Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-04-11, n. 201401767

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2014-04-11, n. 201401767
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201401767
Data del deposito : 11 aprile 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 07094/2013 REG.RIC.

N. 01767/2014REG.PROV.COLL.

N. 07094/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7094 del 2013, proposto da:
Spineta International S.r.l., in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'avv. M F, con domicilio eletto presso Guido Lenza in Roma, via XX Settembre, 98/E;

contro

Comune di Battipaglia, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall'avv. G L, con domicilio eletto presso Sara Di Cunzolo in Roma, via Aureliana 63;

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. della CAMPANIA – Sezione staccata di SALERNO - SEZIONE I n. 01841/2013, resa tra le parti, concernente diniego permesso di costruire.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Battipaglia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 marzo 2014 il Consigliere F T e uditi per le parti gli avvocati Fortunato e Lullo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il ricorso di primo grado la parte odierna appellante, Spineta International S.r.l., aveva impugnato, chiedendone l’annullamento, il provvedimento prot. n. 5814 del 21 gennaio 2013, con il quale il Responsabile S.U.E./S.U.A.P. del Comune di Battipaglia aveva respinto l'istanza di permesso di costruire depositata dalla ricorrente il 29 marzo 2012, la nota prot. n. 92105 del 5 dicembre 2012, recante la comunicazione dei motivi ostativi, la nota prot. n. 92098 del 5 dicembre 2012, con la quale il Responsabile del procedimento aveva espresso parere contrario al rilascio del richiesto titolo edilizio, la nota prot. n. 86458 del 20 novembre 2012, con la quale il Dirigente del Settore Programmazione e Governo del territorio del Comune di Battipaglia aveva emanato atti di indirizzo in ordine all’interpretazione ed applicazione dell'art. 5 della L. n. 106/2011, nonché tutti gli atti presupposti, connessi, collegati e consequenziali.

L’appellante aveva altresì chiesto la declaratoria - in sede di giurisdizione esclusiva ex art. 20, comma 5 bis, L. n. 241/1990 dell'intervenuta formazione del silenzio-assenso sull'istanza depositata il 29 marzo 2012, come integrata il 17 luglio 2012 e l’8 novembre 2012.

La predetta ditta Spineta aveva esposto di essere proprietaria di un complesso produttivo sito in località Spineta del Comune di Battipaglia, distinto in catasto al foglio n. 10, particella n. 445, e che, in tale veste, in data 29 marzo 2012, aveva depositato al Comune di Battipaglia istanza per il rilascio di un permesso di costruire per realizzare un progetto di riqualificazione, razionalizzazione ed ampliamento di un complesso immobiliare.

Nel termine di 90 giorni, l’amministrazione comunale non aveva adottato alcun provvedimento;
il 27 giugno 2012 si sarebbe formato, sulla sua istanza, il titolo abilitativo per silentium, ai sensi dell'art. 20, comma 8, d.p.r. 380/2001.

Successivamente essa, avendo interesse ad una modifica del progetto, il 17 luglio 2012 e l’8 novembre 2012 aveva presentato due nuove istanze, depositando nuovi elaborati grafici;
ma, inopinatamente, in data 21 gennaio 2013, l’amministrazione comunale aveva respinto le predette istanze.

L’appellante aveva dedotto plurime censure di violazione di legge ed eccesso di potere: aveva in particolare sostenuto che l’amministrazione non avrebbe considerato l'intervenuta formazione del silenzio-assenso sulla prima richiesta ed aveva anche reso, nel merito, un’erronea lettura della disciplina applicabile nella specie ("decreto sviluppo" ovvero "piano casa" regionale).

Il primo giudice ha respinto il mezzo alla stregua delle seguenti considerazioni.

Ha in primo luogo ricostruito il contraddittorio infraprocedimentale ed ha fatto presente che la società appellante ha presentato al Comune tre istanze:

la prima, prot. n. 24571 del 29 marzo 2012, per il rilascio del permesso di costruire volta alla demolizione ed alla ricostruzione di un complesso produttivo in località Spineta, ai sensi dell’art 5 D.L. 70 del 1011, convertito con modificazioni nella L. 106/2011 (cd. decreto sviluppo);

la seconda, prot. n. 53545 del 17 luglio 2012, nel cui oggetto si faceva riferimento alla Legge regionale n. 19 del 2009, come modificata dalla Legge regionale 1 del 2011 ( cd. piano casa );
in seguito essa aveva chiesto anche l'applicazione del D.L. 70/2011;

con la terza richiesta (nota prot. n. 83098 dell’8 novembre 2012) la ditta appellante aveva trasmesso, ai fini dell’integrazione e della sostituzione, i grafici allegati alla prima istanza (prot. n. 24571/2012).

