Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2017-03-27, n. 201701368

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2017-03-27, n. 201701368
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201701368
Data del deposito : 27 marzo 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/03/2017

N. 01368/2017REG.PROV.COLL.

N. 01740/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 1740 del 2008, proposto da:
V P, rappresentato e difeso dagli avvocati M C e G G, con domicilio eletto presso lo studio M C in Roma, via Pierluigi Da Palestrina, n. 63;

contro

Regione Piemonte, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati C P F e G M Cni, con domicilio eletto presso lo studio Giovanni Cocconi in Roma, via Ciro Menotti, n. 1;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PIEMONTE - TORINO: SEZIONE II n. 03612/2007, resa tra le parti, concernente il diniego di riammissione in servizio;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Regione Piemonte;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2017 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati Sabina Lorenzelli, su delega di Contaldi, e Maurizio Calamoneri, su delega di Cocconi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con la sentenza di estremi indicati in epigrafe, il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, dopo averne disposto la riunione: a) ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da Pasquale Valenti per ottenere l’annullamento del provvedimento 14 gennaio 1993, prot. n. 363/PER, con il quale l’assessore al personale della Regione Piemonte aveva respinto l’istanza di riammissione in servizio del ricorrente, sospeso cautelativamente con deliberazione della Giunta regionale 22 giugno 1992, n. 183-16290;
b) ha respinto il ricorso contro il decreto 7 aprile 1993, con il quale il presidente della giunta regionale aveva irrogato al ricorrente la sanzione disciplinare della destituzione ai sensi dell’art. 46 l.r. 12 agosto 1974, n. 22.

2. Per ottenere la riforma di detta sentenza ha proposto appello Pasquale Valenti, il quale ha formulato in sintesi le seguenti censure:

inosservanza dei termini del procedimento disciplinare, lamentando sia la violazione del termine massimo di 90 giorni tra un atto del procedimento disciplinare e quello successivo, sia il decorso dei termini massimi di durata;

difetto di motivazione del provvedimento disciplinare;

erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto contro il diniego di riammissione in servizio.

3. Si è costituita in giudizio la Regione Piemonte chiedendo il rigetto dell’appello.

4. Alla pubblica udienza del 2 febbraio 2017, la causa è stata trattenuta per la decisione.

5. L’appello non merita accoglimento.

6. Il primo motivo di ricorso è diretto a contestare l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento disciplinare in seguito alla sentenza penale di condanna, lamentando, in particolare, la violazione dell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19.

Il motivo è infondato.

Una giurisprudenza amministrativa ormai consolidata (a partire dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 26 giugno 2000, n. 15), recependo la soluzione interpretativa indicata dalla Corte costituzionale nella sentenza 28 maggio 1999, n.197, ritiene che i termini “brevi” per la lo svolgimento del procedimento disciplinare previsti dalla legge n. 19 del 1990 non trovino applicazione in caso di sentenza di patteggiamento. Come indicato dalla Corte costituzionale nella sentenza citata, invero, la ratio dei termini “brevi” previsti dall’art. 9 della legge n. 19 del 1990 risiede nella considerazione che, in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, il giudizio disciplinare consiste nel “riesame delle risultanze processuali e dei fatti come risultano accertati dalla sentenza”. La Corte costituzionale ha, tuttavia, escluso che la norma trovi applicazione quando il procedimento disciplinare sia instaurato a seguito di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti. In tal caso, infatti, per le particolari modalità del procedimento penale, non può escludersi, in linea astratta, la necessità di autonomi accertamenti in sede disciplinare, sicché vale la disciplina generale stabilita dal d.P.R. n. 3 del 1957.

7. Viene, in particolare, in rilievo, in relazione al profilo temporale, la disciplina dettata dall’art. 120 d.P.R. n. 3 del 1957.

Tale norma, nel disporre che il procedimento disciplinare si estingue quando sono decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto, intende sanzionare con l’estinzione la completa inattività dell'Amministrazione a tutela dell’interessato, per evitare che questi resti sottoposto ad un procedimento disciplinare pendente per un tempo indeterminato, ma non richiede che il procedimento si concluda entro novanta giorni dal suo inizio.

