Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-05-22, n. 201202974

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-05-22, n. 201202974
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201202974
Data del deposito : 22 maggio 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05552/2011 REG.RIC.

N. 02974/2012REG.PROV.COLL.

N. 05552/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5552 del 2011, proposto da:
De Vizia Transfer Spa, rappresentata e difesa dagli avv. S S, X S, con domicilio eletto presso S S in Roma, via Antonio Bertoloni n..44/46;

contro

Presidenza del Consiglio dei Ministri, Sottosegretario di Stato per l'emergenza rifiuti, rappresentati e difesi dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Società A2a S.p.A.;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 03961/2011, resa tra le parti, concernente PROCEDURA RELATIVA AL COMPLETAMENTO E GESTIONE DEL TERMOVALORIZZATORE DI ACERRA. RISARCIMENTO DANNI.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Sottosegretario di Stato per l'emergenza rifiuti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2012 il Cons. O F e uditi per le parti gli avvocati Pietro Bonanni in sostituzione di S S e Luca Ventrella (avv.St.);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con l’appello in esame, la società De Vizia Transfer impugna la sentenza 9 maggio 2011 n. 3961, con la quale il TAR per il Lazio, sez. I, ha respinto il suo ricorso proposto:

- per un verso, per l’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi, ex art. 25 l. n. 241/1990 ed il conseguente annullamento della nota 3 novembre 2008 n. 0019777 (di diniego di accesso ai documenti della procedura di affidamento del servizio di gestione del termovalorizzatore di Acerra e dell’impianto di selezione e trattamento dei rifiuti di Caivano;

- per altro verso, per l’annullamento di tutti gli atti relativi alle suddette procedure di affidamento, dei bandi di gara, degli atti di aggiudicazione degli appalti e dei conseguenti contratti nel frattempo sottoscritti.

La sentenza appellata afferma:

- per il fatto che, in data 2 ottobre 2008 la società De Vizia chiedeva l’accesso a tutti gli atti e documenti della procedura di gara per il completamento e la gestione del termovalorizzatore di Acerra – sul presupposto della notizia di pubblico dominio dell’intervenuto affidamento alla soc. 2A2 di Brescia – occorre “dare atto della tardività dell’impugnativa . . . nella parte in cui si sottopone a critica . . . la procedura di affidamento in questione”, posto che il ricorso è stato notificato solo in data 3 dicembre 2008, e cioè 62 giorni dopo il giorno fissato come quello di comprovata piena conoscenza;

- quanto al contestato diniego di accesso, non avendo la società De Vizia preso parte alla gara, “non può in capo ad essa ravvisarsi la piena posizione legittimante al fine di sollecitare l’accesso documentale agli atti della procedura stessa”;
peraltro, stante la dichiarata tardività del ricorso, “la manifestazione di interesse alla conoscenza degli atti della procedura . . . non si dimostra accompagnata dalla necessaria – quanto complementare – attualità dell’interesse sostanziale del quale la parte medesima assume di essere portatrice”.

Avverso tale sentenza, vengono proposti i seguenti motivi di appello:

a) error in iudicando;
violazione e falsa applicazione art. 21, co. 1, in combinato disposto con l’art. 23 – bis, co. 1 e 2, l. n. 1934/1971;
travisamento dei fatti;
ciò in quanto la appellante, al momento di presentazione dell’istanza di accesso, non aveva avuto piena conoscenza dell’atto impugnato, trattandosi solo di presunzioni ricavate da meri articoli di stampa;

b) error in iudicando;
violazione e falsa applicazione degli artt. 30, co. 3, e 34, co. 2, c.p.a.;
poiché il TAR ha omesso di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria, da ritenersi proposta tempestivamente;

