Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2023-09-14, n. 202308336

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2023-09-14, n. 202308336
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202308336
Data del deposito : 14 settembre 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 14/09/2023

N. 08336/2023REG.PROV.COLL.

N. 07833/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 7833 del 2020, proposto dal
Comune di Santa Venerina, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati M C, A S, con domicilio digitale come da

PEC

Registri di Giustizia;

contro

-OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'avvocato A S, con domicilio digitale come da

PEC

Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – Sede di Roma (sezione seconda- bis ), 18 agosto 2020, n. 9250, resa tra le parti, concernente l’ottemperanza del lodo arbitrale del 13 luglio 2010, n. 95, del collegio della Camera arbitrale presso l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, costituito ai sensi dell’art. 32 della convenzione tra il Comune di Santa Venerina e la -OMISSIS- s.r.l.;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;

Visto l'art. 114 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 marzo 2023 il consigliere Angela Rotondano e uditi per le parti gli avvocati Clarich e Saitta;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Nel presente giudizio di ottemperanza il Comune di Santa Venerina propone appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo per il Lazio – Sede di Roma, sez. II bis , 18 agosto 2020, n. 9250, che ha accolto il ricorso proposto dalla -OMISSIS-per l’integrale esecuzione del lodo arbitrale del 13 luglio 2010, n. 95, indicato in epigrafe, con cui il Comune è stato condannato a risarcirle i danni conseguenti alla risoluzione disposta dall’amministrazione locale, a decorrere dal 1° gennaio 2009, della concessione in finanza di progetto tra le parti, risalente al 7 marzo 2003, avente ad oggetto la progettazione ed esecuzione dei lavori di costruzione di quattro impianti di trattamento delle acque, l’adeguamento dei serbatoi esistenti, la costruzione di un impianto di produzione di acqua da tavola e la relativa gestione per la durata di trent’anni.

1.1. L’importo liquidato in sede arbitrale a titolo di risarcimento dei danni a favore della società ricorrente ammontava in linea capitale ad € 4.318.405 (per valore degli impianti realizzati, crediti maturati nel corso dell’esecuzione e mancato guadagno), oltre ad accessori, costituiti dalla rivalutazione monetaria e dagli interessi sulle diverse voci per cui l’ente locale è stato condannato, con le decorrenze e i tassi indicati nel lodo.

2. A causa dell’insostenibilità per il bilancio comunale della somma liquidata in sede arbitrale, con delibera del Consiglio Comunale del 12 marzo 2013, n. 9 il Comune di Santa Venerina dichiarava il proprio dissesto ai sensi degli artt. 244 e ss. del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. Contestualmente impugnava il lodo dinanzi alla Corte di appello di Roma che, con sentenza 29 luglio 2015, confermava la validità e l’efficacia della decisione arbitrale (ad eccezione della rivalutazione a titolo di maggior danno). Con ordinanza 9 marzo 2018, n. 5835 la Corte di Cassazione rigettava integralmente i ricorsi proposti da entrambe le parti.

2.1. In seguito all’adesione del Comune alla procedura semplificata ex art. 258 T.u.e.l. (con delibera della Giunta Municipale del 24 maggio 2014, n. -OMISSIS-) e alla conseguente erogazione dell’anticipazione di liquidità del Ministero dell’interno prevista dall’art. 33 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 ( Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale;
convertito, con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. -OMISSIS-
), il credito della -OMISSIS- è stato inserito nella massa passiva della procedura e pagato in data 22 gennaio 2018 per l’intero importo ammesso in linea capitale, oltre che per gli interessi maturati fino al momento della dichiarazione di dissesto, e cioè all’11 marzo 2013 (come da piano di estinzione del 23 dicembre 2016, prospetto di liquidazione e mandato di pagamento del 22 gennaio 2018, n. 232).

2.2. La -OMISSIS- ha quindi ricevuto la somma totale di € 4.830.953,92, di cui € 4.354.405,96 in sorte capitale (comprensivo delle spese di funzionamento del collegio arbitrale) ed € 476.547,96 a titolo di interessi sulle varie voci, calcolati alla data dell’11 marzo 2013.

2.3. Tuttavia, una volta chiusa la gestione liquidatoria con l’approvazione del rendiconto ai sensi dell’art. 256 T.u.e.l., con nota in data 4 giugno 2018 (seguite da ulteriori note in data 14 gennaio e 7 febbraio 2020) la società, «tenuto anche conto dell’art. 248 del T.U.E.L.» , ha chiesto all’amministrazione tornata in bonis «il pagamento degli interessi moratori maturati, previsti in contratto, successivamente alla dichiarazione di dissesto» , ed avuto riscontro negativo (con note comunali in data 2 luglio 2018 e 13 febbraio 2020) da parte dell’Ente (il quale assumeva che il credito fosse stato interamente pagato e che quindi nessun ulteriore importo fosse dovuto), ha promosso il presente giudizio di ottemperanza dinanzi al Tribunale amministrativo per il Lazio-sede di Roma.