Ha in proposito osservato il Tar che la prima istanza, risalente al 29 marzo 2012, era incompleta (per ammissione della stessa originaria ricorrente), perché priva della relazione tecnica asseverata, mai allegata e trasmessa solo con nota del 16 luglio 2012, pervenuta al Comune il successivo 17 (nota acquisita al prot. n. 53544), contestualmente alla seconda istanza.

Da ciò discendeva che l'ufficio competente, sino a quella data, era stato posto nell’impossibilità materiale di valutare la richiesta, incompleta nei suoi elementi essenziali, esplicitamente richiesti dalla normativa vigente.

Detta istanza, quindi, non poteva in alcun modo essere produttiva di effetti;
ed era irrilevante la circostanza che l’amministrazione non avesse adottato alcun provvedimento nel termine di novanta giorni dal ricevimento della richiesta (ex art. 20 d.p.r. 380/2001, che prescriveva che l’istanza, sotto il profilo formale, fosse completa anche degli allegati).

Esclusa quindi la avvenuta formazione di alcun silenzio significativo, il Tar, al capo 8 della sentenza, ha rilevato che – quanto alla seconda istanza - la società aveva chiesto, da un lato, l'applicazione delle LL. RR. n. 19/2009 e n. 1/2011 e, dall’altro, del D.L. 13 maggio 2011, n. 70.

L'ufficio competente, preso atto delle contraddizioni presenti nelle due istanze ed in queste ultime rispetto alla prima, con nota prot. n. 70700 del 28 settembre 2012, ricevuta dalla ricorrente il 3 ottobre successivo, aveva richiesto chiarimenti circa la normativa di riferimento di cui la società intendeva avvalersi.

In riscontro ai chiarimenti chiesti, la ditta, con nota prot. n. 83098 dell’8 novembre 2012, aveva depositato nuovi grafici ad integrazione di quelli già inoltrati con l'istanza originaria del 29 marzo 2012, senza fare riferimento a quanto domandato con la nota del 17 luglio 2012.

Di fronte ad una presentazione di diverse richieste, tra di loro non coerenti e tutt’altro che chiare, l'Ufficio aveva comunicato, con nota prot. 92105 del 5 dicembre 2012, ai sensi dell'art. 10 bis della L.241/1990, i motivi ostativi al rilascio del permesso di costruire.

Preso atto, quindi, del mancato riscontro ai motivi ostativi, con nota prot. n. 5814, l’Ufficio aveva rigettato l'istanza, avendo valutato che la proposta progettuale era comunque in contrasto con la L. n. 106/2011, in quanto gli immobili interessati non ricadevano in zona urbana degradata, come richiesto espressamente dall'art. 5, comma 9, L. 106/2011 richiamata.

Tale modo di procedere appariva legittimo e, pertanto, il mezzo, ad avviso del Tar, doveva essere integralmente disatteso.

L’originaria ricorrente, rimasta soccombente, ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe, chiedendone la riforma sotto due angoli prospettici.

Essa ha, infatti, ribadito le tesi invano sostenute in primo grado ed ha alternativamente e cumulativamente sostenuto, da un canto, che si era formato il silenzio assenso sulla propria richiesta (e, pertanto, correlativamente, la violazione dei principi in punto di autotutela quanto al sopravvenuto provvedimento reiettivo);
per altro verso, che il contestato diniego era infondato nel merito, ex art. 5 comma 9 e ss del D.L. 70/11 (Semestre europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106.

In via subordinata, quanto a quest’ultimo profilo, ha sostenuto che l’istanza era accoglibile ex art. 2 lett. a) della legge regionale della Campania n. 19/2009, modificata dalla l. reg n. 1/2011 e, comunque, ex art. 7 comma 5 della legge regionale della Campania n. 19/2009, modificata dalla l. reg n. 1/2011 (c.d. piano casa).

La parte odierna appellata ha depositato una articolata memoria chiedendo la reiezione dell’appello, perché infondato, riproponendo le tematiche esposte in primo grado in chiave reiettiva ed accolte dal Tar.

Nella prima parte della memoria ha chiarito le ragioni per cui non si era formato alcun silenzio-assenso.

Nel merito, la proposta progettuale era in conflitto con l’art. 5 comma 9 della legge n. 106/2011: il termine “nonché”, ivi contenuto, era da leggere nell’ambito riguardante le aree degradate, e non come alternativa a queste ultime.

L’immobile per cui è causa era un capannone dismesso, e la legge non prevedeva alcuna incentivazione per gli immobili non residenziali ubicati in dette aree;
neppure valeva richiamare, in via analogica, la nozione di area urbana degradata ex art. 2 lett. a) l.r. 19/09.

All’adunanza camerale del 22 ottobre 2013, fissata per la delibazione dell’istanza di sospensione della esecutività della impugnata decisione, la trattazione del procedimento è stata rinviata al merito.

Alla pubblica udienza del 18 marzo 2014 la causa è stata posta in decisone dal Collegio.

