Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2020-08-17, n. 202005057

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2020-08-17, n. 202005057
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202005057
Data del deposito : 17 agosto 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 17/08/2020

N. 05057/2020REG.PROV.COLL.

N. 02639/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2639 del 2020, proposto da
A L, L Z, rappresentati e difesi dagli avvocati R B, P F, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio P F in Roma, via Cola di Rienzo n. 180;

contro

Comune di Venezia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati A I, N O, Nicolo' Paoletti, G V, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Nicolo' Paoletti in Roma, via Barnaba Tortolini n.34;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) n. 00177/2020, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Venezia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 luglio 2020 il Cons. G O.

L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84 comma 5 del Dl. n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa.

Ai sensi dell'art. 4 del D.L.30 aprile 2020, n.28 gli avvocati R B e Nicolò Paoletti depositano istanza di passaggio in decisione.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il Tar per il Veneto ha respinto con la sentenza impugnata indicata in epigrafe il ricorso introduttivo presentato dagli odierni appellanti per l’annullamento del provvedimento del Comune di Venezia protocollo n. 61109 del 31 gennaio 2018 concernente la domanda relativa alla definizione di illeciti edilizi e il ricorso per motivi aggiunti per l’annullamento del provvedimento del Comune di Venezia protocollo n. 445985 del 18 settembre 2018 relativo all’ordinanza di demolizione delle stesse opere;
ha altresì dichiarato inammissibile la domanda di accertamento dell’inadempimento all’obbligo di provvedere sull’istanza di attuazione del PAT e condannato l’amministrazione al pagamento delle somme indebitamente corrisposte dai ricorrenti.

Sul terreno ereditato dagli odierni appellanti era stato realizzato senza titolo uno stabile, separato dal capannone già esistente adibito ad officina meccanica, per collocarvi i nuovi uffici della ditta. La relativa domanda di condono era stata respinta con il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo. Successivamente, i ricorrenti hanno presentato un’istanza per modificare la destinazione urbanistica del fondo da agricola in “area di riqualificazione e riconversione”, che è stata riscontrata dal comune di Venezia con la nota del 26 febbraio 2018. Con il provvedimento adottato il 18 settembre 2018, impugnato con i motivi aggiunti, il Comune ha infine ordinato la demolizione del fabbricato.

2. L’appello deduce l’erroneità della sentenza di primo grado sulla base di nove motivi di gravame.

3. Il Comune di Venezia si è costituito in giudizio con atto del 31 marzo 2020, presentando memorie in data 3 aprile 2020 e 27 maggio 2020.

Gli appellanti hanno depositato una memoria il 26 maggio 2020 e una memoria di replica il 10 giugno 2020.

4. Nell’udienza del 2 luglio 2020 la causa è stata trattenuta in decisione.

5. L’appello non è fondato.

5.1. Con il primo motivo gli appellanti rilevano la erroneità della sentenza appellata con riguardo alla prima censura del ricorso principale di primo grado, che contestava l’eccesso di potere per manifesta contraddittorietà tra atti e provvedimenti della medesima pratica e la violazione e falsa applicazione dell’articolo 32 del decreto legge n. 269 del 2003, nonché dell’articolo 3 della legge regionale del Veneto n. 21 del 2004 . In sostanza, viene evidenziata la contraddittorietà tra il preavviso di diniego, nel quale si afferma l’applicabilità di una norma concernente gli ampliamenti e il provvedimento definitivo, che è motivato sulla base del carattere di nuova costruzione dell’opera oggetto di domanda di condono.

Il motivo non merita accoglimento.

La comunicazione del Comune dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda di sanatoria, oltre a indicare i limiti degli ampliamenti a destinazione diversa da quella industriale, artigianale e agricolo- produttiva, sottolinea espressamente che “il fabbricato oggetto della presente domanda di condono presenta caratteristiche di autonomia funzionale ad uso direzionale in quanto in grado di produrre reddito da solo…”.

Il provvedimento impugnato motiva il diniego precisando che il fabbricato presenta “ autonomia funzionale e specifica rilevanza, è costruzione stabilmente fissa al suolo insistente in proprio lotto…”, ha “destinazione ad uso direzionale, catastalmente inquadrato come categoria A10 uffici privati” .