3. In particolare, la società ricorrente, sostenendo che in base alla normativa di cui all’art. 248 del d.lgs. 267/2000 dopo la dichiarazione di dissesto continuino a maturare sui debiti pecuniari degli enti dissestati interessi e rivalutazione, restandone esclusa soltanto l’opponibilità alla gestione del dissesto, per cui tali somme possono essere richieste all’Ente tornato in bonis dopo la chiusura della procedura di liquidazione, ha domandato che il Tribunale adottasse gli opportuni provvedimenti idonei ad assicurare l’esecuzione del giudicato, ordinando per l’effetto all’Amministrazione intimata di pagare alla società ricorrente le somme ivi liquidate a titolo di interessi sulla sorte capitale, maturate successivamente alla dichiarazione di dissesto del 12 marzo 2013 e sino al soddisfo, quantificate complessivamente in € 1.746.039,67 ovvero nella maggiore o minore misura dovuta, disponendo, in caso di ulteriore e persistente inottemperanza dell’ente, la nomina di un commissario ad acta.

4. Con la sentenza indicata in epigrafe, pronunciata nella resistenza del Comune, il Tribunale amministrativo ha accolto il ricorso, ordinando all’amministrazione resistente di dare « piena ed esatta esecuzione al giudicato di cui trattasi» entro i termini e con le modalità indicate, nominando, per il caso di incompleta ed esatta esecuzione, il Commissario ad acta nella persona del Capo del Dipartimento per gli Affari interni e territoriali del Ministero dell’Interno, con facoltà di delega.

4.1. A fondamento della pronuncia di accoglimento del ricorso, il giudice di primo grado ha tra l’altro statuito che in analogia al fallimento dell’imprenditore privato nel dissesto finanziario degli enti locali «la procedura di liquidazione collettiva dei debiti non osta al permanere di pretese esigibili verso il debitore in bonis senza che rilevi – nelle more della prima – l’inesigibilità temporanea del pagamento in capo a quest’ultimo che parte resistente oggi vorrebbe opporre alla pretesa della società ricorrente» .

5. Il Comune di Santa Venerina ha quindi proposto il presente appello, nel quale premette che l’onere riveniente dal pagamento degli interessi maturati sul credito in linea capitale dopo la dichiarazione del precedente dissesto - quantificati dalla -OMISSIS- nella prima richiesta di pagamento, datata 4 giugno 2018 in € 1.385.676,83, ed € 1.812.677,50 nell’ultima richiesta del 7 febbraio 2020 - è insostenibile per il proprio bilancio e che dovrebbe, pertanto, essere dichiarato un nuovo dissesto.

Nel merito l’amministrazione appellante, oltre a riproporre l’eccezione di inammissibilità del ricorso della -OMISSIS- s.r.l., per non avere questa impugnato le proprie note di riscontro negativo alle richieste di pagamento, ha sostenuto l’erroneità della decisione di prime cure, deducendo che il pagamento nella procedura di dissesto degli enti locali dell’intera sorte capitale del credito ne avrebbe determinato l’estinzione, con la conseguenza che sarebbe infondata la pretesa della società ricorrente alla corresponsione di ulteriori somme, a titolo di interessi sulla sorte capitale, maturate successivamente alla dichiarazione di dissesto.

6. Con ordinanza del 21 luglio 2021, n. 5502, la Sezione ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, in relazione agli artt. 3, 5, 81, 97, 114 e 118 della Costituzione, nei termini esposti in motivazione, sospendendo pertanto il giudizio.

7. Con sentenza n. 219 del 24 ottobre 2022 la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate da questo Consiglio di Stato con la menzionata ordinanza di rimessione, dichiarandole non fondate.

8. Le parti, in vista della camera di consiglio, hanno depositato memorie e repliche, illustrando le rispettive conclusioni.

8.1. In particolare, il Comune appellante ha ribadito che il pagamento nella procedura di dissesto degli enti locali dell’intera sorte capitale del credito ne avrebbe determinato l’estinzione, dovendo così interpretarsi, a suo avviso, la normativa di cui all’art. 248, comma 4, T.u.e.l., richiamando a sostegno di tale tesi una pronuncia di questa Sezione (Cons. Stato, V, 31 dicembre 2021, n. 8745) che riguarderebbe un’identica fattispecie.

8.2. La difesa della società originaria ricorrente ha, invece, evidenziato che la sentenza di rigetto della Corte costituzionale confermerebbe la correttezza della decisione di primo grado e l’infondatezza dell’appello proposto dal Comune;
in subordine, ha chiesto deferirsi ex art. 99 c.p.a. all’Adunanza Plenaria la questione di diritto concernente l’esigibilità nei confronti dell’ente locale tornato in bonis dei crediti maturati, anche per interessi e rivalutazione, durante la procedura di dissesto di competenza dell’organismo straordinario di liquidazione ex art. 248 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267.

9. Alla camera di consiglio del 9 marzo 2023, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Nell’odierno giudizio di ottemperanza le parti controvertono in ordine all’esatta esecuzione del lodo di cui in parte narrativa, che la società originaria ricorrente afferma essere ancora non esaustiva, rimanendo insoddisfatto il pagamento delle somme accessorie al capitale computate nel periodo di pendenza del dissesto.

2. Il Comune appellante sostiene invece che il pagamento nella procedura di dissesto dell’ente locale dell’intera sorte capitale del credito ne avrebbe determinato l’estinzione, sull’assunto secondo cui l’art. 248, comma 4, T.u.e.l., nel disporre che dalla data in cui è deliberato il dissesto dell’ente locale i debiti insoluti «non producono più interessi né sono soggetti a rivalutazione monetaria» , prevede un regime di inesigibilità temporanea degli accessori del credito non soddisfatto integralmente per sorte capitale.

1.1. Per il Comune di Santa Venerina andrebbero quindi circoscritti a questo caso i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza del 17 luglio 1998, n. 269 (resa in relazione alla normativa previgente al testo unico di cui al d.lgs. n. 267 del 2000 e in esso trasfusa), posti dalla sentenza appellata a fondamento dell’accoglimento del ricorso.

