Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2017-05-15, n. 201702256

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2017-05-15, n. 201702256
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201702256
Data del deposito : 15 maggio 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 15/05/2017

N. 02256/2017REG.PROV.COLL.

N. 01821/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1821 del 2015, proposto da:
Monte Secchieta-Soc. Coop.Va Edilizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati F F, F D M, con domicilio eletto presso lo studio Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II N.18;

contro

Comune di Scandicci, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati C B, M C, con domicilio eletto presso lo studio M C in Roma, piazza Barberini N 12;
Regione Toscana, Consiglio Regionale della Toscana non costituiti in giudizio;

nei confronti di

Claudio Cresci, Cecilia Forlucci, Laura Sartini non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. TOSCANA - FIRENZE: SEZIONE I n. 01923/2014, resa tra le parti, concernente applicazione sanzione per assegnazione alloggi peep per un corrispettivo più elevato rispetto a convenzione urbanistica stipulata


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Scandicci;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 ottobre 2016 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati F. Falorni, F. De Meo, M. Cecchetti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con l’appello in esame la cooperativa edilizia Monte Secchieta impugna la sentenza 27 novembre 2014 n. 1923, con la quale il TAR per la Toscana, sez. I, ha parzialmente accolto i ricorsi dalla stessa proposti (con riferimento a tre soli motivi dei quattordici articolati).

La presente controversia attiene ad una complessa vicenda, relativa (in sintesi) alla edificazione di 22 sub-lotti del PEEP nel Comune di Scandicci, comprendenti 247 alloggi (poi divenuti 328) di edilizia convenzionata e mc. 1300 di spazi commerciali.

Nell’ambito di tale edificazione, che – a seguito di bando del 1999 - con deliberazione del Consiglio comunale 18 gennaio 2000 n. 4 veniva assegnata al Consorzio Nuova Badia (raggruppamento costituito da una pluralità di operatori), la società appellante ha realizzato 29 appartamenti di propria pertinenza, ultimati nel 2009, successivamente stipulando i contratti di definitiva assegnazione dei medesimi in proprietà.

Per quel che interessa nella presente sede, ai fini della realizzazione di edilizia convenzionata ora descritta, in data 2 marzo 2006 il Comune di Scandicci, il Consorzio Nuova Badia ed i singoli operatori, sottoscrivevano la convenzione con la quale si prevedeva, tra l’altro, la cessione della proprietà dei lotti al consorzio ed ai singoli operatori, stabilendo in particolare (art. 9) che:

“nel caso di alienazione a prezzo superiore a quello determinato secondo i criteri di cui sopra sarà applicata al venditore o i suoi aventi causa una penalità a favore del Comune da due a cinque volte la differenza fra il prezzo stabilito dalla presente convenzione e quello effettivamente praticato”.

Con delibera 13 settembre 2011 n. 162, la Giunta Comunale determinava la predetta penale nella misura di “due volte la differenza fra il prezzo massimo stabilito dalla convenzione e quello effettivamente praticato”.

Il Comune di Scandicci, rilevato che per la vendita di immobili erano stati praticati prezzi superiori a quelli che avrebbero dovuto essere determinati in applicazione dei criteri in convenzione – dopo una interlocuzione con l’appellante (la quale esponeva che la differenza era sostanzialmente riconducibile a costi accessori, migliorie e varianti di capitolato richieste dalla parte assegnataria) – ingiungeva, con due distinti provvedimenti (che hanno dato luogo a due distinti ricorsi in I grado) il pagamento di somme pari ad Euro 317.792,48 e ad Euro 390.311,78, a titolo di sanzione per l’inosservanza delle pattuizioni convenzionali, con l’avvertimento che, in caso di inottemperanza, avrebbe provveduto a riscossione coattiva.

La controversia attiene, dunque, alla legittimità della richiesta operata dal Comune, investendo sia la natura giuridica della “penalità” (sanzione amministrativa o penale ex art. 1382 c.c.), sia, più in generale, la legittimità/validità – sotto diversi profili – della clausola della convenzione che la prevede.

2. 1. La sentenza impugnata (di oltre sessanta pagine), sulla scorta dei numerosi motivi proposti con i ricorsi, risulta articolata, in sostanza, in una pluralità di ampie riflessioni, che, ai fini della comprensione de thema decidendum, occorre riportare sia pure in modo sintetico, e che possono essere così indicate:

- un primo ambito di considerazioni riguarda la natura degli accordi (convenzioni) tra pubblica amministrazione e privato (in generale e nell’ambito dell’edilizia convenzionata);
ciò anche al fine di definire la natura del potere esercitato, se riconducibile, cioè, all’esercizio di una potestà pubblicistica, ovvero all’istituto della penale, di cui all’art. 1382 c.c. (pagg. 18 – 26 sent.);

- un secondo ambito di considerazioni – conseguente alla scelta operata per la “natura privatistica” del potere esercitato, e dunque alla riconducibilità di quanto previsto dall’art. 9 della convenzione alla “penale” ex art. 1382 c.c. – riguarda le ragioni addotte dall’impresa ricorrente, onde giustificare il prezzo effettivamente praticato in sede di compravendita dell’alloggio (pagg. 26 – 40);

- un terzo ambito di considerazioni riguarda l’esame della eventuale nullità dell’art. 9 della convenzione per contrarietà a norme imperative ovvero per difetto o illiceità della causa (pagg. 40 – 47);

- un quarto ordine di considerazioni attiene alla determinazione dell’entità della sanzione, o meglio (secondo la scelta operata in sentenza) della penale (pagg. 47- 59).

2. 2. La sentenza ha, innanzi tutto, precisato che l’operazione in esame è da iscriversi nell’ambito della “edilizia convenzionata”, la quale è “attuata al fine di garantire uno sviluppo ordinato dell’assetto del territorio e nello stesso tempo rispondere alle esigenze abitative popolari, mediante il calmieramento del mercato, senza impegnare risorse pubbliche, ma coinvolgendo l’imprenditoria privata in una operazione di pubblico interesse”.

Tale operazione, che “inizia con l’espropriazione e termina con il rilascio dei permessi di costruire ai soggetti assegnatari”, è regolata (oltre che, come è ovvio, dalla normativa primaria), da una convenzione, recante gli obblighi reciproci.

