione del Piano comunale delle attività estrattive;

b5: violazione degli artt. 3, 6 e 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241;

b6: eccesso di potere sotto diversi profili;

con il terzo ricorso:

c1: violazione degli artt. 3, 7 e 10 della legge 8 agosto 1990, n. 241;

c2: eccesso di potere sotto diversi profili.

1b. Con sentenza n. 861 in data 13 ottobre 2000 il Tribunale amministrativo dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, dichiarava irricevibile il primo ricorso, accoglieva in parte il secondo e respingeva il terzo.

La sentenza veniva annullata con rinvio dal Consiglio di Stato (decisione 5 ottobre 2006, n. 5944) per omessa integrazione del contraddittorio nei confronti di uno dei titolari dell’autorizzazione impugnata.

A seguito della riassunzione del giudizio, il Tribunale amministrativo dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, ordinava l’integrazione del contraddittorio ed, espletato l’incombente, assumeva nuovamente la causa in decisione.

Con sentenza 26 ottobre 2007, n. 2515 il Tribunale regionale dichiarava irricevibile il primo ricorso e respingeva gli altri due.

2. Avverso quest’ultima sentenza propongono l’appello in epigrafe, rubricato al n. 75/09, i sigg.ri F E, Psan Orestina in F, F Raffaele, P S in F, F Viliano, R R in F, F Valentino, F Viliana, contestando le ragioni che ne costituiscono il presupposto e chiedendo la sua riforma e l’accoglimento dei ricorsi di primo grado.

Si è costituito in giudizio il Comune di Mesola chiedendo il rigetto dell’appello.

La causa è stata assunta in decisione alla pubblica udienza del 24 giugno 2011.

3a. La sentenza appellata non può essere confermata nella parte in cui dichiara irricevibile il primo dei ricorsi di primo grado.

Oggetto dell’impugnazione proposta è un atto di autorizzazione alla trasformazione di una porzione di territorio il cui contenuto non è dissimile, per quanto ora rileva, da quello del permesso di costruire.

Su tale base, afferma qui il Collegio che anche nella presente fattispecie il termine per proporre impugnazione va individuato – per l’ eadem ratio dell’abilitazione alla trasformazione del territorio - in analogia ai principi elaborati dalla giurisprudenza in relazione alla categoria di atti amministrativi alla quale appartengono i permessi di costruire. Il termine quindi decorre dal momento in cui è palese ai terzi l’illegittima trasformazione del territorio.

Così, Cons. Stato, IV, 5 gennaio 2011, n. 18, ha affermato che la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi all’edificazione si ha, per i terzi, da quando si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.

Questa Sezione ha del resto approfondito la questione con la sentenza 10 dicembre 2010, n. 8705, in termini che merita qui rammentare e considerare.

Il dies a quo del termine di decadenza per impugnare il premesso di costruzione decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, conformemente alla regola generale di cui all’art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (oggi art. 41 Cod. proc. amm.). In tema di trasformazione del territorio, la piena conoscenza va raccordata al principio dell’ampia capacità di azione per osservanza della normativa edilizia ed urbanistica che la legge ha voluto porre attribuendo a chiunque (art. 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, come modificato dall’art. 10 della legge 6 agosto 1967, n. 765) la legittimazione all’impugnazione del titolo a costruire.

Poiché oggetto del giudizio amministrativo non è l’esecuzione dei lavori (la quale concreta, piuttosto, la lesione che sarà a base dell’interesse a ricorrere), bensì il provvedimento che la legittima, in una tale ottica il completamento dei lavori è considerato l’indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo amministrativo, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata.

L’onere di tempestiva azione davanti al giudice amministrativo decorre quindi dalla conoscenza, effettiva ovvero presunta mediante la constatazione della trasformazione, dell’esistenza e dell’entità delle violazioni, la quale viene ricondotta alla avvenuta realizzazione del manufatto, cioè al momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento che si può dedurre essere stato assentito.

Solo una situazione di fatto così manifesta fa sorgere l’onere di diligenza a carico del soggetto che si stima leso dal provvedimento legittimante.