1.2. Secondo l’amministrazione appellante il pagamento del credito per l’intera sorte capitale avrebbe dunque «natura transattiva e tombale» .

1.3. A fondamento della tesi viene addotta un’interpretazione dell’art. 248, comma 4, T.u.e.l. di tipo logico-sistematico, imperniata sulla finalità della liquidazione delle passività degli enti locali all’interno della procedura di dissesto finanziario, consistente nel sollecito ripristino della loro piena funzionalità.

2. Le questioni poste dai motivi di appello, concernenti l’esatta interpretazione ed applicazione dell’art. 248, comma 4, del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, che per quanto qui rileva prevede che dalla data in cui è deliberato il dissesto «e sino all’approvazione del rendiconto di cui all’articolo 256 i debiti insoluti a tale data e le somme dovute per anticipazioni di cassa già erogate non producono più interessi né sono soggetti a rivalutazione monetaria» , vanno risolte alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 219 del 24 ottobre 2022, si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, del T.u.e.l. sollevate dal Consiglio di Stato.

3. In particolare, la menzionata ordinanza n. 5502/2021 di questa V Sezione- precisata la rilevanza delle questioni, dovendosi necessariamente applicare nel presente giudizio la citata disposizione di ordinamento degli enti locali che è a fondamento della pretesa creditoria della società appellata, e ripercorsa l’evoluzione normativa e la ratio dell’istituto del dissesto finanziario degli enti locali - ha dubitato della legittimità costituzionale della norma e del regime, ivi previsto, di “inesigibilità solo temporanea” degli accessori del credito, strumentale alla liquidazione della massa passiva dell’ente locale in dissesto, e destinato pertanto a cessare con la chiusura delle attività dell’organo straordinario di liquidazione:

- per contrasto con il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., nella misura in cui sono equiparate sul piano normativo “situazioni ontologicamente diverse, quali il dissesto finanziario degli enti locali e il fallimento dell’imprenditore privato” , compromettendo “per effetto di tale ingiustificata equiparazione l’obiettivo della stabile rimozione degli squilibri di bilancio che hanno determinato il dissesto dell’ente locale, a base dell’intervento statale, (…) per via della persistente soggezione dell’ente tornato in bonis al credito per interessi ex art. 248, comma 4, T.u.e.l. residuati dopo il pagamento da parte dell’organo straordinario di liquidazione” fino al rischio che “ad un dissesto ne seguano ulteriori” , come dedotto dal Comune appellante, e che sia così vanificato l’obiettivo primario del risanamento e del bilancio stabilmente riequilibrato dell’ente locale;

- in relazione al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., poiché la vigente disciplina sugli accessori del credito, attribuendo ai creditori degli enti locali una tutela che sembra eccessiva rispetto a un equilibrato bilanciamento delle contrapposte esigenze a base dell’istituto ( i.e. la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale, non più in grado di onorare il servizio del debito attraverso la propria capacità di autofinanziamento e quindi di svolgere le funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e, dall’altro, di tutelare i creditori), determinerebbe il rischio di dissesti in successione dell’ente locale;
sicché, oltre all’irragionevole equiparazione di trattamento di situazione differenziate e “tra loro antitetiche” , parrebbe frustrato l’obiettivo di politica legislativa “con un iper-protezione a favore del creditore a scapito della collettività di cui l’ente locale è istituzione pubblica esponenziale” ;

- per contrasto col principio dell’equilibrio di bilancio ex artt. 81 e 97, comma 1, Cost., per il rischio di generare dissesti in successione, in quanto “ a fronte di un credito per interessi che per tutto il corso della procedura continua a decorrere a tassi di mercato” l’indebitamento potrebbe consolidarsi in perpetuo e diventare “nella sostanza irredimibile” , così compromettendo il percorso dell’ente locale verso l’obiettivo primario della definitiva rimozione degli squilibri economico- finanziari che ne avevano determinato il dissesto, sino a rendere irrealizzabile “qualsiasi ragionevole progetto di risanamento, in tal modo entrando in collisione sia con il principio di equità intragenerazionale che intergenerazionale” (affermato dalla stessa Corte costituzionale nella decisione n. 18 del 2019);

- per contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97, secondo comma Cost., “per il fatto di ostacolare il ripristino della piena funzionalità dell’ente locale” , il quale, nonostante l’avvenuta liquidazione dei debiti accumulati in precedenza, rimarrebbe sempre esposto alle azioni dei creditori privati a tutela dei propri diritti;

- per lesione del principio fondamentale del pluralismo autonomista di cui all’art. 5 Cost., che postulerebbe l’esistenza necessaria dei Comuni, quali enti esponenziali delle comunità territoriali, in ragione “dell’inesauribilità delle funzioni e dei servizi pubblici loro attribuiti, quale livello di governo “di prossimità” rispetto a tali collettività, espressivo dei loro bisogni primari” , e che renderebbe una “conseguenza costituzionalmente vincolata il loro ritorno in bonis” ;

- infine, per lesione degli artt. 114 e 118 Cost. poiché il regime di inesigibilità solo temporanea degli accessori dei crediti commerciali desunto dall’art. 248, comma 4, T.u.e.l., per il possibile succedersi “a catena” di dissesti finanziari dell’ente locale, contrasterebbe con il ruolo assegnato dalla Costituzione al Comune, quale ente di governo esponenziale delle comunità locali, “radicato nell’esperienza storico-istituzionale di queste ultime, e pertanto preposto all’esercizio delle funzioni amministrative e dei servizi rispondenti ai bisogni primari della persona” .