Non si rileva quindi una contraddizione tra i due atti del Comune, quanto piuttosto una prospettazione complessa dei motivi ostativi (limiti di ampliamento e autonomia funzionale) cui ha fatto seguito il provvedimento basato sull’inquadramento dell’abuso come nuova opera proprio in ragione dell’autonomia funzionale rispetto all’edificio preesistente.

5.2. Con il secondo motivo si afferma la erroneità della sentenza impugnata con riguardo alla seconda censura del ricorso principale di primo grado per violazione e falsa applicazione dell’articolo 10 bis della legge numero 241 del 1990 e dell’articolo 97 della Costituzione nonché dei principi di trasparenza, contraddittorio e giusto procedimento. Il Tar, secondo gli appellanti, non si sarebbe pronunciato sulla censura (distinta dalla successiva) relativa alla violazione dei principi di trasparenza e partecipazione dell’azione amministrativa derivante dalla modificazione della motivazione del diniego tra il preavviso e il provvedimento definitivo.

Anche tale motivo deve essere respinto. Il giudice di primo grado ha rilevato che dal complesso dei motivi ostativi comunicati dal Comune è possibile ricavare la motivazione che ha poi condotto al diniego del condono e, in base a ciò, ha respinto la censura di contraddittorietà e di modificazione della motivazione che avrebbe determinato la violazione delle norme sulla partecipazione procedimentale. Tale giudizio deve essere confermato alla luce dei riferimenti contenuti nella comunicazione di avvio del procedimento alla autonomia funzionale dello stabile abusivo e alla conseguente sua qualificazione come nuova opera e non come ampliamento.

5.3. Con il terzo motivo viene rilevata l’erroneità della sentenza impugnata con riguardo alla terza censura del ricorso di primo grado per violazione e falsa applicazione dell’articolo 10 bis della legge n. 241, dell’articolo 97 della Costituzione, nonché dei principi di trasparenza . La modificazione della motivazione ha determinato, ad avviso degli appellanti, la impossibilità di interloquire con l’amministrazione sulla nuova motivazione prima dell’emissione del provvedimento conclusivo.

La censura non può essere accolta. Nella comunicazione di avvio del procedimento l’amministrazione ha rilevato quali elementi ostativi al condono i limiti di ampliamento fissati dalla legislazione regionale per le destinazioni diverse da quelle industriali, artigianali e agricolo-produttive e ha evidenziato l’autonomia funzionale dello stabile abusivo rispetto a quello esistente a destinazione artigianale. La mancanza del nesso funzionale tra i due edifici, nella prospettazione del Comune, ha costituito l’impedimento per qualificare come artigianale la destinazione di quello oggetto dell’istanza di condono e conseguentemente di assoggettarlo ai limiti di ampliamento previsti per tale destinazione. Gli appellanti, nelle osservazioni proposte sull’atto di preavviso, hanno contestato il mancato inserimento dell’immobile nella destinazione artigianato in ragione del nesso con il preesistente immobile adibito ad officina: hanno quindi potuto interloquire con il Comune sulla natura autonoma o meno dello stabile abusivo ed è stato proprio tale elemento a risultare poi decisivo per la qualificazione di nuova opera adottata nel provvedimento di diniego.