DIRITTO

1. L’appello è infondato e deve essere disatteso nei termini di cui alla motivazione che segue.

2. Con i connessi motivi nn. 3, 8, 9, e 10 dell’atto di appello, la società odierna appellante ha ribadito la tesi per cui si era formato il silenzio-assenso sulla propria richiesta e, pertanto, correlativamente, la violazione dei principi in punto di autotutela quanto al sopravvenuto provvedimento reiettivo.

Tale prospettazione del mezzo, che assume portata pregiudiziale sotto il profilo logico, è infondata.

Avveduta giurisprudenza, al fine di scoraggiare pratiche dilatorie da parte delle amministrazioni, ha puntualizzato che (T.A.R. Lazio Roma Sez. I, 29-03-2011, n. 2739), “nel sistema dell'art. 2 della legge n. 241 del 1990 la fissazione di un termine procedimentale di durata massima del procedimento amministrativo, con evidenti finalità acceleratorie, ancorché non perentorio (e dunque, al di là della persistenza o meno del potere di provvedere in capo all'amministrazione inadempiente), comporta la qualificazione come inadempimento del fatto stesso dell'inutile spirare di tale termine, posto a presidio della certezza dei tempi dell'azione amministrativa, qualora sull'istanza della parte non sia stato emesso alcun provvedimento, positivo o negativo. Per questa ragione, le cause di interruzione o sospensione del termine per provvedere sono tipiche e di stretta interpretazione, e non lasciano spazio a sospensioni sine die motivate da qualsivoglia esigenza estranea al paradigma normativo che regola l'attività amministrativa.”.

Laddove, però, si rientri nel paradigma normativo, il termine finale di definizione del procedimento può essere prolungato, con conseguente esclusione della formazione del silenzio inadempimento.

Si è detto in proposito che (Cons. Giust. Amm. Sic., 30-05-2013, n. 528) “il termine annuale, dell'art. 31, comma 2°, c.p.a., non inizia a decorrere se la documentazione allegata all'istanza non corrisponde alle previsioni legali e se le pertinenti richieste di integrazione formulate dall'Amministrazione non trovano adeguato riscontro”.

Di converso, la giurisprudenza ha assunto un atteggiamento abbastanza rigido, volto a scoraggiare condotte furbesche delle Amministrazioni che volessero non rispettare i termini definitori del procedimento pur restando immuni dalla possibile, conseguente, azione giudiziaria del privato volta a fare constare tale inerzia.

Si è affermato, pertanto, in proposito, che l’azione ex art. 31 e 117 del cpa è possibile anche in presenza di un atto soprassessorio, sul presupposto che siffatto atto non costituisce il provvedimento terminativo del procedimento, che l'amministrazione ha l'obbligo di emanare quale che sia il contenuto, ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell'obbligo di concluderlo entro il termine fissato. L'atto è in questo caso essenzialmente conosciuto dal giudice non già in relazione ai suoi aspetti di satisfattività per l'istante, ma in relazione alla sua idoneità ad integrare adempimento della primaria obbligazione di provvedere, con il corollario che la sentenza è dichiarativa dell'obbligo generico di provvedere o, nei casi in cui l'attività è ab origine o ex post divenuta vincolata, anche dell'obbligo di adottare un provvedimento di tenore predeterminato. Tuttavia, poiché l'interesse a ricorrere deriva non dall'inerzia assoluta, ma dal comportamento soprassessorio, l'azione è ritualmente introdotta attraverso l'impugnazione del sedicente provvedimento conclusivo, ma esso è traguardato e stigmatizzato per il contenuto elusivo dell'obbligo di provvedere, ossia quale atto sussumibile nella fattispecie composita dell'inerzia. L'impugnazione è, cioè, strumentale ad una pronuncia che, constatata la natura soprassessoria dell'atto e dichiarata la permanenza dell'obbligo di provvedere, condanni l'amministrazione ad emanarlo immediatamente (ex aliis, Cons. Stato Sez. IV, 09-05-2013, n. 2511).

Ciò in punto di formazione del c.d. “silenzio inadempimento”.

In perfetta simmetria con quanto prima affermato, anche in riferimento al c.d. “silenzio-assenso”, l’attività giurisprudenziale interpretativa in chiave perimetrativa si è strutturata su più versanti.

Avuto riguardo alle qualità intrinseche che la istanza deve possedere affinché possa validamente formarsi un silenzio-assenso giuridicamente rilevante e produttivo di effetti ampliativi, si è posto in luce che “una fattispecie di tacito accoglimento può aver luogo in presenza di istanze assistite da requisiti minimali (afferenti alla legittimazione del richiedente, alla corretta individuazione dell'oggetto del provvedere, alla competenza dell'ente chiamato a pronunciarsi, ecc.), tali da poter ricondurre al dato obiettivo della loro presentazione, unitamente al decorso del termine assegnato per provvedere, l'accoglimento per silentium” (Consiglio di Stato, Sezione VI, 21 settembre 2010 n. 7012).