3.1. Sulle riassunte argomentazioni l’ordinanza di rimessione ha quindi domandato alla Corte costituzionale se il principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale, da ultimo nella sentenza del 17 luglio 1998, n. 269, con cui sono state dichiarate non fondate le questioni di costituzionalità della previgente disposizione (art. 81, comma 4, del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, recante “Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali” , come modificato dall’art. 21 del “correttivo”, di cui al decreto legislativo 11 giugno 1996, n. 336), dovesse essere rivalutato, sotto il profilo della sua perdurante conformità alla Costituzione, alla luce della successiva riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, approvata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, per effetto della quale i Comuni hanno visto riconosciuta “in modo pieno la loro posizione di ente pubblico territoriale di base, esponenziale delle comunità locali, in attuazione del principio fondamentale del pluralismo autonomistico espressa dall’art. 5 Cost.” .

3.2. In conclusione, è parso al giudice rimettente che “la soluzione costituzionalmente imposta” per rimuovere tale irragionevole equiparazione di situazioni antitetiche nonché per superare le aporie così venutesi a creare sia quella di “considerare inesigibili in via definitiva e non solo temporanea gli accessori del credito nei confronti dell’ente locale” , assegnando quindi carattere estintivo al pagamento integrale del credito, per sorte capitale ed interessi maturati fino al momento dell’apertura del dissesto, da parte dell’organo straordinario di liquidazione.

4. Orbene, con la citata sentenza n. 219 del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili, ma non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), sollevate in riferimento agli artt. 3, 5, 61, 97, 114 e 118 della Costituzione.

5. Alla luce dei principi affermati dalla Corte in merito alla conformità alla Costituzione della norma di ordinamento degli enti locali di cui all’art. 248, comma 4, D.Lgs. 267/2000, l’appello del Comune di Santa Venerina è dunque infondato e deve essere respinto.

6. Preliminarmente, deve osservarsi che l’ordinanza di rimessione si è già pronunciata negativamente sull’eccezione di inammissibilità del ricorso di ottemperanza per la mancata impugnazione delle note comunali negative di riscontro, riproposta dal Comune di Santa Venerina con il primo motivo di appello.

6.1. Infatti, l’ordinanza, con motivazioni da intendersi integralmente confermate in questa sede, ha osservato che l’eccezione si fonda “sulla non condivisibile premessa per cui le sopra menzionate note di riscontro negativo delle richieste della -OMISSIS- di pagamento degli interessi ancora dovuti avrebbero natura di provvedimenti amministrativi, pertanto destinati a consolidarsi se non impugnati nel termine di decadenza ex art. 29 cod. proc. amm., e non già, come invece appare correttamente statuito dalla sentenza di primo grado, di atti riconducibili al rapporto paritetico di credito originato dal lodo arbitrale azionato nel presente giudizio di ottemperanza, emessi quindi dall’amministrazione appellante in qualità di debitore e non già di autorità in posizione di supremazia nei confronti della società creditrice” .

6.2. Infatti, nel caso in esame, la società originaria ricorrente ha agito per l’esatta esecuzione del giudicato, che è soggetta a termini di prescrizione e non di decadenza e che non radica per l’attore l’obbligo di impugnare entro questi ultimi termini eventuali dinieghi espliciti che l’Amministrazione abbia interposto alla relativa richiesta extragiudiziale;
con la conseguenza che, come bene osservato dal primo giudice, non è prospettabile un impedimento al giudizio che possa derivare dall’eventuale consolidamento dell’esplicito diniego ad adempiere che, essendo rivolto a contrastare una pretesa avente consistenza di diritto soggettivo pieno (all’esecuzione della pronuncia), non ha carattere provvedimentale, bensì paritetico (rifiuto di adempiere).

6.3. L’eccezione di inammissibilità del ricorso per ottemperanza, riproposta in questa sede dal Comune appellante, va quindi definitivamente respinta.

7. Nel merito, deve innanzitutto osservarsi che già l’ordinanza di rimessione, nell’illustrare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale della disposizione dell’ordinamento degli enti locali, a fondamento delle censure contenute nel secondo motivo di appello del Comune contro la sentenza di primo grado, di accoglimento del ricorso di ottemperanza, ha escluso di poter percorrere “l’opzione interpretativa seguita dall’ente locale appellante secondo cui l’arresto del decorso degli accessori del credito previsto dall’art. 248, comma 4, T.u.e.l. sarebbe definitivo in caso di pagamento integrale della sorte capitale nella procedura di dissesto” , in quanto, “oltre a non essere suffragata dal tenore letterale della disposizione, che fissa all’approvazione del rendiconto ex art. 256 T.u.e.l. la durata dell’effetto, l’opzione si pone in contrasto con la giurisprudenza costituzionale, espressa nella sopra citata sentenza della Corte costituzionale del 17 luglio 1998, n. 269, con cui sono state dichiarate non fondate le questioni di costituzionalità della previgente disposizione (art. 81, comma 4, del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n.77;
Ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, come modificato dall’art. 21 del “correttivo”, di cui al decreto legislativo 11 giugno 1996, n. 336)
”.