5.4. Con il quarto motivo viene contestata la decisione della sentenza impugnata con riguardo alla quarta censura del ricorso di primo grado per violazione e falsa applicazione dell’articolo 3, comma 1, della legge regionale del Veneto n. 21 del 2004, nonché dell’articolo 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 sotto altro profilo e per violazione e falsa applicazione dell’articolo 23 ter del d.p.r. n.380 del 2001, dell’articolo 115 c.p.c., delle leggi regionali nn. 73/978, 1/982, 7/1985, 11/987, 17/1988 e 13/1989, dell’articolo 4 della legge regionale n. 24 del 1985, nonché dell’articolo 2, comma 2, della legge regionale n. 14 del 2009 e per eccesso di potere per difetto e falsità del presupposto e della motivazione . Gli appellanti contestano che il fabbricato si configuri come una nuova costruzione ad uso direzionale, come affermato dal Comune nel provvedimento impugnato e ribadiscono che si debba qualificare, invece, come un ampliamento del complesso artigianale preesistente e quindi condonabile alle condizioni di cui all’art. 3 comma 1, lett. a) della l.r. n. 21 del 2004. Rappresentano, al riguardo, che nel corso del giudizio di primo grado si sono fatti carico di dimostrare, anche con il supporto di una documentazione fotografica, il collegamento funzionale con i fabbricati preesistenti destinati all’attività produttiva della ditta. Per il Tar viceversa l’ampliamento di un complesso produttivo sarebbe tale solo in presenza di una continuità fisica con il manufatto originario;
tesi peraltro non condivisa neanche dall’amministrazione comunale e non affermata dalle parti nel corso del giudizio con conseguente violazione dell’articolo 115 c.p.c. e in contrasto con quanto previsto dalla legislazione regionale che, in particolare all’articolo 3 della legge n. 21 del 2004, non delimita l’applicabilità della norma ad una particolare categoria di ampliamenti. Quanto al legame funzionale tra gli edifici, per il Comune esso non avrebbe luogo per la destinazione direzionale e non artigianale dello stabile oggetto della istanza di condono. L’appello precisa sul punto che entrambe le destinazioni rientrano nell’unitaria categoria “produttiva e direzionale” di cui all’articolo 23 ter, comma 1 del d.p.r. n. 380 del 2001. Gli appellanti negano quindi che il manufatto sia dotato di autonomia funzionale e sottolineano la irrilevanza della distinzione catastale e della peraltro non veritiera separazione anche da via pubblica”.

Come sottolineato dall’ordinanza di accoglimento dell’istanza cautelare, la questione della natura autonoma o ampliativa dell’opera abusiva assume un rilievo dirimente nella valutazione della legittimità del provvedimento di diniego adottato dal Comune di Venezia. Il Tar ha ritenuto che la distinzione operata dalla legge regionale n. 21 tra ampliamenti e nuove opere comportasse, in materia di condono, la conseguenza di non potere assimilare ad un ampliamento un manufatto edificato separatamente, con l’ulteriore effetto di doverne valutare la condonabilità ai sensi della lettera c) dell’art. 3 della legge regionale n. 21. Tale interpretazione non è condivisibile, non potendosi escludere in linea di principio che un manufatto edificato in prossimità, ma non in aderenza, di quello principale possa essere considerato un ampiamento di quest’ultimo in presenza di inequivoci elementi che ne indichino la pertinenzialità. E’ viceversa convincente l’affermazione del primo giudice secondo cui sulla base dei principi fissati da questo Consiglio (Ad. Pl. n. 4 del 2009) la valutazione in concreto della sussistenza dei requisiti per il condono debba fondarsi su rigorosa tassatività . Non può essere sottovalutato il fatto che l’opera è stata edificata senza titolo e che occorre impedire che l’ampliamento sostanziale venga utilizzato per aggirare i limiti propri delle nuove opere. Per le nuove opere infatti la legge regionale del Veneto prevede condizioni di condonabilità più restrittive rispetto a quelle stabilite per gli ampliamenti. Deve essere quindi il soggetto richiedente il condono a dimostrare che l’edificio abusivo sia una pertinenza dello stabile principale e quindi la sua edificazione configurabile come un ampliamento nonostante sia situato a distanza. Nel caso di specie, gli appellanti affermano che il manufatto è stato realizzato per ospitare l’archivio e gli uffici amministrativi dell’attività artigianale e che ciò sarebbe comprovato dalla documentazione fotografica depositata da cui emergerebbero elementi oggettivi di tale collegamento funzionale. Tuttavia, il provvedimento di diniego oltre ad affermare la contestata autonomia funzionale e specifica rilevanza del manufatto, motiva il non accoglimento con gli ulteriori elementi concernenti la collocazione dello stesso in un proprio lotto distinto e separato da quello su cui insiste il capannone artigianale e la sua destinazione ad uso direzionale, catastalmente inquadrato come categoria “A 10 uffici e studi privati”. Benché tali elementi non siano singolarmente sufficienti ad escludere del tutto la sussistenza del nesso funzionale, dato che esso prescinde dalla collocazione catastale (anche se ad essa va riconosciuto un valore indiziario come rilevato nella stessa sentenza n.666 del 2013 di questa Sezione, citata dagli appellanti) e la destinazione ad uffici appare compatibile con la funzione che gli istanti hanno ritenuto di attribuire allo stabile abusivo, tuttavia essi concorrono a corroborare la qualificazione autonoma dello stesso. Non appare persuasivo d’altra parte il quadro ricostruttivo proposto dagli appellanti per i quali sarebbe indicativo del nesso funzionale sia il fatto che il manufatto si affaccia sulla stradina privata che attraversa l’attività produttiva sia che la destinazione direzionale appartiene alla stessa categoria funzionale della destinazione artigianale e comunque è connessa all’attività artigianale preesistente. Si deve considerare che “ soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale è applicabile la qualifica di pertinenza urbanistica, non potendo tale qualifica essere estesa alle opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, siano autonome rispetto all'opera cosiddetta principale” (Cons. St. , sez. II , 05/06/2019 , n. 3807). La stessa consistenza dell’immobile (superficie di mq. 115, cui si aggiungono 40 mq. di sottotetto e volume di mc. 588) fa propendere per una qualificazione autonoma quantomeno potenziale dello stabile;
su tale punto, non può essere condivisa l’affermazione degli appellanti secondo cui definire la natura di nuova opera di un manufatto in ragione della sua futura utilizzabilità autonoma significherebbe escludere che vi possano essere ampliamenti. È vero, viceversa, che per esservi ampliamento, proprio in ragione dell’applicazione rigorosa della legislazione sul condono, è indispensabile, specie per opere consistenti dimensionalmente, che il nesso funzionale sia strutturale e non semplicemente frutto della volontà dei proprietari del momento. Da questo punto di vista l’autonoma collocazione catastale dell’immobile e la sua destinazione ad uso direzionale assumono un valore significativo.