Tanto precisato, la sentenza afferma, in particolare:

- la convenzione è uno strumento con il quale il Comune effettua “un’operazione di sviluppo del territorio rientrante nella più generale categoria di pianificazione territoriale che gli compete istituzionalmente”;
per suo tramite, quindi, l’amministrazione definisce “l’assetto del territorio dettando in via negoziale le regole per il suo sviluppo ed assumendo, correlativamente, determinati obblighi a suo carico nei confronti degli assegnatari”;

- ne consegue che la convenzione “non può essere ritenuta un contratto di diritto civile, ma deve essere inquadrata propriamente nei contratti ad oggetto pubblico, ossia quei negozi giuridici mediante i quali la pubblica amministrazione contratta con i privati interessati l’esercizio di funzioni pubblicistiche determinando reciproci doveri ed obblighi, sempre rivolti ad un fine pubblico”. In sostanza, il contratto ad oggetto pubblico si caratterizza per il fatto che “la pubblica amministrazione persegue un fine di pubblico interesse mediante uno strumento civilistico”;

- nel caso di specie, il fine di pubblico interesse è rappresentato “dall’ordinato sviluppo del territorio e dall’ampliamento dell’accesso alla proprietà abitativa a favore di più ampie fasce di popolazione”.

Poiché la “sanzione” irrogata dal Comune di Scandicci trova il proprio fondamento nella convenzione, la sentenza ha inteso innanzi tutto determinare la natura del potere esercitato, e cioè “se si sia esercitata una potestà pubblicistica oppure un potere civilistico”. Secondo la sentenza:

- “l’accordo è uno strumento di matrice civilistica che viene utilizzato dall’amministrazione per raggiungere fini di interesse pubblico, i quali si riverberano sul medesimo condizionandolo laddove, e nella misura in cui, per legge o per pattuizione delle parti essi entrino a far parte della sua causa. L’utilizzo degli accordi nel campo del diritto pubblico è dunque condizionato dal motivo per il quale l’amministrazione si induce a stipularlo, ossia la realizzazione di fini di pubblico interesse”, il quale costituisce anche “un criterio di interpretazione”;

- tuttavia, il “condizionamento” dell’accordo non è totale ma “limitato a quelle parti in cui i rapporti tra i contraenti dell’accordo vengono, per legge o pattuizione in esso contenuta, disciplinate in modo particolare rispetto al contratto di diritto civile”;

- nondimeno, negli accordi amministrativi “all’interesse della parte pubblica si affianca quello della parte privata, la quale vi interviene per una sua finalità individuale ed egoistica, non fosse altro che quella di ridurre l’impatto e le conseguenze negative che altrimenti gli perverrebbero dall’azione unilaterale della P.A.”;
ne consegue che “è proprio in virtù della loro natura ambivalente, che negli accordi - e in quelli sostitutivi di provvedimento in particolare – coesistono la medesima capacità che avrebbe avuto il provvedimento sostituito di costituire, modificare o estinguere poteri o facoltà della parte privata, con l’assunzione di vere e proprie obbligazioni di diritto civile, l’oggetto delle quali è individuato dalla prestazione al cui adempimento le parti si sono reciprocamente vincolate”;

- in definitiva, l’accordo di diritto pubblico costituisce “una fattispecie mista che da luogo ad un tertium genus tra provvedimento e contratto, nel quale la causa consiste nella realizzazione di specifici obiettivi di pubblico interesse, costituenti il motivo per cui l’amministrazione si induce a stipulare l’accordo medesimo”.

In definitiva, nel caso di specie, il Comune di Scandicci “ha fatto uso di un potere fondato e disciplinato unicamente dall’art. 9 della convenzione, nel quale non si ravvisa alcuna caratterizzazione pubblicistica”. Secondo la sentenza impugnata, “tale potere trae fonte esclusivamente dall’accordo e non risulta disciplinato in modo particolare rispetto alla penale di cui all’art. 1382 del codice civile”.

Ne consegue che il Comune ha irrogato la penalità “nell’esercizio di un potere privatistico, pur se finalizzato a realizzare obiettivi di pubblico interesse che restano, però, nel caso di specie, confinati nell’ambito dei motivi e non ridondano nella causa del contratto”.

Al potere esercitato, quindi, “non sono applicabili le norme che disciplinano l’esercizio del potere sanzionatorio repressivo della pubblica amministrazione”.

Sulla base di tali considerazioni, la sentenza ha rigettato i primi cinque motivi di ricorso, con i quali si è variamente censurato un uso non corretto del potere sanzionatorio da parte della pubblica amministrazione.

2.3. La sentenza ha successivamente proceduto, onde rispondere alla “tesi dell’inadempimento non imputabile”, articolata da una ulteriore pluralità di motivi di ricorso, alla “verifica della condotta tenuta dalla cooperativa in relazione a fattori straordinari, imprevedibili ed inevitabili secondo l’ordinaria diligenza, alla stregua dei principi sanciti dagli artt. 1218 e 1467 c.c.”.

Basandosi su quanto risultante dalla disposta consulenza tecnica di ufficio – la quale ha effettivamente accertato “come i costi dell’intervento abbiano subito una indiscutibile lievitazione nel periodo intercorso tra il 1999, anno di pubblicazione del bando per la scelta dell’operatore privato, e il 2006, anno di stipula della convenzione”, mentre non vi sono state variazioni di rilievo tra il 2006 ed il 2009/10, “epoca di completamento delle opere e di cessione degli alloggi agli acquirenti” – la sentenza tuttavia conclude affermando che va escluso “che l’applicazione di prezzi massimi di cessione eccedenti il limite convenzionalmente stabilito fra le parti si giustifichi sul piano della non imputabilità dell’inadempimento contestato dal Comune”. Ciò in quanto:

- in linea generale, la predisposizione dello schema di convenzione ad opera della parte pubblica non toglie che la manifestazione di volontà del privato continui a costituire elemento essenziale per la formazione dell’accordo;

- posto che “al momento della sottoscrizione della convenzione, i fattori cui la ricorrente ascrive l’aumento dei costi di realizzazione dell’intervento avevano ormai dispiegato i propri effetti, a quegli stessi fattori non può essere riconosciuto il ruolo di sopravvenienze imprevedibili, giustificative dell’inadempimento all’obbligo di rispettare i prezzi massimi di cessione stabiliti dall’art. 9, quanto, in ipotesi, quello di circostanze incidenti sull’equilibrio sinallagmatico originario e, come tali, sulla validità del consenso prestato dall’operatore privato”, di modo che essi possono “eventualmente dare luogo ad un vizio genetico, ma non funzionale, dell’accordo”;

- tuttavia l’appellante, “in quanto operatore professionale del settore edilizio, non può in definitiva invocare quale esimente della responsabilità per il proprio inadempimento l’inadeguatezza del prezzo massimo da essa liberamente pattuito, essendo in possesso di tutti gli strumenti necessari per avvedersi ab origine dell’impossibilità di contenere i prezzi di cessione nei limiti a suo tempo stabiliti dal bando del 1999”.