7.1. La Sezione ha, in particolare, rammentato che, con la sopra richiamata pronuncia interpretativa di rigetto, la Corte Costituzionale ha affermato che «in coerenza con le caratteristiche di una procedura concorsuale» , la disposizione relativa agli accessori del credito ha la finalità di determinare esattamente la consistenza della massa passiva da ammettere al pagamento nell’ambito del dissesto dell’ente locale, ma essa «non implica la “estinzione” dei crediti non ammessi o residui, i quali conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell’ente risanato» .

La Sezione ha poi evidenziato che la Corte costituzionale ha tratto dall’antecedente normativo dell’art. 248, comma 4, T.u.e.l. oggi vigente un regime generalizzato di inesigibilità degli accessori del credito solo temporaneo, strumentale alla liquidazione della massa passiva dell’ente locale nell’ambito della procedura di dissesto, e destinato pertanto a cessare con la chiusura dell’attività dell’organo straordinario di liquidazione, precisando altresì che «l’affermazione di principio della Corte è quindi riferibile ad ogni pretesa creditoria rimasta insoddisfatta nella liquidazione delle passività dell’ente dissestato, tanto per sorte capitale che per i relativi accessori» .

7.2. Pertanto, su queste premesse argomentative, il giudice a quo ha ritenuto che se, da un lato, l’interpretazione dell’art. 248, comma 4, T.u.e.l. data dalla Corte costituzionale con la sopra richiamata sentenza (secondo cui “la stessa disposizione comporta che ogni pretesa creditoria rimasta insoluta nella procedura di dissesto torna ad essere esigibile nei confronti dell’ente locale dissestato una volta cessato il regime di sospensione temporanea strumentale all’attività di rilevazione ed estinzione delle passività di questo, a prescindere se vi sia stato o meno l’integrale pagamento della sorte capitale” ) – interpretazione su cui si fonda dichiaratamente la richiesta di pagamento della -OMISSIS-, accolta dalla sentenza appellata nel giudizio di ottemperanza- non consentisse di ritenere superabili in via interpretativa i possibili profili di contrasto della disposizione di legge applicabile nel presente giudizio, dall’altro lato l’accoglimento delle censure contenute nel secondo motivo di appello fosse impedito de iure condito proprio dalla disposizione di ordinamento degli enti locali in questione.

7.3. La sentenza della Corte costituzionale n. 219/2022 di rigetto delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, T.u.e.l. impone di confermare i rilievi argomentativi già svolti dall’ordinanza di rimessione.

7.4. La pronuncia della Corte costituzionale ha infatti ritenuto che la menzionata disposizione dell’ordinamento degli enti locali relativa agli accessori del credito:

- non contrasta con il principio di eguaglianza, in quanto, per un verso, finalità della norma in esame è quella di determinare esattamente la consistenza della massa passiva da ammettersi al pagamento nell’ambito del dissesto dell’ente locale, senza che ciò implichi la “estinzione dei crediti” , non ammessi o residui, i quali, conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell’ente risanato (sentenza n. 269 del 1998), per altro verso, deve ritenersi, con riferimento al “blocco di rivalutazione ed interessi” , in pendenza della procedura concorsuale, che “tale meccanismo risulta finalizzato alla realizzazione della par condicio, oltre che a impedire un ulteriore deterioramento della condizione patrimoniale del debitore” : sicché, l’esigenza che le disposizioni poste a raffronto (l’art. 248, comma 4, t.u.e.l. e l’art. 154 del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza) mirano a soddisfare “afferisce specificamente alla condizione dei creditori- tanto dell’ente locale, quanto dell’imprenditore- di essere tutelati in modo analogo, ancorché l’ordinamento preveda misure atte ad assicurare la continuità delle funzioni dell’ente locale oltre il dissesto” ;

- non lede il principio di ragionevolezza, tenuto conto del fatto che la vigente disciplina sul dissesto degli enti locali contiene una serie di misure volte a consentire, da un lato, che l’organo straordinario di liquidazione gestisca il passivo pregresso, e, dall’altro lato, che il Comune continui ad esistere ed operare, con un bilancio autonomo e distinto, per cui tali norme sono “espressive di un bilanciamento non irragionevole tra l’esigenza che è alla base della sicurezza dei traffici commerciali, che si correla con l’art. 41 Cost., di tutelare i creditori e l’esigenza di ripristinare sia la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni, sia i servizi indispensabili per la comunità locale” ;

- non è costituzionalmente illegittima neanche in riferimento agli artt. 5, 81, 97, primo e secondo comma, 114 e 118 Cost, alla stregua, tra l’altro, del principio di sostenibilità economica ( ex multis , sentenze della Corte Costituzionale n. 190 del 2022, n. 62 del 2020 e n. 227 del 2019), cui sono assoggettate le norme che comportino spese, quando non siano connesse a prestazioni riconducibili a diritti fondamentali, e in base al quale “un comune, nell’assumere un impegno di spesa pluridecennale, dovrebbe prestare idonea considerazione alla relativa sostenibilità finanziaria, con l’indicazione delle risorse effettivamente disponibili, con studi di fattibilità di natura tecnica e finanziaria e con l’articolazione delle singole coperture finanziarie, a presidio della sua gestione finanziaria”.

7.5. Alla luce delle riportate coordinate ermeneutiche non possono pertanto essere condivise le argomentate considerazioni sviluppate dal Comune appellante a sostegno della infondatezza della domanda della società originaria ricorrente, secondo cui, da un lato, dovrebbero considerarsi definitivamente improduttive di interessi e non soggette a rivalutazione le somme dovute a far data dalla dichiarazione di dissesto ai sensi dell’art. 248 del d.lgs. 267/2000 e, dall’altro, il credito della ricorrente sarebbe comunque estinto e non potrebbe essere fatto valere nei confronti dell’ente risanato, essendo stato totalmente pagato con l’impiego della massa attiva nella procedura di liquidazione.