Anche il quarto motivo di appello deve quindi essere respinto. Conseguentemente, non può essere accolto il quinto motivo con il quale si censura l’illegittimità derivata dell’ordine di demolizione.

5.5. Con il sesto motivo si afferma l’erroneità della sentenza con riguardo alla seconda censura del ricorso per motivi aggiunti concernente la violazione e falsa applicazione degli articoli 3 e 10 della legge n. 241 del 1990, dell’articolo 97 della Costituzione nonché dei principi di trasparenza, contraddittorio e giusto procedimento e l’eccesso di potere per carenza di istruttoria, per manifesta irragionevolezza e contraddittorietà dell’azione amministrativa . Gli appellanti lamentano che non siano state valutate né riscontrate dall’amministrazione comunale le osservazioni e le istanze formulate dai ricorrenti dopo l’avvio del procedimento che si è poi concluso con l’ordinanza di demolizione. Contestano al riguardo che la natura vincolata del provvedimento possa di per sé esimere l’amministrazione da tale attività valutativa dopo che è stato comunicato l’avvio del procedimento e contrastano l’affermazione del Tar secondo cui ciò sarebbe anche giustificato dal fatto che le osservazioni non evidenziavano motivi ostativi, ma chiedevano l’adozione di provvedimenti di secondo grado. D’altra parte, la nota inviata dal Comune 26 febbraio 2018 con riferimento all’istanza di attuazione del PAT non avrebbe supplito a tale omissione, limitandosi ad un mero rinvio.