A ciò deve essere aggiunto che:

- per effetto dell’art. 1382 c.c., in base al quale la clausola penale ha l’effetto di determinare anticipatamente e in misura forfettaria il risarcimento del danno da ritardo o da inadempimento, indipendentemente dalla prova del danno medesimo, consegue che “ai fini dell’applicazione della penale non occorre alcuna indagine ulteriore in ordine all’entità del pregiudizio concretamente sofferto dagli interessi garantiti dalla apposizione stessa della penale”;

- né è possibile una interpretazione adeguatrice e di buona fede della convenzione, nel senso della possibilità di ritenere ammissibili prezzi di cessione superiori a quelli stabiliti dall’art. 9 (purchè in presenza di congrue e motivate ragioni giustificative), poiché “il ricorso alla integrazione del contratto, ai sensi dell’art. 1374 c.c. . . . presuppone pacificamente che la volontà dei contraenti presenti profili di incompletezza o ambiguità . . . così come l’utilizzo delle regole sull’interpretazione oggettiva dei contratti, ivi compreso l’art. 1366 c.c. sull’interpretazione di buona fede, implica la difficoltà di chiarire quale sia stata la comune interpretazione delle parti”. Ciò in quanto la convenzione non presenta “lacune contenutistiche o oscurità interpretative”, di modo che se il meccanismo ivi previsto non è “in grado di garantire l’equilibrio costi–ricavi, è questione non risolvibile in via di integrazione/interpretazione dell’accordo, giacchè di quale sia stata la reale volontà delle parti all’atto della stipula non può ragionevolmente dubitarsi”.

2.4. La sentenza ha inoltre escluso che la previsione dell’art. 9 della convenzione sia affetta da nullità per violazione di norme imperative e/o per mancanza o illiceità della causa (sostenendosi a tal fine che l’implicito presupposto della volontà negoziale sarebbe stato rappresentato da un prezzo remunerativo, idoneo ad assicurare l’equilibrio costi/ricavi e- in presenza di clausola nulla – questa sarebbe sostituita di diritto dai principi posti dalla normativa sull’edilizia convenzionata). L’argomentazione della sentenza è la seguente:

- per un verso, ed in termini generali “l’equivalenza oggettiva delle prestazioni (non) costituisce un requisito necessario dei contratti di scambio, essendo le parti libere di determinare l’entità della prestazione e della controprestazione”;

- nel caso di specie, peraltro, lo scostamento tra i prezzi di cessione praticati e quelli determinati dalla CTU a norma della convenzione “è in media del 18%”, cioè “un valore ben lontano da quella sproporzione ultra dimidium che, ai sensi dell’art. 1448 c.c., consente di assegnare rilievo all’altrimenti irrilevante squilibrio tra le prestazioni ai fini del rimedio rescissorio”;

- per altro verso, “la causa dell’accordo non può essere rinvenuta nella rimuneratività del risultato economico dell’affare per la parte privata, essendo anzi estranea al negozio di cui trattasi ogni finalità lucrativa”.

In definitiva – secondo la sentenza impugnata – non ricorre alcuna contrarietà a norme imperative, né sono riscontrabili la mancanza o illiceità della causa, “dovendo questa rinvenirsi non nella rimuneratività dell’intervento edilizio, ma nella necessità di contenere il prezzo di vendita degli alloggi nei limiti fissati dalla stessa convenzione a tutela della finalità di pubblico interesse di soddisfare le esigenze abitative popolari mediante il calmieramento del mercato, propria dell’istituto disciplinato dall’art. 35 della l. n. 865/1971”.

2.5. La sentenza ha, infine, affrontato le questioni relative alla determinazione in concreto dell’entità della penale, ribadendo, appunto, che nel caso di specie non ricorre esercizio di potere sanzionatorio pubblicistico.

Quanto alla supposta “eccessiva onerosità” della somma da corrispondere, in applicazione dell’art. 9 della convenzione, la sentenza sottolinea che il criterio di valutazione da utilizzare “al fine di ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela . . . ha natura oggettiva, dovendosi tener conto non della situazione soggettiva del debitore e del riflesso che la penale possa avere nel suo patrimonio, ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle parti, senza che occorrano ragioni di pubblico interesse che ne giustifichino l’ammontare”

Nel caso di specie, peraltro, non viene dimostrata l’eccessiva onerosità della somma che la cooperativa dovrà versare a titolo di penale, che, peraltro, il Comune di Scandicci, con la delibera n. 162/2011, ha contenuto nel limite minimo di oscillazione previsto dall’art. 9 della convenzione.

Quanto alla concreta determinazione della differenza di prezzo (sulla quale calcolare percentualmente la penale):

- il prezzo di cessione deve essere calcolato, ai sensi dell’art. 9, con l’applicazione del prezzo unitario massimo prestabilito per mq. di superficie complessiva (come definita dall’art. 6 D.M. 3 agosto 1994), non potendosi invece considerare “altri elementi quali, in particolare, la superficie assentita con il permesso di costruire”;

- il prezzo di cessione si ottiene scorporando il “valore economico dei miglioramenti personali”, che “costituisce corrispettivo delle integrazioni costruttive concordate, pattuito tra cooperativa e privato”. Si tratta, in questo caso, di una “contrattazione autonoma tra impresa e privato, estranea al rapporto pubblicistico tra comune e cooperativa affidataria dei lavori”;

- gli oneri di preammortamento e di interesse del mutuo assunto non devono essere ricompresi nel limite massimo di prezzo, poiché essi “non rappresentano un costo generale dell’intervento, ma una spesa anticipata dall’impresa a vantaggio di coloro che non dispongono di contanti necessari al pagamento del prezzo di compravendita dell’appartamento”.