7.5.1. Infatti, al lume dei principi affermati dalla Corte costituzionale, deve escludersi che a sostegno delle tesi dell’appellante possano porsi le richiamate esigenze di stabilità di bilancio, che sarebbero asseritamente compromesse dalla differente ricostruzione accolta dalla sentenza impugnata, ovvero l’irragionevolezza della equiparazione del dissesto degli enti locali alle procedure liquidatorie di natura commerciale e, in particolare, alla disciplina sul fallimento privatistico: irragionevolezza che, come diffusamente illustrato nell’ordinanza di rimessione, il Comune appellante fonda, da un lato, sulla certezza del pagamento degli importi dovuti, grazie alla previsione dell’intervento statale per la copertura del disavanzo dell’ente locale (previsione invece inesistente nel fallimento privatistico), dall’altro sulle primarie e fondamenti esigenze di sopravvivenza dell’ente locale e dell’esercizio delle funzioni pubbliche affidategli (cui contrappone, viceversa, la totale irrilevanza della sorte dell’imprenditore nelle procedure concorsuali).

7.6. Per converso, come statuito dalla Corte Costituzionale, benché con la separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, il dissesto abbia assunto una fisionomia che lo avvicina al fallimento dell’impresa, la normativa, complessivamente considerata, include anche dei correttivi, “a tutela sia dell’ente locale- che deve continuare ad esistere- sia dei creditori, che possono contare sul contributo a carico dello Stato (in tal senso, anche Consiglio di Stato, adunanza plenaria 12 gennaio 2022, n. 11) ”.

7.6.1. In proposito deve invero rammentarsi che anche l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, nel delineare la natura giuridica e le finalità del dissesto degli enti locali, il quale nel tempo ha assunto una “fisionomia analoga al fallimento privatistico” , con un processo di omologazione accentuatosi con i successivi interventi normativi (realizzati con il citato d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77 “Ordinamento finanziario e contabile degli enti local i” e il relativo decreto correttivo), ha ritenuto “che le caratteristiche del procedimento di dissesto siano espressive di un equilibrato e razionale bilanciamento, a livello normativo, con la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale e, dall’altro lato, di tutelare i creditori” .

7.6.2. In tal senso, anche il rischio paventato dal Comune di andare incontro a ulteriori ripetuti dissesti a causa dei debiti residui fatti valere dai propri creditori della procedura liquidatoria, in disparte quanto eccepito dalla società appellata sul difetto di prova della congettura, non conduce a differenti conclusioni poiché, come chiarito dalla Corte costituzionale, la possibile nuova dichiarazione di dissesto a cui il Comune sarebbe esposto “ non è imputabile alla norma censurata, ma rappresenta piuttosto un inconveniente di fatto, inidoneo, da solo, a fondare un profilo di legittimità costituzionale ”.

7.6.3. A tale specifico riguardo la Corte, nel ribadire che il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione rappresenta un “obiettivo prioritario” anche per la stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, il quale viene intrinsecamente minato dalla presenza di situazioni debitorie non onorate tempestivamente (sentenza Corte Costituzionale, n. 78 del 2020), ha anche precisato che il possibile innesco di una serie di dissesti “a catena” , con le negative ricadute sul raggiungimento dell’equilibrio di bilancio e della piena funzionalità dell’ente locale, in coerenza con il ruolo assegnato al comune dalla Costituzione, non è la conseguenza diretta della norma di cui all’art. 248, comma 4, T.u.e.l., ma è attribuibile a scelte amministrative dell’ente, “il quale- nella pendenza della procedura di dissesto- avrebbe dovuto apprestare misure anche contabili, idonee a garantire il più rapido ripristino dell’equilibrio finanziario (art. 259 e seguenti t.u. enti locali)” .

7.6.4. Vengono dunque in rilievo mere conseguenze applicative che sono frutto non della irragionevolezza della norma in discussione o del sistema normativo, bensì delle scelte amministrative dell’ente locale che lo hanno condotto a una condizione deficitaria estrema, determinandone il dissesto.

7.7. Pertanto, alla luce dei principi della giurisprudenza costituzionale, come da ultimo riaffermati con la pronuncia n. 219 del 2022, deve concludersi che, a seguito della chiusura della procedura di dissesto degli enti locali, le pretese creditorie rimaste insolute tornano ad essere esigibili nei confronti dell’ente locale, per effetto del venir meno del regime di sospensione temporanea strumentale all’attività di rilevazione ed estinzione delle passività dell’ente stesso.

7.7.1. In coerenza con tali principi, la chiusura della procedura di dissesto degli enti locali non determina, quindi, l’estinzione dei crediti rimasti insoddisfatti nel corso della procedura e conseguentemente i creditori possono ottenere dall’Ente tornato in bonis il pagamento sia delle somme a titolo di capitale rimaste insolute, sia degli interessi maturati e non pagati prima della dichiarazione di dissesto, sia- infine- degli interessi maturati nel corso della procedura di dissesto.

7.7.2. Infatti, in base all’interpretazione in questi termini dell’art. 248, comma 4, citato, ribadita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 219/2022, la disposizione relativa agli accessori del credito ha la finalità di determinare esattamente la consistenza della massa passiva da ammettere al pagamento nell’ambito del dissesto dell’ente locale, ma essa non implica la estinzione dei crediti non ammessi o residui, i quali, conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell’ente risanato.