Il motivo non è fondato. In generale, si deve osservare che l’obbligo di esame dell'apporto partecipativo del privato previsto dalle norme sul procedimento amministrativo non impone all'Amministrazione un'analitica confutazione in merito ad ogni controdeduzione dell'interessato, essendo sufficiente che le ragioni della mancata adesione alle posizioni illustrate emergano dal contenuto dell’atto. Nel caso specifico della repressione degli illeciti edilizi, data la natura vincolata degli atti da adottare, tale principio è ulteriormente rafforzato. E’ condivisibile quindi quanto sostenuto in merito dal Tar, secondo cui l’obbligo di tener conto delle osservazioni dedotte, nel caso in cui vi sia stato una comunicazione di preavviso, è limitato a quelle che ineriscono ai presupposti dell’esercizio del potere . Con le osservazioni del 27 agosto 2018 gli appellanti hanno chiesto di sospendere il procedimento sanzionatorio essendo pendente il ricorso al Tar per l’annullamento del diniego di condono e avendo gli stessi avanzato istanza di attuazione delle previsioni del PAT riferite all’immobile di loro proprietà. Si è trattato pertanto di rilievi non riguardanti la legittimità dell’ordine di demolizione (se non di quella derivante eventualmente dall’annullamento del diniego di condono), ma il suo rapporto con altri atti amministrativi. Nel caso del ricorso giurisdizionale contro il diniego il Comune non avrebbe peraltro potuto fornire alcun riscontro considerato che l’ eventuale sospensione cautelare di quel provvedimento era evidentemente di competenza del Tar;
per ciò che riguarda l’attuazione del PAT, essa ha avuto uno specifico riscontro con la nota del Comune del 26 febbraio 2018: il fatto che l’Amministrazione abbia rinviato l’esame dell’istanza alla fase successiva all’adozione del P.I. non è rilevante dal punto di vista dell’asserita omessa partecipazione del privato al procedimento, dato che con tale nota gli odierni appellanti hanno ricevuto una formale comunicazione degli intendimenti del Comune con riferimento proprio all’osservazione dedotta.

5.6. Con il settimo motivo viene ribadita la terza censura del ricorso per motivi aggiunti concernente la violazione e falsa applicazione dell’articolo 11 della legge regionale n. 11 del 2004 nonché dell’articolo 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 e dei relativi principi giurisprudenziali e l’eccesso di potere per manifesta irragionevolezza e per violazione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa . L’istanza di attuazione del PAT avrebbe dovuto, ad avviso degli appellanti, indurre il Comune a definire tale procedimento prima di emettere l’ordine di demolizione. Viene precisato al riguardo che dopo quattro anni dall’entrata in vigore del PAT il Comune di Venezia non ha ancora proceduto alla sua attuazione che consentirebbe la trasformabilità della proprietà dei ricorrenti. Richiamano sul punto il principio secondo cui non si può ingiungere la demolizione di un fabbricato interessato da un’istanza di sanatoria pendente quale sarebbe, nella sostanza, da loro avanzata. Contestano quindi la decisione del Tar che ha respinto la censura ritenendo che non sarebbe stato dimostrato il primo elemento della doppia conformità e affermando inoltre che l’attuazione del PAT sarebbe discrezionale anche con riferimento al quando .

E’ indubbio che in pendenza di un'istanza di sanatoria edilizia il Comune è tenuto ad astenersi dall'esercizio del potere sanzionatorio con l'adozione di un ordine di demolizione, dovendo rinviare ogni determinazione all'esito del procedimento di sanatoria. Nella vicenda in esame l’amministrazione si è attenuta a questo principio emettendo l’ordine di demolizione dopo il provvedimento di diniego della domanda di condono proposta dagli odierni appellanti. Con il motivo in esame si vuole tuttavia affermare l’assimibilità dell’istanza di attuazione del PAT alla richiesta di sanatoria con l’effetto di rinviare ogni sanzione sull’abuso (confermato con il diniego del condono) alla definizione del piano degli interventi da parte del Comune. Il Tar avrebbe quindi errato nel non ammettere tale assimilazione.

La censura non è fondata. Come evidenziato nella sentenza impugnata, l’attuazione del PAT, che ha inserito l’area di proprietà dei ricorrenti tra quelle di riqualificazione o riconversione, costituirebbe la premessa per la successiva richiesta di accertamento di conformità. È solo a seguito della pendenza di tale ultima istanza che il Comune dovrebbe eventualmente astenersi dall’adottare provvedimenti sanzionatori. Tuttavia, la discrezionalità dell’amministrazione nella definizione dei piani urbanistici, ivi compreso il P.I., non consente di affermare con certezza che dall’attuazione del PAT deriverebbe la presentabilità dell’istanza di accertamento di conformità, la cui pendenza, oltre a non essere attuale, è quindi anche ipotetica. L’articolo 29 delle NTA allegate al PAT stabilisce infatti che il P.I. prevede di intervenire di norma , per la trasformazione dell’area, tramite P.U.A. o con comparto edificatorio o con titolo abilitativo comunque convenzionato, estesi all’intero ambito o a parti di esso. Ne deriva che il Comune di Venezia ha proceduto legittimamente, sulla base degli strumenti urbanistici vigenti, all’attività sanzionatoria oggetto di impugnazione.