c) error in iudicando;
violazione e falsa applicazione artt. 22 e 25 l. n. 241/1990;
poiché “dimostrata la tempestività dell’impugnazione degli atti della procedura di gara, è palese come vi sia un interesse attuale a prevedere visione dei documenti proprio perché si chiede di entrare in possesso delle informazioni che si rendono necessarie per tutelare la posizione giuridica soggettiva azionata”;
peraltro, non è vero “che in tema di procedure concorsuali, la legittimazione e l’interesse all’accesso si acquisiscono esclusivamente per effetto ed in conseguenza della partecipazione alla gara. Infatti, laddove sono le modalità di indizione della procedura concorsuale a ledere direttamente la posizione di un’aspirante partecipante, impedendo di prendere parte alla gara, l’impresa direttamente esclusa avrà un interesse personale e diretto ad impugnare l’atto lesivo e a fortiori ad avere accesso alla relativa documentazione;

d) error in iudicando;
contraddittorietà;
poiché il giudice di primo grado dapprima asserisce “che l’interesse all’accesso ben potrebbe assumere rilevanza a fini risarcitori, per poi non pronunciarsi sulla domanda risarcitoria e dichiarare la carenza di interesse sull’istanza conoscitiva, derivata dalla pretesa tardività dell’impugnazione”.

L’appellante ripropone, inoltre, i motivi di cui al ricorso introduttivo (pagg. 18 – 35), proponendo altresì sia questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18 d.l. n. 90/2008, dell’art. 2 del medesimo d. l., sia questione pregiudiziale di compatibilità comunitaria del citato art. 18.

Si sono costituiti in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Sottosegretario di Stato per l’emergenza rifiuti, che hanno concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza appellata.

Questo Consiglio di Stato non può che confermare, in primo luogo, quanto affermato dalla sentenza appellata, con riferimento alla tardività del ricorso, in quanto proposto avverso gli atti della procedura di gara.

Giova ricordare che, ai sensi dell’art. 21, primo comma, l. n. 1034/1971, applicabile ratione temporis, “il ricorso deve essere notificato tanto all'organo che ha emesso l'atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi, entro il termine di sessanta giorni da quello in cui l'interessato ne abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, o, per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione, se questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento, salvo l'obbligo di integrare le notifiche con le ulteriori notifiche agli altri controinteressati, che siano ordinate dal tribunale amministrativo regionale”.

Attualmente, l’art. 41 Cpa, (co. 2) prevede che “qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l'atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell'atto stesso entro il termine previsto dalla legge, decorrente dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.”.

Il successivo art. 43, co. 1, Cpa prevede inoltre che “i ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte. Ai motivi aggiunti si applica la disciplina prevista per il ricorso, ivi compresa quella relativa ai termini”.

Quanto al concetto di “piena conoscenza” dell’atto lesivo, lo stesso, anche con riferimento alla previgente disciplina, non deve essere inteso quale “conoscenza piena ed integrale” dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.

Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” - il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale - è la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.

Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.

In tali sensi, è rilevante osservare che l’ordinamento prevede l’istituto dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta.

La previsione dell’istituto dei motivi aggiunti (nella formulazione dei medesimi anteriore al nuovo e distinto ricorso per motivi aggiunti, poi introdotto dalla l. n. 205/2000) comprova la fondatezza dell’interpretazione resa della “piena conoscenza” dell’atto oggetto di impugnazione.

Ed infatti, se tale “piena conoscenza” dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale, ricorrendone l’esperibilità (forse) solo nel caso di atto endoprocedimentale completamente ignoto all’atto di proposizione del ricorso introduttivo del giudizio. Se ciò fosse, il termine decadenziale dovrebbe decorrere una sola volta, individuando come dies a quo, appunto, il giorno di “integrale” conoscenza di tutti gli atti lesivi.

In altre parole, solo l’assenza dell’istituto dei motivi aggiunti consentirebbe di interpretare la “piena conoscenza” come conoscenza integrale dell’atto impugnabile e degli atti endoprocedimentali ad esso preordinati, poiché in questo (ipotetico) caso si produrrebbe – diversamente opinando - un vulnus per il diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto il soggetto che si reputa leso dall’atto si troverebbe compresso tra un termine decadenziale che corre ed una impossibilità di conoscenza integrale dell’atto, e quindi di completa e consapevole articolazione di una linea difensiva.