3. Avverso tale decisione vengono proposti i seguenti motivi di appello (come desunti e sintetizzati dalle pagg. 31 – 253 del ricorso):

a) violazione dell’art. 35 l. n. 865/1971;
dell’art. 1382 c.c.;
dell’art. 8 l. n. 10/1977 e dell’art. 18 DPR n. 380/2001;
degli artt. 1, 2, 3, 7, 10, 10-bis e 11 l. n. 241/1990;
dell’art. 1 l. n. 689/1981;
violazione del principio del contraddittorio e dei principi di trasparenza e correttezza dell’azione amministrativa;
violazione art. 97 Cost.;
violazione art. 107, co. 6, d. lgs. n. 267/2000;
violazione dei principi generali dell’azione amministrativa;
motivazione carente, illogica e contraddittoria;
ciò in quanto non appare corretto il presupposto generale, secondo il quale l’esercizio delle facoltà aventi origine nell’art. 11 l. n. 241/1990 “troverebbe la sua disciplina esclusivamente nel reciproco scambio di consenso delle parti, così da costituire espressione delle disposizioni civilistiche in materia di obbligazioni e contratti”;
al contrario, l’attività amministrativa “rimane soggettivamente ed intrinsecamente pubblicistica” di modo che “l’esercizio dei poteri che trovano origine negli accordi costituisce l’estrinsecazione di funzioni pubblicistiche, a cui possono essere applicate anche le regole in materia di obbligazioni e contratti, se ciò non è incompatibile con la potestà esercitata”. Di conseguenza, “la sanzione o penale prevista dall’art. 9 non può essere qualificata in termini puramente privatistici”, posto che il suo fondamento non è l’art. 1382 c.c., bensì gli artt. 35 l. n. 865/1971 e 8 l. n. 10/1977 (poi art. 18 DPR n. 380/2001);
in conclusione, “il Comune - in un ambito in cui esercita poteri pubblicistici – non può introdurre sanzioni o penali che nella disciplina pubblicistica della materia non trovano alcuna fonte”, né “il Comune subisce alcun danno dall’aumento dei prezzi degli alloggi realizzati”.

Di conseguenza, l’appellante ripropone alla considerazione del Giudice di appello le doglianze esposte con i primi cinque motivi di ricorso, e precisamente:

a1) violazione degli artt. 3, 7 e 10 l. n. 241/1990;
violazione del principio del contraddittorio e dei principi di trasparenza e di correttezza dell’azione amministrativa;
eccesso di potere per contraddittorietà e per difetto assoluto di motivazione, essendo mancata la comunicazione di avvio del procedimento e, dunque, ogni fase partecipativa coinvolgente il privato;

a2) violazione degli artt. 1, 3, 7 e 10 l. n. 241/1990;
art. 97 Cost.;
art. 107, co. 6, d. lgs. n. 267/2000;
eccesso di potere per carenza di motivazione, contraddittorietà, illogicità manifesta, difetto assoluto di istruttoria;
poiché non si è “tenuto conto delle memorie istruttorie e delle relative relazioni tecniche”, così non evidenziando – ai fini della determinazione della sanzione – la corretta individuazione della superficie complessiva, le migliorie espressamente consentite;
le migliorie “personali” richieste dagli acquirenti”;

a3) violazione artt. 1 e 2 l. n. 241/1990;
violazione dei principi generali dell’azione amministrativa;
eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà;
poiché il provvedimento sanzionatorio è stato emanato senza che l’amministrazione abbia tenuto conto delle istanze con le quali si era richiesto di interpretate ed eventualmente modificare la convenzione “in modo da pervenire al risultato di riconoscere che il prezzo di cessione dell’alloggio era congruo e rispondente ai principi in materia di edilizia PEEP”;

a4) violazione artt. 2, 3, 7, 10 e 10-bis l. n. 241/1990;
violazione dei principi generali dell’attività amministrativa, poiché la reiezione delle istanze dell’attuale appellante – peraltro priva di motivazione - non è stata preceduta dalla comunicazione dei motivi ostativi e contrasta con gli esiti dell’istruttoria di cui alla nota 31 gennaio 2012 del dirigente del settore edilizia ed urbanistica;

a5) violazione degli artt. 1 l. n. 689/1981;
35 l. n. 865/1971;
8 l. n. 10/1977 e 18 DPR n. 380/2001;
carenza assoluta di potere;
eccesso di potere per perplessità manifesta;
ciò in quanto ”l’istituto che il Comune di Scandicci ha utilizzato (è) quello della sanzione amministrativa”, e “le sanzioni amministrative possono essere disposte solo dal legislatore, quando ritiene di sanzionare comportamenti antisociali non di gravità tale da giustificare l’applicazione di una sanzione penale”;
in ogni caso, fermo che “la potestà sanzionatoria deve essere prevista dalla legge”, la legge stessa “deve contenere quantomeno indicazioni e parametri per la concreta determinazione della sanzione”. A fronte di ciò, “nessun fondamento legislativo vi è che possa giustificare l’applicazione . . . della sanzione irrogata con il provvedimento impugnato”;

b) violazione art. 133 Cpa;
violazione art. 11 l. n. 241/1990;
motivazione carente, illogica e contraddittoria;
poiché alla reiezione della proposta eccezione di irricevibilità per tardività della impugnazione della convenzione – reiezione condivisa nell’esito – occorre pervenire con diversa motivazione , e cioè – in coerenza con la natura pubblicistica degli accordi e dei poteri esercitati dall’amministrazione – affermandosi che dagli accordi nascono posizioni di diritto soggettivo perfetto e i rapporti nascenti dagli accordi sono disciplinati da norme di relazione, con conseguente esclusione di ogni applicabilità della decadenza alle impugnazioni proposte;

c) violazione art. 35 l. n. 865/1971;
violazione art. 1382 c.c.;
violazione art. 8 l. n. 10/1977 e 18 DPR n. 380/2001;
motivazione carente, illogica e contraddittoria;
illegittimità derivata;
laddove la sentenza esclude, in via generale (par. 9) la natura provvedimentale delle ordinanze impugnate;

d) violazione art. 11 l. n. 241/1990;
art. 3 l. n. 689/1981;
artt. 1218 e 1382 c.c.;
violazione dei principi generali in materia di sanzioni amministrative e di penali civilistiche;
violazione dei principi in materia di edilizia economica e popolare;
motivazione carente, illogica e contraddittoria;
poiché “il formale superamento del prezzo previsto dall’art. 9 della Convenzione è dovuto ad una serie di elementi indipendenti dalla volontà e dal comportamento (dell’attuale appellante) ma imputabili in gran parte all’amministrazione comunale”. Pertanto, la sentenza “avrebbe dovuto tener conto di tutti quei fattori di aumento dei costi che si sono verificati nel periodo 1999-2006, che hanno condotto la ricorrente a dover necessariamente incrementare i prezzi degli alloggi rispetto a quelli stabiliti nel bando e nella convenzione”, riconoscendosi al tempo stesso “la necessità di applicare, quale meccanismo di adeguamento dei prezzi, quello dell’incremento della variazione dell’indice ISTAT dei costi di costruzione, dalla data di stipula della convenzione a quella dei rogiti notarili di assegnazione degli alloggi”;

