Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-05-19, n. 201003169

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-05-19, n. 201003169
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201003169
Data del deposito : 19 maggio 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05471/2009 REG.RIC.

N. 03169/2010 REG.DEC.

N. 05471/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 5471 del 2009, proposto dal:
sig. F D S, rappresentato e difeso dagli avvocati M e R L, con domicilio eletto presso gli stessi, in Roma, via delle Grazie, n. 3;

contro

Il Ministero della Difesa, il Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri e la Commissione di Disciplina presso il 4° Battaglione Carabinieri Veneto, in persona dei rispettivi legali rappresentanti in carica, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati per legge in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del TAR Lazio - Roma - Sezione I^ bis - n. 08378 del 18 settembre 2008, resa tra le parti, concernente il provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare della perdita del grado;


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa e del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2010 il Cons. Guido Romano e uditi per le parti l’avv. M Lioi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. - Il sig. F D S, già appuntato scelto dell’Arma dei Carabinieri, impugnava innanzi al TAR del Lazio gli atti del procedimento disciplinare all’esito del quale è stato emanato il decreto del Direttore Generale per il Personale Militare del 9 giugno 2007 di applicazione della sanzione della “perdita del grado per rimozione”, ai sensi dell’art. 34, n. 6, della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, deducendone l’illegittimità sulla base di cinque motivi:

i) - violazione e falsa applicazione dell’art. 111, ultimo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957 e dei termini a difesa;

ii) - violazione delle circolari n. 182 del 27 agosto 1990 del Ministero della Difesa e n. 18999-71/D-17.2 del Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri;
- violazione del d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309;

iii) - violazione dell’art. 120 del d.P.R. n. 3 del 1957 e dei principi in tema di autotutela;

iv) - violazione della legge n. 241 del 1990;
- eccesso di potere sottovari profili in connessione alle denunziate violazioni.

Con sentenza n. 8378 del 18 settembre 2008 il Giudice di prime cure ha rigettato detto gravame ritenendo infondate tutte le censure mosse dal ricorrente ed ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

Con l’appello indicato in epigrafe il sig. D S deduce i seguenti motivi di impugnazione:

1)- il TAR avrebbe errato a non rilevare la violazione dell’art. 111, ultimo comma, del d.P.R. n. 3 del 1957 tenuto conto che la comunicazione della data in cui si sarebbe tenuta la riunione della Commissione di Disciplina sarebbe stata effettuata in un termine inferiore ai venti giorni previsti dalla citata norma (nella specie: comunicazione del 24 aprile 2007 e seduta della Commissione di disciplina del 8 maggio successivo) che sarebbe perentorio ed applicabile anche ai militari, come affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n° 104 del 1991;
inoltre, non sarebbe corretto affermare, come ha fatto il giudice di prime cure, che comunque l’interessato ha avuto modo di difendersi poiché risulterebbe violato, in ogni caso, il diritto di difesa dell’incolpato;

2)- lo stesso TAR avrebbe ancora errato a non rilevare la violazione anche dell’art. 120 del d.P.R. n. 3 del 1957 in quanto, essendo stata annullata di ufficio, con atto del 20 aprile 2007, la delibera della Commissione di Disciplina del 28 marzo 2007, la seconda delibera di detta Commissione del 8 maggio 2007 sarebbe stata adottata oltre il termine di novanta giorni di cui alla citata norma, avuto presente che il deferimento è intervenuto il 19 gennaio 2007;
inoltre, non sarebbe corretto affermare, come ha fatto il giudice di prima istanza, che il verbale di annullamento della prima seduta della Commissione del 28 marzo 2007 avrebbe valore di atto interruttivo del citato termine decadenziale, tenuto conto della giurisprudenza formatasi sul punto;

3)- non sarebbe stato tenuto in conto ndalla sentenza appellata il fatto che il ricorrente non si sarebbe mai trovato in stato di tossicodipendenza, come accertato dagli organi sanitari della stessa Amministrazione, oltre che dall’ASL, e che, in ogni caso, la circolare n. 18999-71/D-17.2 del Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri prevederebbe il recupero di coloro che per una sola volta hanno fatto uso di droghe;

4)- il primo Giudice avrebbe dovuto rilevare l’abnormità della sanzione massima irrogata, tenuto conto che il militare non è stato mai sospeso dal servizio, come pure prevede obbligatoriamente l’art. 9 della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, qualora siano imputati all’inquisito “…fatti di notevole gravità…” , e tenuto conto, altresì, che ha continuato a prestare regolarmente servizio per altri due anni, dopo il fatto contestato;

5)- la delibera della Commissione di Disciplina sarebbe carente totalmente di motivazione idonea a far comprendere l’iter logico seguito nell’irrogare la massima sanzione disciplinare prevista, così come sarebbe stereotipa quella allegata al decreto direttoriale che ha applicato detta sanzione;

6)- l’atto di autoannullamento della prima deliberazione disciplinare sarebbe del tutto incomprensibile considerato che la seconda deliberazione sarebbe identica alla prima annullata.