Al contrario, la previsione dei cd. motivi aggiunti comprova ex se che la “piena conoscenza”, indicata dal legislatore come determinatrice del dies a quo della decorrenza del termine di proposizione del ricorso giurisdizionale, non può che essere intesa se non come quella che consenta all’interessato di percepire la lesività dell’atto emanato dall’amministrazione e che, quindi, rende pienamente ammissibile – quanto alla sussistenza dell’interesse ad agire - l’azione in sede giurisdizionale.

Ogni aspetto attinente al contenuto del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, ritenuto lesivo, ovvero di atti endoprocedimentali ritenuti illegittimi, incide su profili di legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, e quindi sui presupposti argomentativi della domanda di annullamento.

Ma, come si è detto, la possibilità di sottoporre al giudice ulteriori motivi di doglianza, sui quali fondare e/o rafforzare la domanda di annullamento, non è preclusa dall’ordinamento, proprio per il tramite della previsione dei citati motivi aggiunti.

Tale soluzione prescelta dal legislatore rende compatibili:

- da un lato, il diritto alla effettività ed immediatezza della tutela giurisdizionale, consentendo un immediato “contatto” tra il soggetto che si ritiene leso dall’atto di esercizio del potere amministrativo ed il giudice, per il tramite di una tempestiva proposizione del ricorso e dell’eventuale domanda cautelare. Peraltro, occorre ricordare che in tal modo può essere chiesto al giudice di ordinare all’amministrazione il deposito di ulteriori atti del procedimento (proprio dalla conoscenza dei quali può scaturire l’esigenza di proporre motivi aggiunti), consentendosi in tal modo di integrare, come si è sopra esposto, la domanda originariamente proposta, laddove emergano nuovi profili di (asserita) illegittimità, e quindi di conseguente doglianza;

- dall’altro, l’interesse pubblico alla certezza e stabilizzazione delle situazioni giuridiche come conformate dall’esercizio di potere amministrativo, funzionalizzato appunto alla cura dell’interesse pubblico.

Proprio per queste ragioni, la soluzione prescelta dall’ordinamento risulta pienamente coerente con le esigenze espresse dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ed in particolare dal suo art. 6, in base al quale “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole”, e dal suo art. 13, in base al quale “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati ha diritto ad un ricorso effettivo innanzi ad una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

Quanto sin qui esposto costituisce un dato acquisito della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (ex plurimis, sez. III, 19 settembre 2011 n. 5268;
sez. VI, 31 marzo 2011 n. 2006;
sez. VI, 28 aprile 2010 n. 2439;
sez. IV, 19 luglio 2007 n. 4072 e 29 luglio 2008 n. 3750).

Occorre aggiungere, a quanto sin qui esposto, che la verifica della “piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni ovvero su deduzioni, pur sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche. Essa deve risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo potere di verifica di ufficio della eventuale irricevibilità del ricorso, o che devono essere rigorosamente indicati dalla parte che, in giudizio, eccepisca l’irricevibilità del ricorso instaurativo del giudizio.

Nel caso di specie, la sentenza appellata ha con rigore ricostruito, sulla base dei dati emergenti dagli atti, il momento nel quale si è determinata la “piena conoscenza” degli atti impugnabili (e successivamente – ma tardivamente - impugnati)

Il primo giudice, infatti, ha correttamente desunto dalle istanze 28 luglio 2008 e 2 ottobre 2008 la conoscenza da parte della odierna appellante sia della esistenza di una procedura di gara già avviata, con apertura delle buste contenenti le offerte in giorno successivo a quello della prima delle due istanze indicate;
sia del completamento della procedura con affidamento alla società 2A2 di Brescia a seguito della intervenuta aggiudicazione della gara di appalto.