Peraltro, tale onere non può concernere l’immediata proposizione del ricorso giurisdizionale: la conoscenza di una tale situazione potenzialmente lesiva non obbliga il titolare dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede contenziosa;
egli può solo essere tenuto ad attivare sollecitamente gli strumenti per acquisire la piena conoscenza dell'operato dell'Amministrazione.

Afferma dunque qui il Collegio, in accordo con questa sentenza 10 dicembre 2010, n. 8705 (resa in tema di permesso di costruire) che, a proposito dei provvedimenti di legittimazione delle attività estrattive, questo dies a quo va identificato nella data di effettiva piena conoscenza del carattere pregiudizievole di un provvedimento legittimante, vale a dire dal momento in cui è realmente possibile valutarne il grado di concreta lesività: il che, per essere davvero pieno (cioè completo) postula la conoscenza non solo dell’effetto pratico, ma anche delle ragioni formali che sono alla base del titolo abilitativo.

Invero - si può aggiungere alle considerazioni di quel precedente - la decorrenza del termine decadenziale per ricorrere al giudice contro l’atto amministrativo (perché di questo, va ribadito, si verte) consegue alla maturata attualità e concretezza dell'interesse a ricorrere. Questo, nel caso di ignoto titolo trasformativo del territorio, sorge solo quando è raggiunta la piena conoscenza da parte del “chiunque” della ragione giuridica, dall’effetto per lui pregiudizievole, che è alla base del provvedimento: piena conoscenza che, se riguarda una trasformazione del territorio, si produce non con il mero avvio dei lavori - che di suo non manifesta quale ne sarà il risultato finale, e dunque l’attitudine lesiva – e nemmeno quando la medesima trasformazione, che del provvedimento è un primo indice, è giunta a concretamente esprimere il sospetto di contrasto con l'interesse del legittimato ad impugnare (sospetto che, mentre nel caso di costruzione coincide con il compimento della struttura essenziale del manufatto, nel caso di un’escavazione di cava avviene quando questa, per superficie o per profondità, ha raggiunto dimensioni tali da essere effettivamente offensive dell'interesse del terzo);
ma quando le ragioni che sono a base del titolo abilitativo sono davvero divenute note al “chiunque”, per cui questi vi si può, responsabilmente, opporre in giudizio. Il sospetto in questione lo carica solo dell’onere di chiedere senza indugio alcuno di accedere agli atti dell’amministrazione competente all’abilitazione: e solo in difetto di una tale condotta diligente egli può essere considerato comunque decaduto, trascorso il termine, dai mezzi di tutela in giustizia.

Ritiene il Collegio – come già nel ricordato precedente - che una diversa impostazione sia contraria al principio del giusto processo , di cui all’art. 111 della Costituzione.

A voler seguire l’impostazione opposta, infatti, il titolare dell’interesse legittimo per tutelare adeguatamente la propria situazione senza incorrere in decadenze dovrebbe adempiere, oltre ogni ragionevole esigibilità, al gravoso onere della proposizione di una diretta azione giurisdizionale, con il suo consistente costo, con l’onerosa assistenza di un professionista, e con l’alea aggiuntiva della mancanza della possibilità di stimarne preventivamente il fondamento e la probabilità di successo. Egli cioè dovrebbe proporre un’impugnazione - il cui fondamento gli è a quel momento ignoto - al solo fine di non incorrere nella decadenza, salvo poi abbandonarla qualora la documentazione acquisita agli atti del processo dimostri la legittimità dell’operato dell’Amministrazione;
e l’impossibilità pratica di una pronuncia favorevole gli impedirebbe, anche in questo caso, la rifusione delle spese affrontate.

Il Collegio dunque condivide appieno le valutazioni in diritto del detto precedente, per cui la conoscenza di una situazione potenzialmente lesiva non obbliga il titolare dell’interesse legittimo oppositivo alla realizzazione di una trasformazione del territorio ad attivarsi immediatamente in giustizia;
egli è solo tenuto ad attivare senza indugio gli strumenti per acquisire piena conoscenza dell’operato dell’amministrazione. Una volto assolto quest’onere, spetta all’amministrazione fornirgli tempestivamente la documentazione necessaria, dalla cui consegna decorre il termine decadenziale per l’impugnazione in giustizia.