L’Amministrazione si è costituita in giudizio, senza però rassegnare difese scritte.

Con memorie depositate il 25 luglio 2009, in previsione della discussione dell’istanza cautelare proposta dall’appellante, ed il 29 ottobre 2009, in ragione della discussione in pubblica udienza dell’appello stesso, il sig. D S ha ulteriormente argomentato in ordine alla fondatezza dell’impugnazione proposta sotto l’ulteriore profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 51, comma quattro, del codice di procedura civile e dell’art. 70 della legge n. 599 del 1954, nonché del principio di terzietà del giudicante, considerato che in seconda valutazione non è cambiata la composizione della Commissione di Disciplina.

Alla pubblica udienza del 10 novembre 2009 l’appello è stato introitato per la prima volta in decisone.

Con decisione n° 7269 del 19 novembre 2009 è stata ordinata l’acquisizione del fascicolo di primo grado ed il relativo onere è stato correttamente adempiuto.

All’udienza del 23 febbraio 2010 l’appello è stato nuovamente rimesso in decisione.

2. - L’appello è infondato.

2.1 - Con il primo motivo di impugnazione ( rubricato sub A ) il sig. D S sostiene che la sentenza impugnata sarebbe viziata in radice sotto il profilo del mancato rispetto dei termini previsti dall’ultimo comma dell' art. 111 del DPR n. 3 del 1957 e della violazione del diritto di difesa.

Detto motivo non può essere condiviso aderendo il Collegio alla consolidata giurisprudenza, di recente ribadita da questa Sezione ( cfr., da ultimo, Sezione IV^, 12 giugno 2009 , n. 3799 e 27 marzo 2009 , n. 1867 e Sez. V^, n. 1881 del 2006 ), per la quale in sede di procedimento disciplinare il termine previsto dall'art. 111 del DPR n. 3 del 1957 ha carattere ordinatorio, non essendo comminata alcuna decadenza per la sua inosservanza, né essendo stabilita l'inefficacia degli atti compiuti dopo il decorso dei termini stessi. Inoltre, la violazione del medesimo termine di per sé non comporta un vizio del procedimento, potendo comunque risultare che vi è stata la più ampia possibilità di difesa dell'incolpato ed esso opera soltanto per la prima seduta, mentre non ha ragion d'essere osservato nel caso di rinvio dell'iniziale seduta ad altre date successive, essendo già stato assicurato al dipendente interessato il lasso di tempo necessario per produrre scritti e memorie nonché per organizzare la propria difesa orale.

Né può indurre a contrario avviso il riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 104 del 1991, avuto presente che detta Corte, diversamente da quanto ritiene l’appellante, non ha mai affermato la natura perentoria del termine di cui all’ultimo comma del citato art. 111, essendosi limitata a rilevare l’applicabilità della citata norma, così come degli articoli 97, comma 3, e 120 del medesimo TU n. 3 del 1957, nel caso di procedimenti disciplinari a carico di militari che siano conseguenti a sentenza di assoluzione in sede penale, ovvero iniziati in via autonoma dall’Amministrazione, tenuto conto che, convergevano a tal fine, non soltanto principi di giustizia e di necessaria equiparazione di garanzie procedimentali, sia per i dipendenti civili, sia per quelli militari, ma anche il fatto che già il legislatore della legge n. 19 del 1990, nell’abolire la destituzione di diritto, aveva sancito tale equiparazione.

Nel caso di specie, il ricorrente ha avuto tutto il tempo necessario per apprestare le proprie difese, atteso che la prima seduta della Commissione di disciplina è stata annullata e che della nuova seduta della stessa Commissione è stata data comunicazione allo stesso ricorrente in termini congrui, per cui è parimenti infondata anche la censura di violazione del diritto di difesa, in disparte il rilievo che nessuna rimostranza, anche soltanto verbale, ha mai fatto l’interessato innanzi alla Commissione di Disciplina, in relazione all’eventuale esiguità del termine concessogli per la seconda volta.