Da tale principio si è fatta discendere la conseguenza che “non può formarsi il silenzio assenso sull'istanza di concessione edilizia quando non è accompagnata ab initio da tutti i requisiti previsti dalla legge (in primis la perizia giurata di un tecnico qualificato), necessari perché il silenzio possa essere equiparato a rilascio della concessione edilizia.”( Cons. giust. amm. Sicilia , sez. giurisd., 05 ottobre 2010 n. 1239), e che, comunque, “il privato deve chiarire sin da subito quale sia il provvedimento favorevole cui aspira non potendosi invocare la formazione di un provvedimento tacito di accoglimento laddove si presentino all'amministrazione istanze articolate in più sottorichieste comportanti termini e procedimenti diversi. Una diversa interpretazione condurrebbe all'inevitabile conseguenza della completa incertezza, per l'Amministrazione così come per il privato, sul valore da attribuire al comportamento inerte dell'Amministrazione e sul provvedimento tacito che si è formato” (Tar Campania, Napoli, Sezione III n. 17583, del 4 ottobre 2010).

Con una affermazione che suona quale “clausola di chiusura del sistema”, si è di recente puntualizzato che “la formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo l'inutile decorso del tempo dalla presentazione dell'istanza senza che sia intervenuta risposta dall'Amministrazione, ma la ricorrenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge, ossia degli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l'avvenuto perfezionamento, con la conseguenza che il silenzio assenso non si forma nel caso in cui l'interessato abbia rappresentato una situazione di fatto difforme da quella reale.” (Tar Piemonte, 14 gennaio 2011 n. 16).

2.1. Come è noto, poi, analoga cautela ha improntato le valutazioni giurisprudenziali in riferimento agli accadimenti intervenuti in un momento successivo al decorso del termine previsto ex lege per la formazione del silenzio assenso.).

La questione si è posta in passato, con una certa frequenza, laddove il provvedimento espresso sopravvenuto abbia contenuto reiettivo (e quindi si ponga in contrasto con il “provvedimento silenzioso” già formatosi).

Si è detto, infatti, a più riprese, in passato (tra le tante Consiglio Stato , sez. VI, 10 marzo 1994 , n. 298 ma anche Consiglio Stato , sez. V, 17 marzo 2003 , n. 1381), che il diniego esplicito, sopravvenuto alla formazione del silenzio-assenso, non può considerarsi atto inesistente, ma atto che si sostituisce all' assenso tacito, quale ulteriore rinnovata espressione del potere di cui l'amministrazione era e rimane titolare, quanto meno in via di autotutela;
il diniego, quindi, può, se mai, ritenersi illegittimo - in quanto non conforme all'esercizio del potere di autotutela -, ma non nullo (facendone peraltro discendere – in un quadro legislativo precedente all’art. 5 bis dell’ art. 20 della legge n. 241 del 1990 introdotto dall'articolo 2, comma 1-sexies, del D.L. 5 agosto 2010, n. 125 - la conseguenza che il diniego stesso e gli atti che ne costituiscono esecuzione debbono essere sindacati non dall'A.g.o., ma dal giudice amministrativo, in quanto oggetto del contendere è un asserito non corretto uso dei poteri amministrativi).

A fronte di un silenzio-assenso legittimamente formatosi, si sosteneva – da parte di una qualificata corrente dottrinaria e giurisprudenziale - che sarebbe potuto pur sempre intervenire un provvedimento a contenuto negativo;
quest’ultimo, se reso con le forme procedimentali proprie degli atti “di secondo grado”, rientranti nell’alveo dei provvedimenti di autotutela, doveva essere tempestivamente impugnato: altrimenti si sarebbe consolidato, con effetto annullatorio dell’“assenso-silenzioso”.

La giurisprudenza più recente ha, però, espresso non poche critiche verso questo modo di provvedere delle Amministrazioni, affermando che sarebbe illegittimo l'atto di diniego successivamente emesso, considerato che il potere di provvedere sulla domanda si è consumato e residua solo eventualmente in capo all'ente pubblico la potestà di autotutela, da attuarsi con provvedimento di annullamento e in presenza dei relativi presupposti, tra cui l'indicazione dei profili di illegittimità.

L’elaborazione pretoria ha trovato conferma in un successivo intervento legislativo: l'art. 20, terzo comma, L. n. 241 del 1990 (legge sul procedimento amministrativo), nel testo modificato dalla L. n. 80 del 2005, dispone che, nei casi in cui il silenzio equivale ad accoglimento della domanda, l'Amministrazione competente può soltanto assumere determinazioni in via di autotutela, secondo le previsioni dei successivi artt. 21-quinquies e 21-nonies, L. n. 241 del 1990.