5.7. Con l’ottavo motivo si rileva in subordine l’erroneità della sentenza del Tar con riguardo alla quarta censura di ricorso per motivi aggiunti concernente la violazione e falsa applicazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990 nonché dell’articolo 31 del d.p.r. n. 380 del 2001 e l’eccesso di potere per difetto di motivazione. Gli appellanti contestano che il Tar abbia dichiarato inammissibile la censura relativa alla individuazione del bene da acquisire gratuitamente in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione. L’automaticità di tale acquisizione obbligherebbe infatti i ricorrenti alla sua immediata impugnazione. Inoltre, il carattere sanzionatorio della misura richiederebbe una determinazione certa del bene da acquisire in aggiunta all’area di sedime e una compiuta motivazione della sua individuazione: elementi che invece sarebbero mancanti nel provvedimento impugnato.

Anche tale motivo non è meritevole di accoglimento. È pacifico, infatti, che “ l’omessa o imprecisa indicazione dell’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione… mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria” (Cons. St. Sezione IV n. 5593 del 25 novembre 2013). È stato chiarito peraltro che “ la posizione del destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo distinto procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l’atto di accertamento di inottemperanza nel quale va indicata con precisione l’area da acquisire al patrimonio comunale” (Cons. St. sez.VI n. 13 del 2105). Tali principi valgono non solo per l’area di sedime, ma anche per quella aggiuntiva, la cui esatta consistenza dovrà essere individuata e motivata nell’atto di acquisizione.

5.8. Con il nono motivo viene contestata la sentenza di primo grado in relazione alla domanda di condanna di provvedere all’attuazione del PAT da parte del Comune di Venezia e di adeguamento del P.I. anche mediante la nomina di un commissario ad acta. L’area di proprietà degli appellanti ha destinazione agricola e quindi non sarebbe compatibile, come invece ha sostenuto il Tar, con le previsioni del PAT. L’obbligatorietà di tale attuazione e l’istanza proposta dei ricorrenti avrebbero richiesto una risposta da parte del Comune che invece si sarebbe limitato con la nota del 26 febbraio 2018 a comunicare che gli stessi avrebbero potuto proporre osservazioni in seguito alla presentazione del P.I.. In tal modo, l’amministrazione non avrebbe riscontrato la richiesta di conformazione della disciplina urbanistica agli strumenti di livello superiore e vi sarebbero le condizioni per l’azione avverso il silenzio di cui agli articoli 31 e 117 c.p.a. Gli appellanti chiedono conseguentemente di ordinare al Comune di Venezia di provvedere entro 30 giorni a tale adeguamento annullando la nota del 26 febbraio 2017 e di nominare sin da ora un commissario ad acta in caso di inottemperanza.

La sentenza di primo grado va confermata anche su questo punto e pertanto il motivo non è accoglibile. Rileva correttamente il primo giudice che con la deliberazione del consiglio comunale n. 98 del 5 dicembre 2014 il Comune di Venezia ha individuato le aree per le quali la destinazione prevista nel piano regolatore vigente dovesse essere considerata compatibile con quanto stabilito dal PAT. Per ciò che si riferisce all’area di proprietà dei ricorrenti il Comune ha stabilito la sussistenza della compatibilità e tale determinazione non è stata impugnata dagli stessi. L’articolo 48, comma 5 bis della legge regionale n. n.11 del 2004 prevede che il PRG, a seguito dell’approvazione del primo PAT, assuma il valore di piano degli interventi per le parti compatibili con il PAT e pertanto per esse è confermato quanto previsto dallo strumento urbanistico vigente fino alla sua modificazione. Ne consegue che non si configura un’ipotesi di affidamento qualificato alla trasformazione urbanistica richiesta, condizione indispensabile per determinare un obbligo in capo all’amministrazione di procedere senza ulteriori indugi alla attuazione del PAT. L’assenza di un obbligo per l’amministrazione impedisce peraltro che si possa ricorrere contro il silenzio inadempimento.

6. Alla luce delle considerazioni esposte, l’appello deve essere respinto.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza secondo quanto indicato in dispositivo.

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