e) violazione dei principi generali in materia di sanzioni amministrative;
violazione artt. 1218 e 1382 c.c.;
motivazione errata, illogica e contraddittoria, poiché l’applicazione di una conseguenza sfavorevole a carico del privato (che si tratti di sanzione o di penale) richiede la violazione dell’interesse pubblico tutelato dalla norma sanzionatoria e/o che abbia arrecato un pregiudizio al soggetto cui quell’interesse è riferibile;
al contrario, nel caso di specie, non è presente alcun danno e dunque “difetta il presupposto per l’applicazione di ogni penale civilistica” e, poiché “il prezzo praticato è quello che deriva dalla corretta applicazione delle norme e dei principi in materia di alloggi PEEP. . . ciò significa che non vi è alcuna violazione di profili di interesse pubblico, né vi è alcun possibile pregiudizio agli interessi la cui tutela possa competere al Comune di Scandicci”;

f) violazione degli artt. 1175, 1337, 1339, 1362, 1363, 1366, 1368, 1371, 1374 e 1375 c.c.;
violazione del principio di buona fede;
violazione art. 4, lett. c) e art. 6, co. 1, lett. f) della convenzione del 2 marzo 2006;
motivazione carente, illogica e contraddittoria;
ciò in quanto – rilevato un “insanabile contrasto” tra la relazione generale al Programma Integrato di Intervento e la Convenzione, che pure la richiama – il principio desumibile dalla relazione di “equilibrio costi/ricavi – rimuneratività dell’intervento”, deve “costituire la chiave per interpretare la Convenzione nel momento in cui il prezzo, rigidamente e formalmente determinato secondo il meccanismo dell’art. 9, risulta essere un prezzo assolutamente irreale che non assicura l’equilibrio costi/ricavi e che non remunera il livello qualitativo (architettonico e funzionale) degli edifici”. Ne consegue che “il prezzo indicato nella Convenzione deve essere ricondotto ad equità”, e ciò anche in forza del principio di buona fede;

g) violazione artt. 1418, 1325 e 1343 c.c.;
art. 35 l. n. 865/1971;
art. 8 l. n. 10/1877 e 18 DPR n. 380/2001;
motivazione carente, illogica e contraddittoria, poichè la pattuizione relative al prezzo, se non interpretata nel senso innanzi proposto, è “invalida e/o nulla, essendo il prezzo medesimo assolutamente inadeguato rispetto all’intervento realizzato”, poiché “le norme e gli atti amministrativi devono preoccuparsi anche . . . di consentire all’assegnatario dell’area di ottenere – attraverso l’assegnazione degli alloggi – il recupero di tutte le spese sostenute ed anche un margine di utile”, con la conseguenza che “ove ciò non si realizzi, si può fondatamente denunciare la nullità della convenzione per assenza di causa”;

h) violazione art. 1384 c.c.;
violazione art. 11 l. n. 689/1981;
violazione dei principi generali in materia di sanzioni amministrative e di penali civilistiche;
motivazione carente, illogica e contraddittoria;
stante la esorbitanza ed irragionevolezza degli importi (quale che sia la natura del titolo) richiesti dal Comune di Scandicci. Ed infatti “anche alle conseguenze patrimoniali sfavorevoli inserite nelle convenzioni stipulate tra l’amministrazione ed i soggetti privati – aventi natura di accordi ex art. 11 l. n. 241/1990 – si applicano i principi di proporzionalità”, con la conseguenza che il giudice “avrebbe dovuto ridurre la sanzione o penale, anche ai sensi dell’art. 1384 c.c., in quanto di misura assolutamente arbitraria ed esorbitante, anche in relazione all’interesse oggettivo del preteso creditore (l’amministrazione comunale)” ;

i) violazione artt. 6, 7 e 9 della convenzione del 2 marzo 2006;
violazione art. 6 D.M. 5 agosto 1994;
motivazione carente, illogica e contraddittoria;
in quanto la sentenza deve essere censurata “nella parte in cui non assume la superficie complessiva effettivamente realizzata (“Sc”)” ai fini del calcolo del prezzo (e dunque della conseguente penalità). Inoltre, la sentenza è contestata per il fatto che ”non contiene l’integrale valutazione delle superfici extrasagoma (quindi senza la limitazione del 50% effettuata dal CTU) e non computa correttamente i vani scala, le mansarde ed i terrazzi e le coperture piane in copertura (e quindi recepisce le riduzioni operate dal CTU);

l) violazione artt. 6, 7 e 9 della convenzione del 2 marzo 2006;
motivazione carente, illogica e contraddittoria;
in quanto non sono state considerate le migliorie di cui all’art. 6, primo comma, lett. f) della convenzione, posto che esse “sono state la conseguenza o di normative (tecniche e del corretto costruire) sopravvenute, o della diversa progettazione imposta dall’amministrazione comunale, oppure di carenze del PEEP messo a bando”;

m) motivazione carente, illogica e contraddittoria, con riferimento alla parola “scorporo”, utilizzata in riferimento alla (pur ammessa dalla sentenza) considerazione delle migliorie personali, potendo essa intendersi come “sottrazione”;

n) motivazione carente, illogica e contraddittoria;
violazione artt. 3, lett. a) e 9 Convenzione del 2 marzo 2006;
laddove non si ritenga di computare i “maggiori oneri di esproprio”;
e dunque si ripropone - in via tuzioristica, atteso quanto affermato in sentenza al paragrafo 18 – il motivo del ricorso in I grado;

o) motivazione carente, illogica e contraddittoria;
illegittimità derivata;
con riferimento alla più precisa indicazione in sentenza dei motivi accolti.

Infine, l’appellante rimette al Collegio ogni valutazione circa la necessità di disporre una nuova CTU.