Alla luce dei principi sopra esposti, occorre quindi concludere per la tardività del ricorso giurisdizionale proposto in I grado, con riferimento ad una piena conoscenza degli atti impugnabili quanto meno a far data dal 2 ottobre 2008, così confermando quanto sul punto statuito dalla sentenza appellata.


3. Altrettanto infondato deve essere considerato il secondo motivo di appello, con il quale, in sostanza, nel lamentare che il TAR ha omesso di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria, da ritenersi proposta tempestivamente, l’appellante ripropone nella presente sede detta domanda, effettivamente non considerata dal primo giudice, e quindi da valutarsi ora per la prima volta.

La società De Vizia chiede, in sostanza, il risarcimento del pregiudizio subito per effetto della mancata partecipazione alla procedura di affidamento del servizio di gestione del termovalorizzatore di Acerra, “pur possedendo le capacità tecnico – organizzative necessarie”. Essa chiede, quindi, “una pronuncia risarcitoria conseguente alla perdita di chance derivante dalla mancata partecipazione alla gara, con ammontare del risarcimento del danno da determinarsi in via equitativa” (pag. 36 appello).

Questo Collegio rileva che, come ha di recente affermato la Corte di Cassazione (Sez. Un., 23 marzo 2011 n. 6594), “la giurisdizione amministrativa è dunque ordinata ad apprestare tutela - cautelare, cognitoria ed esecutiva - contro l'agire della pubblica amministrazione, manifestazione di poteri pubblici, quale si è concretato nei confronti della parte, che in conseguenza del modo in cui il potere è stato esercitato ha visto illegittimamente impedita la realizzazione del proprio interesse sostanziale o la sua fruizione.

Dei poteri che al giudice amministrativo è stato dato di esercitare per la tutela degli interessi sacrificati dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione, dal D.Lgs. n. 80 del 1998, in poi, ha iniziato a far parte anche il potere di condanna al risarcimento del danno, in forma di completamento o sostitutiva: risarcimento che è perciò volto a contribuire ad elidere le conseguenze di quell'esercizio del potere che si è risolto in sacrificio illegittimo dell'interesse sostanziale del destinatario dell'atto”.

Sempre secondo la Suprema Corte:

“la attrazione della tutela risarcitoria nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo può verificarsi esclusivamente qualora il danno, patito dal soggetto che ha proceduto alla impugnazione dell'atto, sia conseguenza immediata e diretta (art. 1223 c.c.) della illegittimità dell'atto impugnato;
pertanto, qualora si tratti di atto o provvedimento rispetto al quale l'interesse tutelabile è quello pretensivo, il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo, perché vittima di danno ricollegabile con nesso di causalità immediato e diretto al provvedimento impugnato, è colui che si è visto, a seguito di una fondata richiesta, ingiustamente negare o adottare con ritardo il provvedimento amministrativo richiesto;
qualora si tratti di atto o provvedimento amministrativo rispetto al quale l'interesse tutelabile si configura come oppositivo, il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo è soltanto colui che è portatore dell’interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio, che vengono direttamente pregiudicati dall'atto o provvedimento amministrativo contro il quale ha proposto ricorso. Soltanto in queste situazioni la tutela risarcitoria si pone come tutela consequenziale e comporta, quindi, la concentrazione della fase del controllo di legittimità dell'azione amministrativa e quella della riparazione per equivalente, ossia il risarcimento del danno, dinanzi all'unico giudice amministrativo”.

Anche in coerenza con quanto affermato dalla Corte di Cassazione, questo Consiglio di Stato deve rilevare che, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., il danno è risarcibile soltanto laddove esso consiste in un danno/evento ingiusto, tale essendo quello consistente nella lesione di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, che fonda la sussistenza di una posizione soggettiva.

Deve trattarsi di un danno che presuppone la titolarità di un interesse apprezzabile, differenziato, giuridicamente rilevante e meritevole di tutela e che inerisce al contenuto stesso della posizione sostanziale.