L’amministrazione non può, quindi, limitarsi a provvedere tardivamente sull’istanza (tra le tante, T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 03 maggio 2010 , n. 2266), ma deve avviare un vero e proprio procedimento di secondo grado finalizzato alla rimozione dell’atto (che si assume illegittimo) formatosi per silentium.

In senso parzialmente contrario, altra corrente “sostanzialistica” della giurisprudenza di primo grado (si veda T.A.R. Friuli Venezia Giulia Trieste, sez. I, 28 ottobre 2010 , n. 719) ha sostenuto che non sarebbe precluso alla p.a. di determinarsi in contrario con un provvedimento esplicito, ma, trattandosi di un atto implicito di autotutela, essa dovrebbe comunicare all'interessato l'avvio del relativo procedimento, pena l'illegittimità dell'atto.

Per chiudere con questo – necessario, seppur sintetico - excursus, va anche evidenziato che neppure v’è pieno accordo in ordine alla latitudine applicativa del detto eventuale atto di autotutela.

Se è, infatti, certo che esso deve essere assunto nel rispetto delle cautele infraprocedimentali proprie dei procedimenti di secondo grado (primo tra tutti, l’obbligo di dare avviso dell’avvio del procedimento finalizzato alla rimozione dell’atto: ex multis, si veda Consiglio Stato, sez. VI, 28 febbraio 2006 , n. 887), il nuovo provvediemnto secondo parte della giurisprudenza amministrativa, non sarebbe soggetto ai limiti applicativi (sussistenza di ragioni di interesse pubblico, termine ragionevole ponderazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati) di cui all’art. 21 novies della legge 7 agosto 1990 n. 241.

Tali limiti all’adozione di un atto di autotutela ricorrerebbero soltanto in ipotesi di rimozione di un provvedimento espresso.

Nell’ipotesi di silenzio-assenso, viceversa, si è ritenuto che “l'inerente potere di autotutela assorba in sé anche profili valutativi che normalmente ineriscono all'esercizio della funzione amministrativa di primo grado, ma che l'Amministrazione non è stata a suo tempo in grado di esercitare. La funzione sollecitatoria a cui si ispira l'istituto del silenzio-assenso non può, infatti, a pena di insanabile contrasto della relativa disciplina legislativa con la sovraordinata fonte costituzionale (art. 97 cost.), pregiudicare la possibilità di un pieno e ponderato esercizio dell'attività di valutazione e comparazione dei diversi interessi pubblici e privati coinvolti dall'esercizio della funzione amministrativa. Pertanto, in sede di annullamento d'ufficio di un silenzio assenso, deve essere restituito integro il potere-dovere di compiere, per la prima volta, quelle valutazioni che a suo tempo l'Amministrazione avrebbe potuto e dovuto porre a fondamento dell'esercizio della funzione istituzionale di primo grado ad essa spettante. Correlativamente, è stato reputato legittimo il provvedimento di annullamento d'ufficio del silenzio assenso, ove l'Amministrazione, pur senza enucleare specifici profili di illegittimità dell'atto da annullare e specifiche, distinte, ragioni di interesse pubblico giustificanti l'annullamento medesimo, abbia svolto una completa ed approfondita disamina dell'assetto di interessi scaturente dal provvedimento tacito, in rapporto a quello inerente alla funzione tipica cui è preordinata l'attività amministrativa di primo grado, pervenendo, ove ne abbia riscontrato la dissonanza, alla rimozione dell'assetto ritenuto "contra legem" ed al ripristino di quello risultante conforme all'interesse pubblico da perseguire -l'interesse pubblico sotteso al legittimo esercizio del potere di autotutela può rinvenirsi anche nella necessità di ripristinare l'equilibrio delle posizioni private coinvolte, che non costituisce un aspetto di disciplina dei rapporti intersoggettivi di natura privata, ma costituisce l'essenziale garanzia del rispetto reciproco da parte di tutti i cittadini delle posizioni dei singoli, posizioni che devono ricevere adeguata tutela nell'ordinamento, rimanendo escluse indebite appropriazioni o prevaricazioni-” (Tar Campania, Napoli, 10 settembre 2010 n. 17398).

2.2. L’appellante ha sollevato temi interessati da questa congerie di problematiche;
ma i temi prospettati appaiono infondati in fatto in quanto – alla luce di quanto si è esposto in precedenza – le istanze dalla stessa proposte non avevano i requisiti per condurre ad un “assenso silenzioso”.

Come incontestabile in punto di fatto, invero (e come colto puntualmente dal primo giudice), essa aveva presentato al Comune, come qui si ribadisce, ben tre istanze.

La prima, ( prot. n. 24571 del 29 marzo 2012) per il rilascio del permesso di costruire volta alla demolizione ed alla ricostruzione dì un complesso produttivo in località Spineta, ai sensi dell’art 5 D.L. 70 del 1011, convertito con modificazioni nella L. 106/2011 (cd. decreto sviluppo) era certamente sfornita del requisito della completezza, in quanto priva della relazione tecnica asseverata.