4. Si è costituito in giudizio il Comune di Scandicci, con memoria (di 76 pagine) recante anche appello incidentale.

Innanzi tutto, il Comune ha comunque richiesto il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

Inoltre, il Comune ha impugnato la sentenza (pur ritenuta “nella sostanza satisfattiva dei diritti e degli interessi dell’amministrazione comunale”: v. pag. 44 memoria), proponendo i seguenti motivi di appello:

aa) violazione art. 88 Cpa;
erroneità della motivazione;
violazione e falsa applicazione art. 35 l. n. 865/1971 e art. 11 l. n. 241/1990;
ciò in quanto - pur aderendo alla riconduzione della penale di cui all’art. 9 della Convenzione all’esercizio di un potere privatistico ancorchè finalizzato al perseguimento di un interesse pubblico – la sentenza “ha trascurato di considerare il fondamento normativo, oltre che pattizio, della penale applicata dal Comune, rappresentato dall’art. 35 della l. n. 865 del 1971”, ed in particolare il comma 14 del medesimo, in cui “si trova anche la copertura legislativa della penale prevista dalla convenzione”, penale che è dunque “contenuto necessario, prima ancora che pattizio, della convenzione”;

bb) violazione art. 88 Cpa;
erroneità della motivazione;
violazione e falsa applicazione art. 35 l. n. 865/1971 e art. 11 l. n. 241/1990;
ciò in quanto gli atti con i quali il Comune ha applicato la penale – a differenza di quanto sostenuto in sentenza – hanno contenuto provvedimentale;
ed infatti, “se si riconosce . . . che le penali applicate dal Comune di Scandicci costituiscono contenuto necessario della Convenzione in forza dell’art. 35 della legge n. 865 del 1971, oltre che dell’art. 1382 c.c., appare di tutta evidenza come non si possa escluderne in alcun modo il carattere lato sensu provvedimentale”;

cc) violazione art. 88 Cpa;
violazione e falsa applicazione art. 35 l. n. 865/1971 e art. 11 l. n. 241/1990;
erroneità della motivazione;
omessa pronuncia;
poiché “l’accoglimento della tesi della Convenzione in termini di accordo sostitutivo del provvedimento e delle penali quale contenuto necessario di essa e, quindi, al pari delle altre disposizioni, norma imperativa, non può che portare a concludere per la tardività delle censure che la cooperativa ha mosso nei confronti della Convenzione”, che avrebbe dovuto essere impugnata entro il termine decadenziale di sessanta giorni (e cioè in detto termine, decorrente “dal momento in cui, nel 2006, hanno sottoscritto la convenzione che prevedeva i medesimi prezzi del 1999 ed un indice di rivalutazione che oggi invece si vuole contestare”. Allo stesso modo, la riproposizione dell’eccezione di tardività riguarda anche l’omessa impugnazione, entro il termine decadenziale, della delibera di GM n. 162/2011, “con cui l’amministrazione comunale ha fissato in due volte la differenza tra il prezzo di cessione effettivamente praticato e quello da convenzione l’ammontare delle penali da applicare per la violazione di quest’ultimo”. Infine, anche a voler condividere la tesi esposta in sentenza in ordine alla natura di diritto soggettivo delle posizioni giuridiche derivanti dagli accordi, la domanda “doveva essere qualificata in termini di azione di annullamento, soggetta quindi, ai sensi dell’art. 1442 c.c. al termine prescrizionale di cinque anni, decorrenti, nei casi diversi dai vizi del consenso o da incapacità legale, dal giorno della conclusione del contratto”;

dd) violazione art. 88 Cpa;
violazione e falsa applicazione D.M. 5 aprile 1994;
carenza e comunque erroneità della motivazione;
difetto di istruttoria;
nella parte in cui la sentenza, fondandosi sulla CTU, determina “un errato computo della superficie complessiva, ivi indicata come Sc*, presa a riferimento per il calcolo del prezzo di cessione come da convenzione”;

ee) violazione art. 88 Cpa;
violazione e falsa applicazione art. 35 l. n. 865/1971 e art. 11 l. n. 241/1990;
omessa pronuncia e comunque carenza e/o erroneità della motivazione;
difetto di istruttoria;
poiché, ai fini del calcolo del prezzo di cessione: ee1) l’aggiornamento del prezzo di cessione degli alloggi mediante applicazione dell’indice ISTAT è stato fatto decorrere dall’aprile 1999 e non già dal gennaio 2000;
ee2) l’esclusione dal prezzo della voce relativa alle migliorie personali può avvenire a condizione che le stesse siano “inequivocabilmente documentate ed espressamente accettate dai richiedenti”;
ee3) nella voce “maggiori oneri espropri” è stato riportato un importo complessivo pedissequamente ricavato dai contratti, senza alcun riscontro con le diverse risultanze documentali agli atti del Comune;

ff) violazione art. 88 Cpa;
carenza e comunque erroneità della motivazione;
omessa pronuncia e difetto di istruttoria;
ciò in quanto – pur concordando con la sentenza laddove essa conclude escludendo che la violazione dei prezzi di cessione sia la conseguenza di “una patologia funzionale del rapporto obbligatorio che ne ha, sostanzialmente, impedito l’adempimento” – non può essere accettato: ff1) che l’aumento dei costi sia dovuto, anche solo in parte, a “presunte sostanziali modifiche apportate al progetto iniziale chieste ed approvate dal Comune”;
ff2) che il detto aumento sia dovuto anche “alla concomitanza di una serie di fattori obiettivi di aumento dei costi, a partire dall’incremento dei prezzi successivo al passaggio dalla lira all’euro, per proseguire con l’entrata in vigore di normative tecniche in campo idraulico-termoacustico e di sicurezza, tutte comportanti maggiori oneri costruttivi”.

Anche il Comune di Scandicci ha richiesto, in via istruttoria, per il caso in cui si ritenesse di non confermare la sentenza impugnata, di disporre una nuova CTU.

4. Sia la Cooperativa edilizia Monte Secchieta, sia il Comune di Scandicci hanno depositato memorie e repliche (per un totale di 61 pagine la prima e di 83 il secondo).

In particolare, con la memoria depositata in data 12 settembre 2016, la Cooperativa ha, innanzi tutto, rappresentato che, successivamente alla proposizione dell’appello, il Comune di Scandicci ha emesso due ordinanze, applicando le sanzioni a tutti i 24 alloggi assegnati alla Cooperativa stessa, per un totale di circa Euro 6.300.000,00;
ordinanze che sono state impugnate innanzi al TAR per la Toscana.

La Cooperativa ha inoltre richiesto il rigetto dell’appello incidentale del comune, stante la sua infondatezza.