Tale danno ingiusto deve essere inoltre ricollegabile, con nesso di causalità immediato e diretto, al provvedimento impugnato, e, nel caso in cui la posizione di interesse legittimo appartenga alla species del cd. interesse pretensivo, esso deve concernere l’ingiusto diniego o la ritardata emanazione di un provvedimento amministrativo richiesto.

Secondo questo Consiglio di Stato (sez. V, 2 febbraio 2008 n. 490) “il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile” e ciò è quello che “distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile”.

In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento del danno cd. “da perdita di chance” a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l’atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una “eventualità” di conseguimento del bene della vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall’annullamento e dalle sue conseguenze (in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 3 agosto 2004 n. 5440;
sez. V, 25 febbraio 2003 n. 1014;
sez. VI, 23 luglio 2009 n. 4628;
Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2007 n. 15947).

In ogni caso, non si è ritenuto configurabile un danno risarcibile per equivalente, allorché, per effetto dell’annullamento del provvedimento amministrativo (nel caso considerato, aggiudicazione), vi sia ripetizione della attività amministrativa, e quindi il ripristino della chance del concorrente (Cons. Stato, sez. V, 28 agosto 2009 n. 5105).

In definitiva, può affermarsi che, nelle ipotesi di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, la prova dell’esistenza del medesimo interviene in base ad una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua “certezza”, la quale presuppone:

- l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale della quale possa assumersi essere intervenuta una lesione;
e, laddove vi sia esercizio di potere, tale posizione sostanziale è l’interesse legittimo;

- quindi, l’esistenza di una lesione, che sussiste sia laddove questo possa essere a tutta evidenza e concretamente riscontrato, sia laddove vi sia “una rilevante probabilità del risultato utile” frustrata dall’agire illegittimo dell’amministrazione.

Quanto a questo secondo aspetto, l’esame della sussistenza del danno da perdita di chance interviene:

- o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori (ad esempio, con riferimento alle gare d’appalto, si è in presenza di un contratto eseguito o in esecuzione, che avrebbe dovuto essere certamente eseguito da una diversa impresa partecipante alla gara, in luogo di quella beneficiaria di aggiudicazione illegittima);

- o attraverso una articolazione di argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza;

- ovvero ancora attraverso un processo deduttivo secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del c.d. “più probabile che non” (Cass. civ., n. 22022/2010), e cioè “alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali” (Cass., sez. III civ., n. 22837/2010).

Nel caso dei procedimenti di gara o di concorso, la posizione giuridica sostanziale del partecipante assurge sicuramente ad interesse legittimo (pretensivo) con riferimento all’ammissione a partecipare al procedimento, ovvero in relazione ad una valutazione delle prove svolte o dell’offerta presentata immune da vizi di legittimità.

Tali situazioni giuridiche, tuttavia, possono ricevere tutela - sol che il titolare la richieda onerandosi del rispetto delle norme procedurali previste - eminentemente sul piano ripristinatorio, mediante annullamento del provvedimento illegittimo e, prima ancora, mediante l’adozione di provvedimenti cautelari da parte del giudice.

Ciò in quanto, nell’interesse legittimo pretensivo, l’oggetto della posizione, tale da definirne il contenuto sostanziale (nel cd. lato interno della relazione), non è un “bene” già esistente nel patrimonio giuridico del titolare, bensì la stessa possibilità di conseguimento di un’utilitas per il tramite dell’esercizio del potere amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 3 agosto 2011 n. 4644).

E’ del tutto evidente che l’illegittimo esercizio del potere comporta un “vulnus” per la posizione giuridica di interesse legittimo. Ma tale vulnus – afferendo, in tutta evidenza, ad una situazione dinamica di possibilità di conseguimento di una utilitas – non può che ricevere riparazione se non per il tramite di una tutela del tipo ripristinatorio, per mezzo, cioè, dell’annullamento dell’atto, che consente il riesercizio del potere amministrativo, e quindi il ristabilirsi della “chance di conseguimento dell’utilità finale”.