E posto che quest’ultima venne trasmessa solo con nota del 16 luglio 2012, pervenuta al Comune il successivo 17 (nota acquisita al prot. n. 53544), contestualmente alla seconda istanza, devono essere respinte tutte le doglianze formulate in via principale volte a sostenere che il dies a quo per considerare l’avvenuta formazione di un provvedimento silenzioso potesse individuarsi nel 29 marzo 2012.

Sino al 17 luglio 2012, dunque, nessun termine poteva decorrere.

Ma anche con riguardo a tale ultima data (come da censure avanzate dall’appellante in via subordinata) non sussistevano le condizioni (costituite da un’istanza chiara, non perplessa, né equivoca, come chiarito dalla condivisibile giurisprudenza che si è prima riportata) per considerare formato il silenzio assenso in data antecedente al provvedimento di diniego del 21.1.2013 (e quindi per qualificare quest’ultimo quale illegittimo atto di autotutela volto indebitamente ad esercitare un effetto repressivo sul provvedimento ampliativo già formatosi).

Invero l’appellante, con la nota prot. n. 53545 del 17 luglio 2012, riferentesi alla prima istanza e con la quale si produsse la relazione tecnica asseverata, propose in realtà una seconda istanza, diversa dalla prima, nel cui oggetto si faceva riferimento per la prima volta alla Legge regionale n. 19 del 2009, come modificata dalla Legge regionale 1 del 2011 ( cd. piano casa ) ed ha chiesto anche l'applicazione del D.L. 70/2011.

Premesso che tale pretesa – come meglio si chiarirà di seguito – appariva già inaccoglibile, essendosi incardinato un procedimento diverso, connotato da referenti normativi distinti, ciò che giova precisare è, in definitiva, che a tale data il Comune si trovava al cospetto di due istanze, con documentazione in parte comune, ma aventi un oggetto comunque almeno in parte non coincidente.

Tanto è vero, questo, che l'ufficio competente, preso atto delle contraddizioni presenti nelle due istanze , con nota prot. n. 70700 del 28 settembre 2012, ricevuta il 3 ottobre successivo, dovette richiedere chiarimenti circa la normativa di riferimento di cui la società intendeva avvalersi.

Ma non è tutto: con ulteriore nota prot. n. 83098 dell’8 novembre 2012 la stessa società trasmise, ai fini dell’integrazione e della sostituzione, i grafici allegati alla prima istanza (prot. n. 24571/2012);
e ciò, in riscontro alla nota comunale, ma senza fare riferimento a quanto chiestole

Insomma: le istanze proposte erano perplesse, incomplete (almeno sino al 17 luglio, ma anche oltre, considerato che l’integrazione del novembre faceva riferimento alla prima istanza) e contraddittorie, e come tali inidonee a produrre il richiesto effetto ampliativo silenzioso.

Ma anche a volere considerare formatosi il silenzio-assenso – il che non è -, il Comune comunicò, con nota prot. 92105 del 5 dicembre 2012, ai sensi dell'art. 10 bis della L.241/1990, i motivi ostativi al rilascio del permesso di costruire, e successivamente emise l’atto di diniego che, quindi, avrebbe avuto tutti i requisiti di forma e sostanza per “valere” quale atto di autotutela alla luce della giurisprudenza “sostanzialistica” della quale si è prima detto.

2.3. Le quattro connesse censure raggruppate, son quindi, non soltanto infondate e vanno decisamente respinte.

3. Venendo ai motivi di merito, con i quali ci si duole dell’avversato diniego, si osserva quanto di seguito.

Si controverte in ordine alla portata della disposizione di cui al comma 9 dell’articolo 5 del decreto-legge 70 del 2011 che, ad avviso dell’appellante (quarto motivo del mezzo di primo grado, prospettato in via principale) ed in contrasto con quanto ritenuto dal Comune, deve essere inteso nel senso di consentire la riqualificazione di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione anche al di fuori delle aree urbane degradate.

Tale disposizione (ed i successivi commi da 10 a 14, che con la stessa “fanno corpo” ) così prevede:

“10. Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano:

a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale;

b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse;

c) l’ammissibilità delle modifiche di destinazione d’uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari;

d) le modifiche della sagoma necessarie per l’armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.

Gli interventi di cui al comma 9 non possono riferirsi ad edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta, con esclusione degli edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria.”

11. Decorso il termine di cui al comma 9, e sino all'entrata in vigore della normativa regionale, agli interventi di cui al citato comma si applica l'articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 anche per il mutamento delle destinazioni d'uso. Resta fermo il rispetto degli standard urbanistici, delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attivita' edilizia e in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di quelle relative alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, nonche' delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

12. Le disposizioni dei commi 9, 10 e 11 si applicano anche nelle Regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con le disposizioni degli statuti di autonomia e con le relative norme di attuazione.