Il principio si attaglia al caso di specie.

E’ vero che l’impugnazione è stata proposta circa cinque anni dopo l’adozione dell’autorizzazione impugnata.

Peraltro, è incontestato che i primi anni di coltivazione della cava non hanno lasciato emergere alcun profilo di violazione di legge.

Il profilo problematico poi emerso è inoltre malcerto agli occhi degli interessati a contrastarlo, in quanto è relativo alla profondità dello scavo effettuato: elemento per di più difficilmente apprezzabile a vista, data l’impossibilità di accedere al fondo interessato.

Solo quando lo scavo ha raggiunto una profondità che gli appellanti hanno ritenuto eccessiva è emersa davvero la presenza di un’offesa ai loro beni della vita, che gli stessi, o meglio alcuni di essi, hanno dapprima imputato al comportamento dell’imprenditore posto in essere in difformità di un immaginabile titolo autorizzatorio.

Di conseguenza, la prima reazione attivata è stata quella di una denuncia all’Autorità giudiziaria, cui è seguita un’istanza di accesso agli atti dell’Amministrazione comunale.

Solo gli elementi così raccolti hanno evidenziato che l’attività ritenuta illegittima non era in realtà difforme dal suddetto titolo, ma conforme: e che perciò a questo – e non alla mera opera - doveva essere fatta risalire la lesione lamentata.

Nell’anzidetta situazione, connotata da notevoli profili di incertezza, l’onere di impugnazione è sorto solo a seguito dell’acquisita consapevolezza di tale elemento, la cui ritardata conoscenza, nelle circostanze sopra descritte, non può essere imputata agli appellanti.

Ritiene quindi il Collegio che la tempestività dell’impugnazione del provvedimento che legittima l’escavazione deve essere valutata considerando quale dies a quo la formazione di una siffatta piena conoscenza delle sue ragioni, che nel caso di specie è intervenuta solo a seguito dell’accesso agli atti del procedimento, ottenuto a seguito di apposita istanza.

La parte appellata, responsabile dell’escavazione e beneficiaria dell’autorizzazione, e la stessa sentenza appellata, individuano la data di formazione della conoscenza in un elemento che in realtà è incerto, costituito dalla presentazione di un esposto, oltre tutto a firma di solo alcuni degli appellanti.

Tale impostazione, per le considerazioni esposte, non può essere condivisa.

In riforma della sentenza gravata il primo ricorso di primo grado deve allora essere dichiarato ricevibile.

3b. Il Comune di Mesola (Ferrara), appellato, sostiene l’inammissibilità dell’appello in quanto le censure di merito proposte in primo grado, non esaminate dal primo giudice che le ha ritenute proposte tardivamente, non sarebbero state portate all’esame del giudice di appello.

L’argomento non può essere condiviso in quanto l’appello riporta i motivi del ricorso di primo grado.

E’ vero che manca la richiesta formale del loro vaglio da parte del giudice di appello, ma la trascrizione di quei motivi è univocamente rivolta a tale scopo, né ad altro sarebbe utile, per cui l’eccezione deve essere respinta.

Il Collegio deve quindi procedere all’esame nel merito dell’appello.

3c. Gli appellanti sostengono che l’autorizzazione impugnata, con gli atti correlati, viola gli artt. 11, 12 e 13 della legge regionale dell’Emilia-Romagna 18 luglio 1991, n. 17, sulla disciplina delle attività estrattive, nonché l’art. 8 delle Norme tecniche di attuazione del PAE - Piano comunale delle attività estrattive (anch’esso impugnato, peraltro senza specifiche censure e solo per affermare la violazione delle sue prescrizioni), nella parte in cui stabiliscono il contenuto minimo dell’autorizzazione all’escavazione.

La mancanza o l’imprecisione dei relativi elementi necessari ha, per gli appellanti, consentito all’imprenditore uno scavo di profondità superiore a quella massima consentita dal Piano, con particolare riferimento a quanto autorizzato dal Consorzio di bonifica competente a tutela del corretto - e sensibile - assetto idrogeologico della zona.