E ciò con la sola eccezione – come affermano le stesse Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 6594/2011 cit.;
ma in tal senso già la sent. n. 500/1999) – di ipotesi di istanze obiettivamente fondate, tali definibili sulla base della situazione concreta dell’istante, dell’assetto normativo applicabile al caso di specie, e del concreto modus agendi, in ipotesi analoghe, della Pubblica Amministrazione.

A maggior ragione, il mero interesse procedimentale, l’interesse alla correttezza della complessiva gestione del procedimento da parte dell’amministrazione secondo le regole che lo governano, si pone come situazione meramente strumentale alla tutela di una posizione di interesse legittimo. Pertanto, esso non solo non è risarcibile in sé (in quanto, diversamente opinando, si costruirebbe l’interesse legittimo come generica pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa), ma rifluisce nella più generale considerazione dell’interesse legittimo pretensivo (al quale è strumentale), e degli strumenti di tutela per questo esperibili.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, la domanda di risarcimento del danno proposta dalla De Vizia – in disparte ogni ulteriore considerazione in ordine al difetto di prova sia di un concreto pregiudizio subito sia della quantificazione del medesimo – deve essere rigettata, proprio perché essa, afferendo ad un prospettato danno da presunta perdita di chance da mancato invito alla partecipazione alla gara, non integra gli estremi della chance risarcibile.

Al contrario, ciò che si prospetta è una mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale “irrisarcibile”, ma tutelabile solo (ed eventualmente) sul piano ripristinatorio.

Per le ragioni esposte, il motivo di appello concernente la domanda di risarcimento del danno deve essere rigettato.


4. Anche i motivi sub c) e d) dell’esposizione in fatto – riferiti, in sostanza, al diniego di accesso ai documenti amministrativi - sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.

L’art. 22 della legge 7 agosto 1990 n. 241, nel testo introdotto dalla l. n. 15/2005, afferma che per diritto di accesso si intende “il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” (co. 1, lett. a), intendendosi per “interessati”, “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso” (co. 1, lett. b).

Il successivo co. 2 (nel testo introdotto dalla l. n. 69/2009), afferma che “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza”.

Come è noto, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato (dec. 18 aprile 2006 n. 6), ha qualificato il “diritto di accesso” come una situazione soggettiva che, più che fornire utilità finali (caratteristica da riconoscere, oramai, non solo ai diritti soggettivi ma anche agli interessi legittimi), risulta caratterizzata per il fatto di offrire al titolare dell'interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi)”.

Sempre secondo l’Adunanza Plenaria, “il carattere essenzialmente strumentale” di tale posizione “si riflette inevitabilmente sulla relativa azione, con la quale la tutela della posizione soggettiva è assicurata. In altre parole, la natura strumentale della posizione soggettiva riconosciuta e tutelata dall'ordinamento caratterizza marcatamente la strumentalità dell'azione correlata e concentra l'attenzione del legislatore, e quindi dell'interprete, sul regime giuridico concretamente riferibile all'azione, al fine di assicurare, al tempo stesso, la tutela dell'interesse, ma anche la certezza dei rapporti amministrativi e delle posizioni giuridiche di terzi controinteressati”.

L’Adunanza Plenaria, pur assumendo che il “procedere all’esatta qualificazione della natura della posizione soggettiva coinvolta” non riveste utilità “nella specie”, procede, in sostanza, ad una vera e propria “declassificazione” del diritto di accesso, non più ritenuto posizione sostanziale autonoma (non fornendo essa “utilità finali”), ma solamente un potere di natura procedimentale, avente finalità strumentali di tutela di posizioni sostanziali propriamente dette, sia di diritto soggettivo, sia di interesse legittimo.