2.2 - A non diverso avviso negativo ritiene, poi, il Collegio di poter pervenire anche con riferimento al secondo ed all’ultimo motivo di appello ( rubricati, rispettivamente, sub B) ed erroneamente sub C), anziché F), secondo la naturale sequenza alfabetica ), che possono essere trattati congiuntamente, avendo gli stessi a presupposto della loro decisione l’atto di annullamento della prima seduta della Commissione di Disciplina.

La tesi sviluppata dal sig. D S con il secondo di detti motivi è che, essendo stata annullata di ufficio, con atto del 20 aprile 2007, la delibera della Commissione di Disciplina del 28 marzo 2007, la seconda delibera di detta Commissione del 8 maggio 2007 sarebbe stata adottata oltre il termine di novanta giorni di cui alla citata norma, avuto presente che il deferimento è intervenuto il 19 gennaio 2007;
inoltre, non sarebbe corretto affermare, come ha fatto il giudice di prima istanza, che il verbale di annullamento della prima seduta della Commissione del 28 marzo 2007 avrebbe valore di atto interruttivo del citato termine decadenziale, tenuto conto della giurisprudenza formatasi sul punto.

Con il quinto motivo, invece, l’appellante sostiene che la citata delibera di autoannullamento del 20 aprile 2007 sarebbe priva di ogni motivazione sull’interesse pubblico ad essa sottostante per cui non potrebbe, in ogni caso, essere utilizzata come legittimo atto interruttivo del termine di cui all’art. 120 citato.

Entrambi i motivi sono infondati per le seguenti considerazioni.

Quanto al primo di essi, il Collegio, pur avvertito dell’opinione emersa in giurisprudenza circa l’asserita non validità dell’atto di autoannullamento come legittimo mezzo interruttivo del decorso del termine di perenzione di novanta giorni di cui all’art. 120 più volte citato, non ritiene di poterla condividere considerato che essa conduce ad un risultato non in linea con il quadro dei poteri che l’ordinamento riconosce come fisiologici dell’Amministrazione, negando essa, sostanzialmente, l’esercizio di detto potere di annullamento di ufficio che, invece, l’Amministrazione può legittimamente esercitare, le quante volte gli atti e/o i provvedimenti da essa emanati risultino contrari alla legge.

La giurisprudenza, infatti, pacificamente riconosce come una delle principali e caratteristiche attribuzioni della Pubblica Amministrazione quella di potersi, per così dire, “fare giustizia da sé” , sempre che sussistano i presupposti della contrarietà a diritto dell’atto da eliminare e della compresenza di un interesse pubblico attuale e concreto che lo richieda.

Parimenti è avviso pacifico della giurisprudenza che, a fini interruttivi del decorso di detto termine di perenzione, non è utile un qualsivoglia atto del procedimento disciplinare, bensì occorra l’adozione, o di uno degli atti espressamente previsti come essenziali dalla fonte regolatrice dello stesso procedimento disciplinare, ovvero un atto che abbia, anche se non previsto, valenza altrettanto necessaria ed utile nell’economia dello stesso procedimento.

Orbene, facendo applicazione di tali avvisi, che il Collegio condivide, non può non rilevarsi che l’atto di autoannullamento in esame è ragionevolmente inquadrabile, sulla scorta dei parametri recati dall’articolo 97 della Costituzione, nell’ambito dei doveri dell’Amministrazione di applicare ognora correttamente la legge, abbia essa contenuto sostanziale e/o soltanto valenza procedimentale, tenuto conto che costituisce interesse pubblico concreto che attraverso un procedimento disciplinare correttamente instaurato e portato a conclusione vengano accertati e, se del caso, sanzionati gli illeciti disciplinari commessi da pubblici dipendenti.

Nella specie, la ragione concreta che, in termini di attualità, sorregge l’autotutela esercitata è agevolmente riconducibile alla circostanza della ritenuta insufficienza del termine inizialmente concesso all’inquisito per potersi difendere, che ha giustificatamente generato, tenuto conto che al tempo non era univoca la giurisprudenza nell’interpretare la norma dell’art. 120 citato, la cogente necessità di eliminare la deliberazione già adottata, per riavviare nuovamente la relativa fase decisoria dopo avere riconosciuto un più ampio, e quindi, congruo termine di difesa all’inquisito stesso.