Il Comune di Mesola sostiene di avere impartito tutte le necessarie prescrizioni e che la profondità dello scavo non è definitiva, dato che il piano di campagna dovrà poi essere ripristinato.

Il Collegio osserva che questa argomentazione del Comune in un certo modo conferma, ed anzi aggrava, l’esistenza dell’illegittimità denunciata dagli appellanti.

E’ invero pacifico che la zona interessata dallo scavo, autorizzato con i provvedimenti impugnati, è interessata da importanti e sistemici problemi di scorrimento e regolazione delle acque (Mesola si trova nel delta del Po).

In tale situazione, la prescrizione specifica, da parte del titolo amministrativo della profondità massima dello scavo è essenziale per non influire negativamente sull’assetto e sull’equilibrio di un tale delicato regime, con il rischio di provocare diffusi inconvenienti quando non veri e propri disastri.

È evidente che uno scavo di profondità superiore a quella effettivamente compatibile con il corretto regime delle acque espone i terreni vicini ad uno eccesso di rischio idrogeologico, che va ben oltre l’usuale, già di suo assai critico in quel contesto.

Comunque, appare decisiva l’affermazione con la quale gli appellanti sostengono che gli atti presupposti al provvedimento conclusivo, e in particolare l’autorizzazione provvisoria, possiedono la necessaria precisione, ma che di questa è poi privo il provvedimento conclusivo, di cui qui è questione.

Il difetto, sostengono gli appellanti, è dovuto al fatto che prima di rilasciare l’autorizzazione definitiva non è stata imposta l’acquisizione del piano quotato con capisaldi di riferimento inamovibili, in violazione dell’art. 11, comma 4, lett. b) della legge regionale dell’Emilia-Romagna 18 luglio 1991, n. 17.

Alla luce di tali elementi in fatto, di cui è dato riscontrare l’esistenza dagli atti, l’argomento degli appellanti risulta fondato.

E’ vero che il provvedimento impugnato stabilisce il limite massimo di profondità, ma non impone la previa acquisizione del suddetto caposaldo di riferimento inamovibile. Una tale mancanza vanifica l’effettività della prescrizione per difetto della possibilità di verifica, perché impedisce di accertare con precisione il piano di campagna, e quindi il punto fisso dal quale deve partire la misurazione;
è appena il caso di rilevare che in tal modo rimane irrimediabilmente incerta la profondità entro la quale dovrà essere davvero contenuto lo scavo: perciò l’imperfezione della previsione del limite massimo dello scavo è talmente grave da renderla inutile e dunque giuridicamente inesistente.

La doglianza proposta dagli appellanti risulta quindi fondata. Del resto, l’eccessiva profondità dello scavo, ed i problemi che ne sono derivati, appare esser stata causata proprio dalla mancata prefissione del punto di riferimento iniziale, pur imprescindibile alla luce del richiamato art. 11, comma 4, lett. b) della legge regionale dell’Emilia-Romagna 18 luglio 1991, n. 17.

In conclusione, in riforma della sentenza appellata il primo dei ricorsi di primo grado deve essere accolto, e per l’effetto va annullata l’autorizzazione impugnata;
restano assorbiti gli ulteriori profili.

3c. Il secondo ricorso di primo grado riguarda il successivo provvedimento con il quale il Comune di Mesola ha modificato il contenuto dell’autorizzazione già rilasciata.

Le parti, come del resto la gravata sentenza, affrontano la questione della qualificazione di tale nuovo atto, in particolare se costituisca proroga del precedente ovvero provvedimento autonomo. Ma la questione è, ad avviso di questo Collegio, irrilevante, in quanto il nuovo atto evidenzia profili di illegittimità comunque connessi con quelli del precedente.

Anche tale ricorso è fondato, invero, e sotto l’assorbente profilo dell’eccesso di potere, circa il quale gli appellanti – seppur con l’ultimo mezzo - sostengono che l’Amministrazione avrebbe dovuto motivare opportunamente il nuovo provvedimento, alla luce delle criticità evidenziate dall’attuazione delle previsioni del precedente.