In tal modo, l’arresto dell’Adunanza Plenaria ha inteso superare sia configurazioni della posizione “diritto di accesso” che, facendo leva sul carattere impugnatorio del giudizio, lo hanno in precedenza configurato come interesse legittimo (Cass., Sez. Un., 27 maggio 1994 n. 5216;
Cons. St., Ad. Plen. 24 giugno 1999 n. 16), sia posizioni che, facendo leva sul carattere vincolato del potere esercitato dall’amministrazione in sede di accesso, lo hanno, invece, definito come autonomo diritto soggettivo (Cons. Stato, sez. VI, 12 aprile 2005 n. 1679 e 27 maggio 2003 n. 2938;
sez. V, 10 agosto 2007 n. 4411).

In adesione a quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, rileva il Collegio che, se è vero che la legge si esprime in termini di “diritto di accesso”, è altrettanto vero come di tale espressione deve essere sottolineato l’uso affatto atecnico. E ciò in quanto è ben evidente la “strumentalità” dell’accesso collegato alla “tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”, come si evinceva dal precedente testo dell’art. 22 l. n. 241/1990, ed ora dalla definizione dei soggetti “interessati”, contenuta nel medesimo articolo.

Né sembra assumere valore rilevante (al fine di condurre ad una diversa interpretazione) la circostanza che, nella medesima disposizione, l’accesso è ritenuto attinente “ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

Giova, innanzi tutto, osservare che ciò che il legislatore in questo caso considera non è il “diritto di accesso” in quanto posizione soggettiva, bensì “l’accesso” come fenomeno, cioè inteso oggettivamente come concreta esplicazione di attività.

Inoltre, l’essere un istituto (in questo caso, l’accesso) considerato livello essenziale di una prestazione concernente i diritti civili e sociali non comporta affatto che l’istituto stesso costituisca di per sé una posizione sostanziale o, più propriamente, un diritto, e non una posizione strumentale. Anzi, se esso attiene alle prestazioni che i pubblici poteri devono garantire “verso” i diritti civili e sociali, ancora una volta risalta non già la sostanzialità autonoma, bensì la strumentalità della posizione denominata “diritto di accesso”.

Il diritto di accesso si presenta, dunque, come posizione strumentale riconosciuta ad un soggetto che sia già titolare di una diversa “situazione giuridicamente tutelata”, (diritto soggettivo o interesse legittimo, e, nei casi ammessi, esponenzialità di interessi collettivi o diffusi) e che abbia, in collegamento a quest’ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire mediante accesso uno o più documenti amministrativi.

La strumentalità del diritto di accesso nega, a tutta evidenza, la sostenibilità di una pur sostenuta “autonomia” della posizione, laddove l’inerenza del documento alla posizione giuridica sostanziale preesistente fonda l’interesse concreto e differenziato della parte che richiede i documenti (Cons. Stato, sez. VI, 10 febbraio 2006 n. 555).

Tanto premesso, con riferimento ad una gara di appalto, la posizione qualificata e differenziata, di natura sostanziale, in relazione alla quale può configurarsi anche uno (strumentale) diritto di accesso deriva dalla partecipazione alla medesima, circostanza che distingue la posizione del concorrente da quella di ogni altro soggetto (impresa individuale o società).

Così come ha condivisibilmente affermato il giudice di primo grado, “l’accesso agli atti delle procedure concorsuali e di gara è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti stessi direttamente o indirettamente si rivolgono e che se ne possono avvalere per la tutela di una posizione soggettiva, la quale non può identificarsi con il generico e indistinto interesse al buon andamento amministrativo”.

Nel caso di specie, dunque, la società appellante, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad accedere agli atti della relativa procedura. Né sussiste interesse ad accedere anche solo al bando di gara o agli atti di invito a partecipare rivolti ad altre ditte – onde comprendere le ragioni dell’esclusione e quindi tutelarsi opportunamente – posto che si è già esclusa sia la configurabilità stessa di una tutela risarcitoria, sia la concreta possibilità di esperire tutela ripristinatoria.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato. Stante la natura delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare spese, diritti ed onorari del presente grado di giudizio.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi