Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2024-06-11, n. 202405226

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2024-06-11, n. 202405226
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202405226
Data del deposito : 11 giugno 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 11/06/2024

N. 05226/2024REG.PROV.COLL.

N. 04186/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4186 del 2020, proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,

contro

la signora M W, rappresentata e difesa dall’avvocato C A M C, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato V S in Roma, via Muzio Clementi, n. 51,

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per il Lazio, Sezione I bis , n. 12128 del 22 ottobre 2019, resa inter partes , concernente il diniego di ricollocazione del personale mediante processi di mobilità per i soggetti già dipendenti da organismi militari della comunità atlantica


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della signora M W;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 87, comma 4- bis , c.p.a.;

Vista l’istanza di passaggio in decisione senza discussione dell’avvocato C A M C;

Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 8 maggio 2024 il consigliere Giovanni Sabbato e uditi per la parte appellante l’avvocato dello Stato Ruggiero Di Martino in collegamento da remoto attraverso videoconferenza, con l’utilizzo della piattaforma “Microsoft Teams”;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso n. 9816 del 2018, proposto innanzi al T.a.r. per il Lazio, la signora M W aveva chiesto l’annullamento:

a ) del D.M. del 10 luglio 2018, ID/20320503, adottato dal Ministro della Pubblica Amministrazione (e relativi allegati ed elenchi), con il quale non è stata accolta la domanda della ricorrente di ricollocazione del personale mediante processi di mobilità prevista per i soggetti già dipendenti da organismi militari della comunità atlantica, che hanno presentato richiesta di assunzione a tempo indeterminato nelle amministrazioni dello stato (articolo 7, comma 10- bis , del D.L. 148/2017), in quanto cittadina della Repubblica Federale Tedesca;

b ) di ogni altro provvedimento presupposto, conseguente o comunque connesso;

nonché l’accertamento del diritto ad essere ricollocata mediante la procedura sopra indicata.

2. A sostegno del ricorso aveva dedotto quanto segue:

i) « violazione di legge per difetto di motivazione, violazione per falsa applicazione dell’art.7, comma 10-bis, del D.L. 148/2017. Violazione della L. 241/1990, art. 1 (principio di efficienza) come riformato dalla L. 69/2009 ed art. 2 come riformato dalla L. 69/2009 (obbligo dell’adozione di un provvedimento espresso comunque entro il termine straordinario di centottanta giorni) »;

ii) « violazione, anche per falsa applicazione, dell’art. 45 e dell’art. 51 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Violazione per falsa applicazione dell’art. 38 D. Lgs. 20 marzo 2001, n. 165. Violazione dell’art. 19, commi I e II , D.LGS. n. 30/2007 »;

iii) « violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del Decreto Legge 8 aprile n. 59, convertito con modifiche dalla Legge 6 giugno 2008 n. 101 ».

3. Nella resistenza dell’Amministrazione, il Tribunale adito, ordinata l’integrazione del contraddittorio, tempestivamente eseguita con ordinanza n. 10432 del 29 ottobre 2018, e preso atto della documentazione depositata dalla ricorrente, con ordinanza cautelare n. 288 del 16 gennaio 2019 accoglieva la domanda di interinale sospensione degli impugnati provvedimenti.

4. Con la sentenza segnata in epigrafe il T.a.r. (Sezione Prima Bis ) ha quindi così deciso il gravame al suo esame:

- ha accolto il ricorso, reputato fondati il secondo ed il terzo mezzo di impugnazione, e, per l’effetto, ha annullato l’impugnato provvedimento;

- ha compensato le spese di lite.

5. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che:

- « alla data del 10.1.2018, di presentazione della domanda di assunzione nelle categorie delle amministrazioni dello Stato, ai sensi dell’art. 7, comma 10 bis, del D.L. 16.10.2017 n. 148, convertito con Legge 4.12.2017 n. 172, che richiama la Legge 9.3. 1971, n. 98, la ricorrente non era in possesso del requisito della cittadinanza italiana e, inoltre, alla medesima data, non era neanche decorso il termine di 730 (settecentotrenta) giorni, previsto dal D.P.R. n. 362/1994 e dal D.M. n. 228 del 1995, dalla data del 14 marzo 2017, di presentazione della domanda di concessione della cittadinanza italiana. Conseguentemente, nella specie, vertendosi in tema di provvedimento discrezionale, avente effetti costitutivi, non si può ritenere che la ricorrente, alla data del 14 marzo 2017, di presentazione della domanda di concessione della cittadinanza italiana, avesse un diritto al relativo conferimento, come nel caso del conferimento “jure sanguinis” »;

- rispetto, invece, ai restanti due motivi di impugnazione innanzi indicati (2 e 3), rilevato che « L’attività di insegnante, in base ai criteri ed agli elenchi di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174, non rientra tra quelle “riservate” ai cittadini italiani, secondo l’eccezione prevista dal paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE, siccome attuata con il D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 » e ravvisata la necessità di pervenire ad un’interpretazione della normativa interna conforme al diritto UE, ha concluso che « il comma 10 bis dell’art. 7 del D.L. 16.10.2017 n. 148, convertito con Legge 4.12.2017 n. 172, nella parte in cui indica i “cittadini italiani” va disapplicato ed inteso correttamente come i “cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea. Conseguentemente, le censure si appalesano condivisibili. […] Pertanto, l’impugnato provvedimento applicativo di una norma nazionale in contrasto con il diritto comunitario si appalesa illegittimo e va annullato in parte qua ».

6. Avverso tale pronuncia la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha interposto l’appello in trattazione, notificato il 27 maggio 2020 e depositato il 28 maggio 2020, lamentando, attraverso un unico motivo di gravame (pagine 7-9), quanto di seguito sintetizzato:

- avrebbe errato il Tribunale nella parte in cui, in pretesa applicazione di principi desunti da precedenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia, ha ritenuto di poter disapplicare l’art. 10 bis del D.L. n. 148/2017 nella parte in cui fa riferimento ai “ cittadini italiani ” anziché ai “ cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea ”.

7. L’appellante ha concluso chiedendo, in riforma dell’impugnata sentenza, il rigetto del ricorso di primo grado e quindi la conferma degli atti con lo stesso impugnati.

8. In data 16 luglio 2020 la signora M W si è costituita in giudizio al fine di chiedere il rigetto dell’avverso gravame.

9. In data 2 aprile 2024 parte appellata ha depositato memoria conclusionale al fine di evidenziare che, nelle more, è stata assunta ed è andata in pensione con la conseguenza che sarebbe cessata la materia del contendere;
insiste però per la condanna di controparte alle spese a causa della soccombenza virtuale, salva la successiva richiesta di risarcimento del danno ex art. 30, comma 5, c.p.a.

10. La causa, chiamata per la discussione all’udienza straordinaria dell’8 maggio 2024, è stata trattenuta in decisione.

11. L’appello è infondato.

11.1. In limine si impone lo scrutinio dell’eccezione, seppur genericamente formulata, con la quale l’appellata solleva dubbi in merito alla tempestività dell’avverso gravame e alla specificità del motivo di appello.

11.1.1. Quanto al primo profilo l’appello è da ritenersi tempestivo, essendo stato:

- notificato il 27 maggio 2020 e pertanto entro il termine semestrale fissato dall’art. 92, co. 3 cpa come dilatato per effetto della sospensione straordinaria dovuta all’emergenza coronavirus (per la notifica dei ricorsi nel processo amministrativo la sospensione va dall’8 marzo al 3 maggio 2020 ai sensi degli artt. 84, DL 18/2020, e 36, comma 3, DL 23/2020);

- depositato il 28 maggio 2020 e pertanto entro il termine di 30 giorni stabilito dall’art. 94 del c.p.a.

11.1.2. Quanto al secondo profilo, invece, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel riprodurre testualmente l’intera parte motiva della sentenza impugnata, non ha seguito il medesimo approccio per indicare il capo della sentenza oggetto di appello. Ciononostante, esso, per come formulato, non è suscettibile di una declaratoria di inammissibilità per genericità del mezzo, non solo perché esso indica, ancorché per relationem , la parte del provvedimento avversato (vds. ultimo paragrafo di pagina 8), ma soprattutto perché rappresenta, seppur succintamente, le ragioni per le quali il giudice di primo grado avrebbe errato nella propria opera esegetica, con argomentazioni ad ogni modo chiare ed intellegibili e, come tali, suscettibili di una piena delibazione in questa sede. Viene in evidenza, sul punto quanto ritenuto da questo Consiglio con la seguente recente pronuncia: “ Per consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio, il principio di specificità dei motivi di impugnazione, posto dall’ art. 101, comma 1, c.p.a., impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata;
peraltro l’appello è, comunque, da ritenersi ammissibile se dallo stesso sia possibile desumere quali siano le argomentazioni fatte valere da chi ha proposto l’impugnazione in contrapposizione a quelle evincibili dalla sentenza impugnata;
pur se i vizi non risultano scanditi in specifici ordini di censure deve essere dunque rivolta una diretta critica alle argomentazioni svolte dalla sentenza impugnata ovvero il giudice di appello deve essere posto nella condizioni di comprendere con chiarezza i principi, le norme e le ragioni per cui il primo giudice avrebbe dovuto decidere diversamente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 febbraio 2020, n. 857;
Sez. VI, 20 agosto 2019, n. 5761;
Sez. IV, 28 giugno 2018, n. 3980)
” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 15 marzo 2024, n. 2557;
v. anche Cons. Stato, Sez. V, Sentenza 15 gennaio 2024, n. 503 che così si esprime: “ Deve ricordarsi, in proposito, che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, il principio di specificità dei motivi di impugnazione, posto dall'art. 101, comma 1, c.p.a., impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo;
il giudizio di appello dinanzi al giudice amministrativo, infatti, si presenta come revisio prioris instantiae i cui limiti oggettivi sono segnati dai motivi di impugnazione (cfr., ex plurimis, C.d.S., questa Sez. V, sentenze n. 2843 del 2021 e n. 5208 del 2020;
più di recente, Sez. II, sentenza n. 4190 del 2023)
”.

Alla stregua di quanto precede, l’appello deve ritenersi tempestivo ed ammissibile.

11.2. L’infondatezza del gravame, per le ragioni di cui infra , consente di reputare assorbita l’eccezione di cessata materia del contendere formulata dall’appellata, fermo restando la persistente refluenza che la pronuncia di primo grado ha prodotto e tuttora produce sullo status lavorativo della medesima con la conseguente persistenza del profilo di interesse sotteso al ricorso di prime cure ed all’odierno appello.

12. Venendo al merito del ricorso si deve rilevare la sua infondatezza.

12.1. Muovendo dalla lettura dell’atto di appello, l’Amministrazione sostiene che, contrariamente a quanto affermato dal T.a.r., la procedura di mobilità dettata dalla Legge 9 marzo 1971, n. 98, per come richiamata dal comma 10 bis dell’art. 7 del Decreto-Legge 16 ottobre 2017, n. 148, convertito con modificazioni dalla Legge 4 dicembre 2017, n. 172, sarebbe riservata ai soli cittadini italiani alle dipendenze di organismi militari della Comunità atlantica o di quelli dei singoli Stati che ne fanno parte. La marcata diversità, per presupposti, struttura e finalità, della procedura in questione, rispetto a quelle ordinariamente assoggettate all’art. 38 del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, impedirebbe di estendere la platea dei soggetti che potrebbero giovarsi di tale speciale e derogatoria modalità di accesso al pubblico al di fuori di quanto ad litteram previsto dalla legge. Né, tantomeno, le disposizioni che vengono in considerazione potrebbero ritenersi discriminatorie o comunque elusive dei principi di libera circolazione dei lavoratori nell’ambito dell’Unione Europea, trovando la loro ragionevole causa in esigenze del tutto peculiari e destinate a trovare applicazione solo per casi e tempi tassativamente determinati.

12.2. Tali deduzioni, che peraltro esauriscono il quadro censorio che connota l’appello in esame, risultano infondate.

Deve infatti ritenersi che il T.a.r. ha correttamente disapplicato il comma 10 bis dell’art. 7 del D.L. 16 ottobre 2017 n. 148, convertito con Legge 4 dicembre 2017 n. 172, nella parte in cui indica i “ cittadini italiani ”, intendendo il relativo inciso, in forza di un’interpretazione eurounitariamente orientata, riferito ai “ cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea ”.

Invero il percorso ermeneutico tracciato dal primo giudice risulta condivisibile dovendosi confermare in questa sede l’orientamento espresso da questo Consiglio, Sezione IV, con la sentenza del 15 marzo 2022, n. 1806, nel senso che la disciplina de qua deve intendersi appunto riferita ai “ cittadini degli Stati membri dell’Unione europea ”.

Di tale pronuncia conviene riportare i seguenti passaggi testuali:

<< l’attività di insegnante (attività che rileva nella presente controversia) non rientra, in base ai criteri e agli elenchi di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174, tra quelle “riservate” ai cittadini italiani, secondo l’eccezione prevista dal paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE, attuata con il D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174. Nella specie, non viene, infatti, in rilievo un’attività che implica l’esercizio di poteri pubblici in grado di giustificare la deroga alla libertà europea di circolazione.

17. La circostanza è dirimente, in punto di diritto, perché consente di definire l’ambito oggettivo di applicazione delle disposizioni regolatrici della materia, nel senso di ritenere che l’attività di insegnante esula dalla categoria delle attività assoggettate alla deroga rientrando a pieno titolo, per i suoi aspetti funzionali e dinamici, tra quelle non riservate ai soli cittadini italiani.

18. Diventa, pertanto, irrilevante il mancato riconoscimento della cittadinanza italiana al momento di esame della richiesta di accesso alle procedure di mobilità previste dalla legge n. 98 del 1971, come regolate dall’art. 7, comma 10-bis del D.L. 16 ottobre 2017, n. 148.

19. Dette disposizioni vanno lette in conformità alle sopravvenute disposizioni di rango superiore (direttive europee – pronunce della C.G.U.E. - Testi normativi nazionali di attuazione) che, per effetto dell’art. 11 della Costituzione, impongono una interpretazione delle fonti interne conforme al diritto comunitario, e laddove questa non sia possibile (come nella fattispecie) la loro disapplicazione a cagione del riscontrato, insanabile contrasto.

19.1. Orbene, il comma 10-bis dell'art. 7, D.L. 16 ottobre 2017, n. 148, convertito con L. 4 dicembre 2017, n. 172, fa riferimento all'assunzione nelle pubbliche amministrazioni dei “cittadini italiani”, licenziati in conseguenza di provvedimenti di soppressione o riorganizzazione delle basi militari.

20. La Sezione ritiene che la norma vada disapplicata dal giudice nazionale, perché confliggente con il diritto europeo, dovendosi intendere la disposizione come riferita, correttamente, ai "cittadini degli Stati membri dell'Unione europea".

21. Parte appellante ritiene che la disposizione in esame (comma 10-bis dell'art. 7, D.L. 16 ottobre 2017, n. 148) abbia natura eccezionale, perché regolatrice di una particolare fattispecie, temporalmente circoscritta e definita;
ragion per cui, tenuto conto della sua ratio, non ricorrerebbero ipotesi di discriminazione in violazione al dettato dei principi e delle norme euro-unitari.

22. Il Collegio non condivide la tesi dell’appellante.

23. La natura eccezionale della norma attiene all’ambito oggettivo di applicazione della medesima, laddove la stessa prevede una procedura speciale di mobilità per l’assunzione presso la pubblica amministrazione di particolari lavoratori. La specialità del rapporto, l’eccezionalità della ricorrenza dei presupposti, l’opportunità sociale di regolarizzarne la posizione giustifica – sul piano della ragionevolezza ex art. 3 Cost., a motivo della situazione di eguaglianza sostanziale da recuperare nella situazione concreta - la deroga agli ordinari meccanismi di reclutamento presso la pubblica amministrazione.

24. L’ambito soggettivo resta, invece, estraneo alla deroga in quanto elemento ontologicamente neutro, del tutto irrilevante sul piano teleologico e funzionale, indifferente alla giustificazione causale della norma e alla sua portata effettuale, tenuto conto dell’interesse pubblico tutelato;
altrimenti risolvendosi la deroga in una ingiustificata discriminazione basata sull’appartenenza delle persone a un determinato territorio, in assenza dei presupposti individuati dalle direttive e dalla giurisprudenza euro-unitaria già sopra illustrati;
ciò che si tradurrebbe in una restrizione di fatto, surrettiziamente introdotta, alla libertà di circolazione dei lavoratori (art. 45, TFUE).

25. Anche la differenza tra assunzione e accesso al pubblico impiego, introdotta dall’appellante per giustificare la ratio sottesa al comma 10-bis dell'art. 7, D.L. 16 ottobre 2017, n. 148 non appare convincente.

L’assunzione presso la pubblica amministrazione (cui fa riferimento il comma 10-bis citato) è un concetto che presuppone quello espresso dall’art. 38 del D.Lgs n. 165 del 2001.

25.1. Quest’ultimo recita: “1. I cittadini degli Stati membri dell'Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale”.

25.2. All’ “accesso” segue l’instaurazione del rapporto di servizio con la pubblica amministrazione;
a sua volta, l’instaurazione del rapporto sconta il reclutamento della persona che avviene, di norma, mediante assunzione (nelle varie modalità stabilite dal Legislatore). L’assunzione, quindi, presuppone il libero accesso all’impiego presso la P.A.

25.3. Nessuna differenza è, pertanto, ritraibile sul piano della ratio normativa tra “assunzione” e “accesso” per inferire la eccezionalità della norma in esame e, quindi, la sua legittimità sul piano della applicazione ai soli cittadini italiani >>.

13. Tanto premesso, l’appello deve essere respinto.

14. Sussistono nondimeno giusti motivi, stante il carattere sopravvenuto del richiamato orientamento di questo Consiglio rispetto alla proposizione del gravame, per disporre la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.

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