Come ha precisato da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2012, n. 4357, il termine estintivo del procedimento disciplinare, fissato dall'art. 120 comma 1, t.u. 10 gennaio 1957, n. 3, in novanta giorni, s’interrompe ogniqualvolta, prima della sua scadenza, sia adottato un atto proprio del procedimento, anche se di carattere interno, dal quale possa inequivocamente desumersi la volontà dell’Amministrazione di portare a conclusione il procedimento.

Nel caso di specie, come correttamente rileva la sentenza appellata, tali atti interruttivi sono stati compiuti. Segnatamente, vengono in rilievo i seguenti atti: la lettera in data 3 settembre 1992, all’ordine degli avvocati con richiesta di designazione del componente di competenza;
la lettera in data 3 settembre 1992 alle tre organizzazioni sindacali più rappresentative del personale per la designazione dei due componenti di competenza;
la nota in data 26 ottobre 19992, con la quale venivano designati i rappresentanti regionali nella stessa commissione;
lo stesso atto di nomina della commissione emanato in data 14.12.1991.

Il termine previsto dall’art. 120 d.P.R. n. 3 del 1957 è stato, quindi, validamente interrotto.

8. Va ancora evidenziato che l’appellante sostiene che la “deroga” ai termini di cui all’art. 9 della legge n. 19 del 1990 non possa operare laddove, in concreto, non sia stata svolta alcuna autonoma istruttoria disciplinare.

Anche questo assunto non ha pregio.

Dalla sopra richiamata giurisprudenza emerge che la sentenza di patteggiamento esclude in ogni caso l’applicazione dell’art. 9 della legge n. 19 del 1990. L’esclusione opera in astratto (per il solo fatto che il procedimento disciplinare segue ad una sentenza di patteggiamento), senza che possa assumere rilievo, ai fini della mancata applicazione dei termini “brevi”, la circostanza che nel caso concreto sia stata svolta o meno una adeguata istruttoria.

La mancanza di una adeguata istruttoria certamente assume rilevanza, sia pure non ai fini dell’applicazione dei termini brevi, bensì sotto altro profilo. La carenza dell’istruttoria, ammesso che la censura sia fondata, dà luogo ad un vizio, per così dire, “sostanziale” del provvedimento che irroga la sanzione disciplinare, perché rappresenta un sintomo di eccesso di potere: la fondatezza di tale censura, pertanto, deve essere esaminata nell’ambito del secondo motivo di appello, con il quale si deduce, appunto, che la sanzione disciplinare della destituzione sarebbe affetta da difetto di motivazione, perché non avrebbe compiuto alcuna valutazione dei fatti.

Il motivo non è fondato.

Il provvedimento disciplinare richiama, infatti, il verbale della commissione di disciplina dell’8 marzo 1993. Tale verbale, diversamente da quanto deduce il ricorrente, contiene una valutazione approfondita dei fatti e della loro rilevanza sotto il profilo amministrativo-disciplinare (in esso si dà atto della violazione dolosa e continuata dei doversi d’ufficio e del reiterato uso a fini personali dell’impiego d’ufficio, nonché del grave pregiudizio conseguentemente patito dalla Regione e si valuta, altresì, l’adeguatezza della sanzione rispetto ai fatti accertati).

9. La sentenza impugnata, infine, merita condivisione anche nella parte in cui ha dichiarato inammissibile il diniego di riammissione in servizio, adottato dall’Amministrazione regionale prima del provvedimento di destituzione e, quindi, quando ancora il ricorrente si trovava in una situazione di sospensione cautelare.

Il provvedimento di destituzione in servizio successivamente intervenuto ha, dunque, evidentemente assorbito il diniego di riammissione in servizio.

10. L’appello, in conclusione, deve essere respinto.

11. La peculiarità della vicenda, considerata anche la risalenza dei fatti, giustificano la compensazione delle spese di giudizio.

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