Osserva in contrario il Comune che il nuovo provvedimento impedisce l’asportazione di materiale in prossimità del confine con la proprietà degli appellanti: una tale precauzione impedirebbe il verificarsi dei problemi da loro affermati.

La tesi del Comune non può essere condivisa.

Alla luce di quanto accertato al paragrafo che precede, va affermato che la precauzione usata dal Comune non risulta sufficiente, in quanto non fornisce alcuna certezza sulla prevenzione degli effetti dannosi che potrebbero essere provocati dall’eccessiva profondità dello scavo.

Invero, può darsi per acquisito che il Comune si è rappresentato alcuni dei problemi provocati dallo scavo, come è dimostrato dal fatto che si sia tentato di salvaguardare dal più grave pericolo il terreno degli appellanti, impedendo l’escavazione nelle sue vicinanze.

Peraltro, la problematica evidenziata manifesta che l’interesse alla salvaguardia delle proprietà non è toccato solo dalla mera contiguità dell’escavazione, ma dall’alterazione del complessivo regime idrogeologico dell’area, potenzialmente pregiudicato da uno scavo eccessivo.

Di conseguenza è fondata l’osservazione degli appellanti vicini, i quali sostanzialmente affermano che il Comune, nel rivedere le proprie determinazioni, avrebbe dovuto prima di tutto curare l’eliminazione di tutti gli effetti potenzialmente pregiudizievoli conseguenti alla prima autorizzazione, e su tale base impostare il nuovo provvedimento.

Anche il secondo dei ricorsi di primo grado deve in conclusione essere accolto.

3d. Infine, anche il terzo dei ricorsi di primo grado è fondato.

La controversia riguarda l’atto emanato dal Comune di Mesola nel dare esecuzione all’ordinanza di sospensione del provvedimento di cui al precedente ricorso di primo grado.

Gli appellanti sostengono che detto provvedimento andava emanato previa comunicazione, nei loro confronti, dell’avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Il Comune sostiene che tale comunicazione non è, in questo caso, dovuta, in ragione del contenuto dell’atto, esecutivo di un provvedimento del giudice, e comunque favorevole nei loro confronti.

La tesi del Comune non può essere condivisa.

Invero, l’ordinanza da eseguire lasciava un ampio margine di apprezzamento all’Amministrazione comunale in quanto, mentre inibiva un’ulteriore attività estrattiva, consentiva pur sempre l’esecuzione di lavori di sistemazione del sito.

Appare evidente che l’impostazione materiale di tali lavori poteva seguire criteri diversi, e che perciò coinvolgeva direttamente anche gli interessi della parte in favore della quale è stato emesso il provvedimento cautelare.

Ritiene il Collegio che qualora l’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale lasci all’amministrazione margini di discrezionalità, quand’anche tecnica, tali da poter incidere negativamente sull’interesse di chi ha domandato la pronuncia, la parte a salvaguardia del cui interesse è stato emesso il provvedimento ottemperante ha diritto a verificare, con le forme partecipative della l. n. 241 del 1990, l’effettività di tale salvaguardia e perciò di partecipare con quelle medesime forme al procedimento. Dunque ha diritto, in primis , a ricevere la comunicazione del suo avvio. Il che nella specie è mancato, rendendo illegittimo il detto atto di sospensione.

A parte ciò, osserva comunque il Collegio che nella specie non è stato affatto dimostrato che il contenuto del provvedimento impugnato sia davvero favorevole per gli odierni appellanti (i quali, anzi, sostengono che consentirebbe ulteriori danni alla loro proprietà).

Tale osservazione – che consegue al mancato confronto partecipativo - conforta ulteriormente la conclusione sopra esposta.

Anche il terzo dei ricorsi di primo grado deve pertanto essere accolto.

4. In conclusione, in riforma della sentenza appellata i ricorsi di primo grado devono essere accolti e, per l’effetto, vanno annullati i provvedimenti impugnati.

Le spese, liquidate, in dispositivo, sono poste a carico del Comune soccombente.

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