7.7.3. Con la conseguenza che si confermano corrette le tesi della società appellata secondo cui la norma di cui all’art. 248, comma 4, T.u.e.l. ha carattere meramente sospensivo e non preclude all’interessato, una volta esaurita la gestione straordinaria con la fine della procedura di dissesto, di riattivarsi per la corresponsione delle stesse poste nei confronti dell’ente risanato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 maggio 2020, n. 3338). La norma di cui all’art. 248, comma 4, T.u.e.l. non esclude, infatti, il maturare sia della rivalutazione che degli interessi anche durante il periodo in cui la procedura di liquidazione ha avuto corso e i relativi diritti possono essere azionati nei confronti dell’ente dopo la cessazione dello stato di dissesto (Cons. Stato, V, 23 giugno 2014, n. 3131). Il creditore può dunque domandare all’ente locale tornato in bonis non solo il pagamento della residua somma ammessa al passivo, ma anche gli interessi sul credito per sorte capitale ammesso, come ordinariamente prodottisi durante il tempo della procedura (cfr. in termini con riguardo alla procedura di fallimento Cass. Civ. Sez. I, 12 maggio 2021, n. 12560).

7.7.4. La società creditrice, la quale ha chiesto e ottenuto il pagamento all’organo straordinario di liquidazione, ha dunque diritto agli interessi maturati durante la procedura di dissesto, dopo la sua dichiarazione e fino all’effettivo pagamento: la norma relativa agli accessori sul credito deve essere infatti interpretata nel senso che essa non impedisce né il maturare della rivalutazione né quello degli interessi né l’accertamento e la liquidazione dei relativi diritti, i quali però potranno essere fatti valere esecutivamente dal creditore nei confronti del Comune solo quando questo sia tornato in bonis (così Cass. civ., Sez. I, 22 gennaio 2010, n. 1097).

7.7.5. Vanno, pertanto, interamente confermate le statuizioni della sentenza di primo grado, di accoglimento del ricorso per ottemperanza proposto dalla società -OMISSIS-, secondo cui:

- la normativa che dispone il blocco della rivalutazione monetaria e degli interessi in relazione ai debiti degli enti locali in stato di dissesto finanziario, di cui all'art. 21 d.l. 18 gennaio 1993 n. 8, conv. con modificazioni dalla l. 19 marzo 1993 n. 68 (ora trasfuso nell'art. 248, d.lg. n. 267 del 2000) deve essere interpretata nel senso che anche dopo la dichiarazione di dissesto continuano a maturare sui debiti pecuniari degli enti dissestati interessi e rivalutazione, restando soltanto escluse l'opponibilità alla procedura di liquidazione e l'ammissione, alla massa passiva, degli interessi e della rivalutazione maturati successivamente alla dichiarazione di dissesto e fino all'approvazione dell'apposito rendiconto;

- la citata disposizione, secondo cui i debiti insoluti alla data di dichiarazione del dissesto finanziario dell'Ente locale non producono interessi, né rivalutazione monetaria, ha carattere meramente sospensivo e non preclude all'interessato - una volta esaurita la gestione straordinaria con la cessazione della fase di dissesto - di riattivarsi per la corresponsione delle poste stesse nei confronti dell'Ente risanato;

- l’inquadramento sistematico della fattispecie – per come interpretata dalla giurisprudenza sin dalla sentenza della Corte Costituzionale nr. 269/1998 – è strutturalmente coerente con il sistema che governa il pagamento dei crediti fallimentari, per i quali la giurisprudenza ritiene che la sospensione del decorso degli interessi vale solo all'interno del concorso e non si estende anche ai singoli rapporti correnti tra ciascun creditore ed il fallito;

- il giudice che pronuncia sentenza di condanna di un ente dissestato al pagamento di una somma di denaro deve quindi riconoscere gli interessi e la rivalutazione in relazione al periodo successivo alla dichiarazione di dissesto, non potendo la giusta pretesa del ricorrente (o attore) vittorioso in un procedimento giurisdizionale conclusosi con sentenza passata in cosa giudicata esser svilita, nella proponibilità dell'azione esecutiva, dal provvedimento con il quale è stato dichiarato il dissesto, che semmai può solo giustificare, in ragione delle norme di settore vigenti, una tardiva acquisizione del bene della vita riconosciuto con la sentenza da eseguirsi (nella specie il pagamento di somme), ritardata nel tempo dalla necessaria conclusione della procedura di ricognizione debitoria da parte del commissario straordinario;

- in tale prospettiva, il giudizio di ottemperanza costituisce, quale procedimento di esecuzione dinanzi al giudice amministrativo, in caso di dichiarazione del dissesto finanziario, lo strumento attraverso il quale il creditore cristallizza la propria pretesa in attesa che il relativo credito sia inserito nella massa passiva e quindi nel bilancio relativo al piano di rientro, di modo che all'esito di tale fase possa conseguire, integro per effetto della non interrotta maturazione degli interessi, il proprio obiettivo satisfattorio che trova titolo nella sentenza giurisdizionale passata in giudicato;