13. Nelle Regioni a statuto ordinario, oltre a quanto previsto nei oltre a quanto previsto nei commi precedenti, decorso il termine di sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente decreto, e sino all'entrata in vigore della normativa regionale, si applicano, altresì, le seguenti disposizioni:

a) e' ammesso il rilascio del permesso in deroga agli strumenti urbanistici ai sensi dell'articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 anche per il mutamento delle destinazioni d'uso, purche' si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari;

b) i piani attuativi comunque denominati e compatibili con lo strumento urbanistico generale sono approvati dalla Giunta Comunale.

14. Decorso il termine di 120 giorni dall'entrata in vigore del presente decreto, le disposizioni contenute nel comma 9, fatto salvo quanto previsto al comma 10, e al secondo periodo del comma 11, sono immediatamente applicabili alle Regioni a statuto ordinario che non hanno provveduto all'approvazione delle specifiche leggi regionali.

Fino alla approvazione di tali leggi, la volumetria aggiuntiva da riconoscere quale misura premiale, ai sensi del comma 6 lettera a), e' realizzata in misura non superiore complessivamente al venti per cento del volume dell'edificio se destinato ad uso residenziale, o al dieci per cento della superficie coperta per gli edifici adibiti ad uso diverso. Le volumetrie e le superfici di riferimento sono calcolate, rispettivamente, sulle distinte tipologie edificabili e pertinenziali esistenti ed asseverate dal tecnico abilitato in sede di presentazione della documentazione relativa al titolo abilitativo previsto.”.

Il punto di contrasto tra la tesi patrocinata dall’amministrazione comunale e quella ascrivibile all’appellante è chiaro: secondo la parte pubblica, il “nonché” contenuto al comma 9 farebbe riferimento ad “edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare” pur sempre allocati in aree degradate (e posto che l’area ove insorgeva quello dell’appellante non lo era, la disposizione non era utilmente invocabile).

Secondo l’appellante privata, invece, il “nonché” prefigurerebbe una fattispecie alternativa, che prescinderebbe in toto dall’allocazione in area degradata;
essa quindi avrebbe diritto ad avvalersi della citata norma in quanto titolare di “edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare” e rientrante altresì nella prima fattispecie, costruita come “alternativa”, prevista nella citata disposizione in quanto l’intervento sarebbe diretto ad “incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente”.

L’appellante ha irrobustito il proprio argomentare anche evidenziando che comunque l’area de qua poteva anch’essa essere considerata “area urbana degradata”.

Ciò in quanto, posto che il dl n. 70/2011 non definiva il concetto di “area urbana degradata”, il detto parametro definitorio doveva rinvenirsi sub art. 2 della L.r. 28-12-2009 n. 19 :“a) per aree urbane degradate si intendono quelle compromesse, abbandonate, a basso livello di naturalità, dismesse o improduttive in ambiti urbani ed in territori marginali e periferici in coerenza al Piano territoriale regionale (PTR) di cui alla legge regionale n. 13/2008”.

Nel caso di specie, infatti, era indubitabile che l’area de qua ricadesse in ambiti urbani ed in territori marginali e periferici.

Ciò era altresì corroborato dal richiamo contenuto sub art. 7 comma 5 della suddetta legge regionale: “Per immobili dismessi, in deroga agli strumenti urbanistici generali e ai parametri edilizi, con particolare riferimento alle altezze fissate dagli stessi strumenti, purché nel rispetto degli standard urbanistici di cui al D.M. n. 1444/1968 e nel rispetto delle procedure vigenti, sono consentiti interventi di sostituzione edilizia a parità di volumetria esistente, anche con cambiamento di destinazione d’uso, che prevedono la realizzazione di una quota non inferiore al trenta per cento per le destinazioni di edilizia sociale di cui all’articolo 1, comma 3, del D.M. 22 aprile 2008 (definizione di alloggio sociale ai fini dell’esenzione dell’obbligo di notifica degli aiuti di stato, ai sensi degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità Europea). La volumetria derivante dalla sostituzione edilizia può avere le seguenti destinazioni: edilizia abitativa, uffici in misura non superiore al dieci per cento, esercizi di vicinato, botteghe artigiane. Se l’intervento di sostituzione edilizia riguarda immobili già adibiti ad attività manifatturiere industriali, di allevamento intensivo, artigianali e di grande distribuzione commerciale, le attività di produzione o di distribuzione già svolte nell’immobile assoggettato a sostituzione edilizia devono essere cessate e quindi non produrre reddito da almeno tre anni antecedenti alla data di entrata in vigore della presente legge”;
ciò andrebbe letto nel testo novellato dall’art. 1, comma 1, lettera zz), L.r. 5 gennaio 2011, n. 1, che - eliminando dall’incipit dell’articolo predetto (il cui testo originario era così formulato: «Nelle aree urbanizzate e degradate, per immobili dismessi…omissis”) il riferimento alle aree degradate - avrebbe reso palese non essere necessario che gli immobili dismessi fossero anche allocati in aree degradate.