Consegue che l’atto esaminato, essendo ammesso dalla legge ed avendo una valenza concreta ed essenziale nell’economia del procedimento disciplinare in esame, regge alle critiche mosse dall’appellante sotto gli esaminati profili per cui non può il Collegio non confermarsi nel convincimento che il secondo ed il quinto motivo di appello sono infondati.

2.3 - Né può ritenersi che colga nel segno il sig. D S con il suo terzo motivo di appello poiché l’assenza di qualsivoglia stato di tossicodipendenza, così come rivendicato dal predetto militare sulla base degli accertamenti effettuati dagli stessi organi sanitari militari, quand’anche condiviso, comunque non ha rilievo determinante nell’economia della valutazione disciplinare contestata, atteso che l’Amministrazione ha correttamente tenuto conto del “fatto storico” dell’accertato possesso di ben cinque dosi di hashish (per un totale di 9,3 grammi) e di ulteriori due dosi di cocaina (per un totale di 0,5 grammi), non escluso nella sua materialità dalla sentenza penale di non luogo a procedere per il reato di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, il quale da solo ben giustifica la conclusione cui è pervenuta la Commissione di Disciplina, avuto presente che tra i compiti precipui dell’Arma dei Carabinieri, direttamente incisi dal comportamento dell’appellante, vi è il contrasto al traffico degli stupefacenti che, nella specie, invece di essere contrastato dal D S, in attuazione dei suoi doveri di appartenente all’Arma, è stato alimentato, ancorché in funzione di un uso dichiarato (in sede penale) occasionale.

2.4 - Inammissibile è, invece, il quarto motivo di impugnazione della sentenza in esame, con il quale è stata dedotta l’abnormità della sanzione massima irrogata, tenuto conto che il militare non sarebbe stato mai sospeso dal servizio, come pure prevede obbligatoriamente l’art. 9 della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, qualora siano contestati all’inquisito “…fatti di notevole gravità…” , e che ha continuato a prestare regolarmente servizio per altri due anni, dopo il fatto contestato.

Ed invero, dette doglianze impingono, a ben vedere, nel merito di valutazioni che sono di esclusiva competenza dell’Amministrazione, potendosi agevolmente rinvenire nella fattispecie, secondo ordinari parametri di razionalità, i presupposti richiesti dalla legge per irrogare la massima sanzione disciplinare (e cioè quella espulsiva), che è da ritenere, dunque, congrua per le stesse ragioni già indicate nel capo di motivazione che precede.

2.5 - Prive di pregio, inoltre, sono le deduzioni svolte con il quinto motivo di appello tenuto conto dell’ampia ed articolata documentazione che sorregge, anche sotto il profilo motivazionale, la delibera della Commissione di Disciplina, non potendosi non attribuire una valenza sostanziale al dovere imposto dalla legge all’Amministrazione di esternare le ragioni della propria decisione che, nella specie, è provato che sia stato assolto, tenuto conto della citata documentazione.

Quanto al decreto direttoriale che ha irrogato la sanzione espulsiva contestata è sufficiente rinviare, non soltanto alla predetta documentazione, ma anche all’articolata motivazione, espressamente resa con detto provvedimento, delle ragioni del necessario allontanamento definitivo del D S dall’Arma.

2.6 - Infine, deve il Collegio rilevare che con la memoria depositata il 29 ottobre 2009 l’appellante ha dedotto, sostanzialmente, un nuovo motivo di appello laddove ha censurato gli atti impugnati di violazione e falsa applicazione dell’art. 51, comma 4, del codice di procedura civile e dell’art. 70 della legge n. 599 del 1954, nonché del principio di terzietà dell’organo giudicante perché, in sede di seconda valutazione, non sarebbe cambiata la composizione della Commissione di Disciplina.

Tale motivo è, all’evidenza, inammissibile perché proposto con atto non notificato, in disparte il rilievo che una tale censura, non essendo stata proposta neppure con il ricorso di primo grado, comunque non può esser oggetto della revisione richiesta a questo Giudice di appello della sentenza in epigrafe.

3. - Quanto alle spese del presente grado di giudizio, ritiene il Collegio che sussistano, in ogni caso, giusti motivi per non porle a carico del soccombente sig. D S, tenuto conto del non univoco indirizzo giurisprudenziale su alcune delle questioni trattate.

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