Infine, all’udienza pubblica di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

5. L’appello proposto dalla Cooperativa edilizia Monte Secchieta è infondato e deve essere respinto salvo che in relazione al primo motivo, da accogliersi nei limiti di seguito esposti. E’ altresì infondato e deve essere respinto l’appello incidentale proposto dal Comune di Scandicci.

Pertanto, deve essere confermata la sentenza impugnata, con le modifiche ed integrazioni di motivazione di seguito esposte.

6. Al fine di meglio comprendere il thema decidendum della presente controversia – che si caratterizza per particolare complessità in ragione della natura delle questioni trattate e del numero ed ampiezza dei motivi di impugnazione – appare opportuno individuare, per il tramite dei motivi di ricorso, le questioni sottoposte all’esame nel presente giudizio di appello. In sostanza:

a) una prima, preliminare questione (ma che verrà trattata di seguito al secondo ordine di questioni, che ne condiziona l’esame) riguarda la irricevibilità per tardività dell’impugnazione, in quanto rivolta avverso la convenzione del 2006 (il cui art. 9 prevede la penale oggetto di giudizio) e la delibera GM n. 162/2011 (che ne ha definito la misura). A tale questione, pertengono i motivi sub lett. cc) dell’appello incidentale e sub lett. b) dell’appello principale, come riportati nell’esposizione in fatto;

b) un secondo ordine di questioni, riguarda la natura del potere esercitato dalla Pubblica Amministrazione, e cioè se questo abbia fondamento pubblicistico (tale essendo la natura dell’accordo sottoscritto ai sensi dell’art. 11 l. n. 241/1990, ma in questo caso viene contestata dall’appellante principale l’esistenza di un fondamento normativo primario) ovvero privatistico, dovendosi ricondurre (come affermato dalla sentenza impugnata) la penale prevista in convenzione, all’art. 1382 c.c. (ed in questo caso, pur concordando, l’appellante incidentale ritiene comunque carente la motivazione della sentenza). A tale primo ordine di questioni possono essere riportati i motivi sub lett. a) – con riproposizione dei motivi sub lett. da a1) ad a5) – e c) dell’appello principale, nonché i motivi sub lett. aa) e bb) dell’appello incidentale;

c) un terzo ordine di questioni riguarda la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della penale (anche a prescindere dalla natura giuridica della stessa). A tale ordine vanno ricondotti i motivi sub lett. d), e), f) e g) dell’appello principale e – trattandosi di motivo, per così dire, in punto di esatta interpretazione della motivazione della sentenza – anche il motivo sub lett. ff) dell’appello incidentale;

d) infine, un quarto ordine di questioni riguarda la determinazione in concreto della penale, con riferimento ai singoli elementi a tal fine considerati. A tale aspetto vanno riferiti i motivi sub lett. h), i), l), m), n) o) dell’appello principale, e sub lett. dd) ed ee) dell’appello incidentale.

7. 1. Come si è innanzi esposto, la sentenza impugnata ha affermato che il Comune ha irrogato la penalità “nell’esercizio di un potere privatistico, pur se finalizzato a realizzare obiettivi di pubblico interesse che restano, però, nel caso di specie, confinati nell’ambito dei motivi e non ridondano nella causa del contratto”;
un potere, dunque, al quale “non sono applicabili le norme che disciplinano l’esercizio del potere sanzionatorio repressivo della pubblica amministrazione”.

Più precisamente, il Comune di Scandicci “ha fatto uso di un potere fondato e disciplinato unicamente dall’art. 9 della convenzione”, privo di “caratterizzazione pubblicistica” e che “trae fonte esclusivamente dall’accordo e non risulta disciplinato in modo particolare rispetto alla penale di cui all’art. 1382 del codice civile”.

Secondo la sentenza, la convenzione urbanistica (il cui art. 9 prevede la penale in esame) rientra nel più ampio genus degli accordi previsti dall’art. 11 della l. n. 241/1990, definito quale “strumento di matrice civilistica che viene utilizzato dall’amministrazione per raggiungere fini di interesse pubblico, i quali si riverberano sul medesimo condizionandolo”, ma ciò limitatamente “a quelle parti in cui i rapporti tra i contraenti dell’accordo vengono, per legge o pattuizione in esso contenuta, disciplinate in modo particolare rispetto al contratto di diritto civile”;

7.2. La ricostruzione degli accordi ex art. 11 l. n. 241/1990 come “strumenti di matrice civilistica”, e la conseguente riconduzione della “penale” dagli stessi prevista per casi di inadempimento alla “clausola penale”, di cui all’art. 1382 c.c., non è condivisa dalla recente giurisprudenza della Sezione (si vedano, tra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 19 agosto 2016 n. 3653 e 3 dicembre 2015 n. 5510), con considerazioni che si intendono ribadire e precisare nella presente sede..

Come è noto, la legge 7 agosto 1990 n. 241 disciplina nell’art. 11, in via generale, gli “accordi” tra privati e pubblica amministrazione;
e ciò ancora oggi, pur dopo che il legislatore, con la modifica introdotta dalla legge n. 15/2005, ha sostituito alla precedente rubrica, quella, di ambito più ristretto, recante “accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento”.

Nell’ambito della predetta disposizione, risultano convivere (ed essere unitariamente disciplinate) figure affatto diverse, per le quali le norme del medesimo articolo non possono trovare applicazione uniforme (o non sempre possono trovare applicazione), poiché non omogenea è la figura di accordo concretamente considerata.

Come segnalato da subito dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato (parere 17 febbraio 1987 n. 7/1987). sotto la comune dizione di “accordi”, sono richiamati (e succintamente disciplinati) sia moduli più propriamente procedimentali, cioè attinenti alla definizione dell’oggetto dell’esercizio del potere provvedimentale, sia accordi con contenuto più propriamente contrattuale, veri e propri contratti ad oggetto pubblico – secondo una definizione comunemente invalsa - in quanto disciplinanti aspetti patrimoniali connessi all’esercizio di potestà.

La presenza contemporanea delle due figure rende distinta e, per così dire, “asimmetrica” l’applicazione delle stesse norme desumibili dall’art. 11, quali, in particolare, il comma 2, relativo all’applicabilità dei principi del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, ovvero il comma 4, concernente la possibilità offerta alla P.A. di recesso dall’accordo.