Il Comune, quanto a tale secondo pilastro motivazionale dell’appello, incentrato sulla legislazione regionale sul c.d. “piano casa”, ne ha contestato l’applicabilità, sulla scorta della considerazione (contestata dall’appellante) che giammai tale normativa derogatoria potesse far corpo con quella prevista dal successivo D.L. n. 70/2011.

3.1.Così riassunte le contrapposte argomentazioni delle parti, osserva il Collegio che è certamente da respingere l’argomento fondato sulla contemporanea applicabilità del c.d. “piano casa” in unione con le previsioni di cui al D. L. n. 70/2011, trattandosi di disposizione dettate per finalità differenti, originate da una fonte di produzione differente, ed emanate in epoca non coeva.

Non può, pertanto, dirsi che l’area ove insiste il capannone potesse essere considerata “degradata” alla stregua delle prescrizioni contenute nella legge regionale della Campania.

Invero il comma 1 dell’art. 2 della citata legge regionale 28-12-2009 n. 19 è chiarissimo nell’affermare che “ai fini della presente legge si fa riferimento alle seguenti definizioni…”.

Ne consegue che in assenza di alcun richiamo da parte della legge statale o di successive leggi regionali applicative di quest’ultimo, ed in presenza della espressa e testuale dizione prima riportata, risulta all’evidenza inammissibile la pretesa di ”traslare” le prescrizioni di cui all’art. 2 della fonte regionale al decreto legge statale superveniens.

In più ed a completamento di quanto accennato in tema di silenzio, può dirsi che, a fronte di un procedimento incardinato sulla scorta della causale relativa alla applicazione del c.d. decreto piano sviluppo, in base al quale, si badi, venne anche asserita l’avvenuta formazione del provvedimento silenzioso, è certamente errata la pretesa secondo cui il Comune avrebbe dovuto vagliare la concedibilità dell’atto ampliativo pure alla luce delle sopravvenute modifiche introdotte dal legislatore regionale al c.d. piano casa: anche tale articolazione della censura è quindi infondata e non v’era obbligo del Comune di soffermarsi sulla assentibilità del manufatto alla stregua del detto referente normativo regionale, isolatamente considerato.

3.2. L’argomento centrale dell’appello sul quale occorre concentrarsi, invece, riposa nella interpretazione del richiamato comma nove dell’art. 5 del d.L. n.70/2011 convertito nella legge n. 106/2011, isolatamente considerato.

A tale proposito, ritiene il Collegio di affermare che, pur non potendosi nascondere la non perspicuità del dato normativo, la tesi espressa dal Comune ed avallata dal Tar debba essere confermata.

Sotto un profilo più generale, orienta in tal senso la constatazione che la norma de qua integra una norma di favore: essa può quindi essere definita norma “eccezionale”, in quanto diretta a regolare in termini diversi un minor numero di ipotesi rispetto a quelle “ordinarie”: conseguentemente, la stessa non è suscettibile di interpretazione in senso estensivo, nei termini pretesi da parte appellante. Ed il criterio della interpretazione estensiva, travalicante il dato letterale, non può certo essere quello ermeneuticamente corretto.

Sotto altro profilo, neppure una interpretazione rigidamente letterale (che per le anzidette ragioni appare l’unica consentita) sembrerebbe consentire il detto approdo: invero nell’ambito del periodo di cui al citato comma 9 dell’art. 5, il secondo “nonché” non appare essere posto in connessione con alcuna voce verbale (incentivare....nonché di promuovere....).

La proposizione in connessione con dette voci verbali è il primo “nonché”.

Il secondo “nonché”, contenuto nell’articolato normativo, invece, appare essere in connessione con un genitivo di nome e pertanto in collegamento con "aree degratate".

E pertanto: se può convenirsi che i “fini” della norma sono due: “la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate” , sono queste ultime ad essere connotate dalla “presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”.

Se così è, la norma si applica agli edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare soltanto ove ricadenti in “aree degradate”.

La detta area periferica, come prima chiarito, non costituisce area degradata e, per quanto esposto, appare corretto l’approdo dell’amministrazione, che, non ravvisando la compresenza del duplice requisito apparentemente imposto, per quanto si è finora detto, dalla legge (immobile dismesso,,,insistente in area degradata..) ha respinto la tesi dell’applicabilità del D.L. n. 70/2011.

4. Conclusivamente, l’appello deve essere respinto nei termini di cui alla motivazione che precede.

5. La novità e complessità della questione legittima l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio sostenute.

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