- pertanto, quando, come nel caso di specie, per qualsivoglia ragione, un credito scaturente da una pronuncia passata in cosa giudicata venga incluso solo parzialmente (quanto al capitale o agli accessori) nel piano di estinzione dei debiti definitivamente approvato, la rimanenza transita a carico dell’Ente tornato “in bonis” , che dovrà farvi fronte o con residui attivi della gestione liquidatoria, ove sussistenti e disponibili, oppure con le risorse del bilancio riequilibrato, e comunque sempre nel rispetto dell’art. 159 del Decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267, applicabile alla fattispecie;

- deve parimenti escludersi che siano esigibili dall’Ente in bonis solo le somme residue da pagamenti “parziali” in rapporto al capitale dovuto a carico del dissesto: al contrario, anche il mancato pagamento degli accessori sul capitale (maturati, logicamente, fino alla data di pagamento di quest’ultimo), è obbligazione che trova titolo nel giudicato e che dunque va onorata;

- quanto alla non imputabilità all’Amministrazione comunale del decorso del tempo collegato al “ritardo” o all’indugio nel pagamento del dovuto da parte dell’organo straordinario di liquidazione, resta ferma comunque l’imputabilità del debito nella sua interezza all’ente locale, per cui non è possibile riconoscere al bilancio riequilibrato quella impermeabilità ai crediti non soddisfatti che la tesi dell’Ente implicherebbe, consentendo così di pervenire ad una estinzione di fatto delle poste “sopravvissute” al dissesto, non esigibili né dalla relativa gestione (che ha concluso il mandato), né dall’amministrazione con il bilancio riequilibrato (che non ne risponderebbe), con una sostanziale violazione del principio di integrale esecuzione del giudicato e di quelli annessi (l’effettività della tutela giurisdizionale e l’effettività della tutela del credito) a fronte di una condizione di responsabilità dell’Ente comunale per fattispecie di cattiva o negligente gestione;

- l’esatto calcolo del dovuto è assorbito nell’ordine di adempimento al giudicato, che implica, quale primo obbligo, quello di verificare l’esattezza delle somme azionate;
il relativo parametro di calcolo è contenuto nel lodo, dovendo il Comune, nel contraddittorio con la società originaria ricorrente, provvedere a riscontrare il giusto ammontare delle somme ancora dovute (da calcolarsi sino alla data di pagamento del capitale, avvenuta il 28 gennaio 2018 e sull’importo di quest’ultimo, con esclusione degli interessi maturati al 12 marzo 2013).

7.8. In conclusione, deve ritenersi che gli accessori del credito maturano anche successivamente all’apertura della procedura, essendo soltanto non opponibili ed esclusi dalla ammissione alla massa passiva, e che rimanga integra, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 248, comma 4, T.u.e.l., la facoltà del creditore di esercitare tali diritti nei confronti del Comune, una volta cessato lo stato di dissesto ed esaurita la procedura di gestione straordinaria (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 4 febbraio 2022, n. 794).

7.9. Infine si osserva che non può condurre a diversi esiti, come sostiene il Comune appellante, la sentenza di cui a Cons. Stato, V, 31 dicembre 2021, n. 8745, trattandosi di richiamo non decisivo: infatti, diversamente da quanto assumono per le parti, ad un’attenta lettura, tale decisione, peraltro anteriore alla pronuncia della Corte costituzionale n. 219/2022, non mette in dubbio gli orientamenti della giurisprudenza, affermando anzi espressamente che: “Non è dunque in discussione che l’art. 248 TUEL, in base a un’interpretazione costituzionalmente orientata e alla luce delle coordinate ermeneutiche delineate dalla Corte Costituzionale, consenta al creditore di richiedere all’ente locale tornato in bonis di recuperare l’eventuale residuo credito ove non soddisfatto integralmente dalla gestione liquidatoria, in uno agli interessi maturati nel periodo di dissesto, ma temporalmente inesigibili per legge” .

7.9.1. Tuttavia, in quel caso, confermando la decisione di primo grado (T.a.r. Lazio, 10039/2019 che aveva respinto l’assunto della ricorrente che residuasse un ulteriore credito per la sorte capitale), si è ritenuta infondata la pretesa azionata nei confronti dell’ente locale, tornato in bonis concluse le operazioni della procedura di dissesto, sull’assorbente rilievo per cui la società creditrice aveva in realtà ricevuto i pagamenti dell’intera somma dovuta, inclusi interessi, a saldo di ogni spettanza e senza contestazione, da parte dell’organo straordinario nell’ambito della procedura liquidatoria, sicché nella fattispecie decisa dal richiamato precedente non residuava in effetti alcun credito a carico del Comune.

7.9.2. In definitiva, la sentenza richiamata dal Comune, senza rinnegare, dunque, i principi affermati dalla giurisprudenza con riguardo alla “inesigibilità sola temporanea” degli accessori durante la fase di dissesto e la possibilità di richiederli all’ente debitore tornato in bonis , si è limitata a respingere l’appello sulla base del mero rilievo fattuale per cui non residuavano crediti insoddisfatti, in quanto tutto era stato pagato dalla gestione commissariale, sia per sorte capitale che per interessi dovuti dall’ente.

8. In conclusione, l’appello del Comune è infondato, a ciò conseguendo l’integrale conferma delle statuizioni della sentenza di primo grado di accoglimento del ricorso per ottemperanza del lodo sopra specificato proposto dalla società -OMISSIS-

9. Le spese di giudizio tra le parti devono compensarsi, sussistendone giusti motivi in considerazione della complessità e parziale novità delle questioni trattate, ad eccezione di quanto previsto in dispositivo per le competenze e i rimborsi del Commissario ad acta, già nominato dal Tribunale amministrativo.

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