Per un verso, dunque, la generale disciplina dell’art. 11 trova applicazione (anche) nel caso di “convenzioni” con contenuto patrimoniale, afferenti tuttavia al previo esercizio di potestà (quegli atti bilaterali che sono ordinariamente ricondotti alla categoria definita come “contratti di diritto pubblico” o “a oggetto pubblico”);
per altro verso, essa deve applicarsi anche ad ipotesi in cui, difettando ogni “substrato patrimoniale”, il richiamo – ad esempio – alla applicabilità dei principi del codice civile in tema di obbligazioni e contratti, risulta avere un ambito di applicazione se non nullo, certamente più ristretto.

7.3. In particolare, nell’ambito degli accordi privi di contenuto patrimoniale, occorre ulteriormente distinguere tra “accordi integrativi del provvedimento”, la cui funzione è quella di “determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale”, ed “accordi sostitutivi del provvedimento”, che, appunto, a quest’ultimo si sostituiscono.

Nel primo caso, l’accordo rappresenta solo una modalità della fase decisionale, nella quale la definizione del contenuto concreto dell’esercizio della potestà non avviene unilateralmente, bensì attraverso la partecipazione attiva dell’interessato all’emanazione del provvedimento finale.

In questa ipotesi, anzi, può affermarsi che il più rilevante momento partecipativo offerto dalla l. n. 241/1990 al privato è costituito proprio dal suo possibile coinvolgimento nella fase decisionale.

Infatti, come è evidente, l’accordo costituisce solo un modulo interno al procedimento, privo di rilevanza esterna, poichè il procedimento è destinato comunque a concludersi con l’emanazione del provvedimento finale, ed allo stesso risultano poco applicabili – proprio perché “non compatibili” - i principi del codice civile in tema di obbligazioni e contratti.

Né tale accordo può, ovviamente, incidere sull’ambito e limiti dell’esercizio legittimo del potere discrezionale.

Se, infatti, ciò che costituisce l’oggetto dell’accordo è “il contenuto discrezionale del provvedimento”, deve necessariamente escludersi che – con riferimento ad un caso concreto – possano rappresentarsi (come mera conseguenza di due differenti modalità procedimentali) due distinti modi, ambedue legittimi, di esercizio del potere discrezionale, e ciò come conseguenza del fatto che la definizione del “contenuto” avvenga unilateralmente o per il tramite di accordo.

Ciò che si realizza nel caso di specie, come si è già affermato, è solo la partecipazione attiva dell’interessato alla fase decisionale, in modo che, attraverso la diretta rappresentazione (anche in questa fase) della propria posizione di interesse legittimo, quest’ultimo riesca ad ottenere una tutela maggiore ed una migliore “parametrazione” della discrezionalità, derivante proprio dal confronto rispetto ad una valutazione e scelta unilateralmente assunti.

Allo stesso tempo, appare evidente come gli elementi essenziali del contratto (ex art. 1325 c.c.), ed in particolare, la causa, non risultano coerenti con tale tipo di accordo, proprio perché non sussiste alcun contenuto patrimoniale riconducibile allo stesso.

In definitiva, la partecipazione procedimentale disciplinata dal Capo III della l. n. 241/1990, vista come una migliore forma di tutela della posizione sostanziale fin dal procedimento amministrativo (e, dunque, prima del momento epifanico di esercizio del potere), raggiunge il suo momento più pieno, superando il limite della fase istruttoria (cui sono dedicati gli artt. 7 – 10 l. n. 241/1990), per proporsi anche (sempre che l’amministrazione lo consenta, ai sensi del comma 4-bis dell’art. 11) nella fase decisionale.

Il “vantaggio” di tale accordo per l’amministrazione – che ben potrebbe procedere unilateralmente – consiste nella migliore comparazione degli interessi (pubblico e privato) coinvolti, con un esercizio del potere discrezionale tendenzialmente più adeguato al caso concreto, e con il risultato della inoppugnabilità dell’atto emanato da parte del diretto interessato, che, sottoscrivendo l’accordo, vi ha prestato acquiescenza.

7.4. L’accordo sostitutivo di provvedimento, invece, costituisce, in senso stretto, un atto – bilaterale e non unilaterale – di conclusione del procedimento amministrativo, con il quale, all’esercizio unilaterale del potere discrezionale, si sostituisce la definizione consensuale del caso concreto, di modo che gli effetti giuridici che sarebbe derivati dal provvedimento amministrativo, conseguono ora all’accordo delle parti.

Questa figura “più ristretta” di accordo sostitutivo si accompagna ad altre figure - ad essa affini ma non identiche - rappresentate da quegli accordi cd. ausiliari e/o accessivi al provvedimento (si pensi al caso delle cd. concessioni-contratto) ovvero ad accordi sostitutivi di procedimento (dove il modulo bilaterale è sostitutivo non solo del provvedimento finale, ma anche dell’intero procedimento o di parte di esso, come nel caso delle convenzioni di lottizzazione e, in genere, delle convenzioni urbanistiche).

In queste ipotesi, l’accordo regola aspetti patrimoniali dell’esercizio della potestà e, dunque, è riconducibile alla figura del cd. “contratto ad oggetto pubblico”.

7.5. In tale variegato contesto, sia la imperatività del provvedimento amministrativo, sia la applicazione dei principi in tema di obbligazioni e contratti agli accordi dell’amministrazione (riconducibili o meno alla generale figura del contratto), incontrano limiti conseguenti alla tipologia di accordo cui gli stessi devono essere applicati.

In linea generale, non appare possibile affermare che gli accordi tra privati e pubblica amministrazione sono accordi che ricadono sotto la (diretta) disciplina del diritto privato. Ed infatti:

- sul piano normativo, l’art. 1, co. 1, l. n. 241/1990, nel disciplinare in via generale l’azione della Pubblica Amministrazione, prevede che questa agisca “secondo le norme di diritto privato” nei soli casi di atti di natura non autoritativa, e salvo che, anche in tali specifiche ipotesi, “la legge disponga diversamente”. Ciò, per un verso, fa comprendere come l’applicazione delle norme di diritto privato all’attività amministrativa costituisca – in sostanza e alla luce della normativa ora vigente - eccezione e non regola;
per altro verso, rende necessario comprendere se gli accordi sostitutivi (o taluni di essi) possano effettivamente essere considerati privi di natura autoritativa, posto che basta rilevare, in senso favorevole alla persistenza dell’autoritatività, la loro idoneità a produrre effetti anche nella sfera giuridica di terzi, come è invece impossibile che avvenga per gli ordinari contratti, alla luce dell’art. 1372 c.c.;

- sempre sul piano normativo, il co.

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