Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2013-11-22, n. 201305569

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2013-11-22, n. 201305569
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201305569
Data del deposito : 22 novembre 2013
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05037/2005 REG.RIC.

N. 05569/2013REG.PROV.COLL.

N. 05037/2005 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5037 del 2005, proposto da:
A R, rappresentato e difeso dall'avv. L M, con domicilio eletto presso L M in Roma, via Federico Confalonieri, 5;
e successivamente: M N, F N, rappresentati e difesi dall'avv. V A, con domicilio eletto presso Fabio Ferraro in Roma, via Bertoloni 14;

contro

Ministero dell'Economia e delle Finanze, Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, Commissione Tributaria Provinciale di Salerno, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Gen.Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II n. 11401/2004, resa tra le parti, concernente decadenza incarico di giudice commissione tributaria provinciale di Salerno


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di M N e di F N;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 gennaio 2013 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Anna Marcantonio (su delega di V A) e l'avvocato dello Stato Alessandra Bruni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con l’appello in esame la signora A R (e successivamente le signore Monica e F N, nella qualità di eredi della predetta) impugnano la sentenza 20 ottobre 2004 n. 11401, con la quale il TAR per il Lazio, sez. II, ha rigettato il ricorso proposto dalla Avolio avverso gli atti che ne hanno disposto la decadenza da giudice tributario.

Tali atti sono stati adottati sul presupposto dello svolgimento di attività di consulenza in materia tributaria, non ritenute compatibili con lo status di giudice tributario e l’esercizio delle relative funzioni.

La sentenza appellata afferma, in particolare:

- non vi è alcuna violazione delle norme sulla partecipazione procedimentale, posto che “la decadenza risulta essere stata comminata a conclusione di un procedimento cui l’interessata è stata fin dall’inizio ammessa a partecipare, anche presentando memorie difensive per il cui esame l’amministrazione ha legittimamente disposto un supplemento di istruttoria, nell’ambito della medesima procedura”;

- sono inammissibili le censure riferite all’immediata esecutività data alla delibera consiliare di decadenza, a seguito del suo recepimento con decreto ministeriale. Tale decreto, infatti, “ben poteva basarsi sulle risultanze poste a base della predetta delibera, pur sospesa medio tempore dal TAR . . . riverberandosi la predetta sospensione e gli eventuali vizi sull’efficacia e sull’eventuale invalidità derivata, ma non sull’esistenza dell’impugnato decreto ministeriale conclusivo del procedimento”;

- non risultano decisive, per affermare la illegittimità della disposta decadenza, “il mancato svolgimento dell’attività di consulenza tributaria e la mancata tenuta di scritture contabili”. Ciò in quanto la disciplina in tema di incompatibilità “risponde infatti non al limitato fine di evitare sovrapposizioni fra attività di consulenza e funzioni giurisdizionali svolte nei confronti del medesimo soggetto, già adeguatamente tutelato dagli istituti del’astensione e della ricusazione, bensì alla più ampia finalità di garantire il rispetto dei principi, costituzionali e comunitari, della terzietà e imparzialità del giudice (in questo caso tributario) davanti ai cittadini.

Avverso tale sentenza sono stati proposti i seguenti motiv i di appello:

a) violazione delle norme e dei principi in materia di giusto procedimento e in particolare degli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, con riferimento ai principi, anche costituzionali, della difesa e del contraddittorio, nonché della immutabilità della contestazione;
poiché il procedimento di decadenza è stato “avviato sulla base di una determinata circostanza di fatto, ma poi concluso con la pronuncia della decadenza, sulla base di altre e diverse circostanze di fatto, mai nemmeno comunicate” (presenza dell’indicazione “consulenza tributaria” sul citofono, partita IVA riferita alla “attività degli studi legali”, essere coniugata con il legale rappresentante di una società di consulenza tributaria);

b) violazione e/o falsa applicazione art. 8, co. 1, lett. i) d. lgs. n. 545/1992, poiché la tenuta di scritture contabili per gli ani 1994/1997, ammesso che “costituisca esercizio di attività di consulenza tributaria”, non era prevista quale causa di incompatibilità dal testo della disposizione all’epoca vigente;

c) violazione e/o falsa applicazione, sotto altro profilo, dell’ art. 8, co. 1, lett. i) d. lgs. n. 545/1992,;
eccesso di potere per carenza dei presupposti e per carenza di ragionevolezza nel rapporto tra presupposti individuati e conclusioni tratte;
difetto di motivazione e travisamento dei fatti, poiché i fatti contestati non erano tali da “dimostrare l’esercizio di attività di consulenza tributaria, nemmeno in forma occasionale”.

L’appellante ha inoltre riproposto la domanda di risarcimento del danno.

A seguito del decesso della signora Avolio, le eredi Monica e F N hanno proposto “ricorso per la prosecuzione del processo e contestuale istanza di fissazione di udienza”.

Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Economia e delle Finanze ed il Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria.

All’udienza di trattazione la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

L’appello è fondato e deve essere accolto, in relazione al primo ed al terzo motivo (sub lett. a) e c) dell’esposizione in fatto), con conseguente riforma della sentenza impugnata.

Con il primo motivo l’appellante lamenta che il procedimento di decadenza, “avviato sulla base di una determinata circostanza di fatto”, è stato poi “concluso con la pronuncia della decadenza, sulla base di altre e diverse circostanze di fatto, mai nemmeno comunicate” quali la presenza dell’indicazione “consulenza tributaria” sul citofono, l’apertura di una partita IVA, che si assume invece riferita alla “attività degli studi legali”, l’essere coniugata con il legale rappresentante di una società di consulenza tributaria, della quale l’appellante non fa parte.

Orbene, in procedimenti amministrativi particolari quali sono i procedimenti disciplinari, caratterizzati da una propria “natura afflittiva” e destinati eventualmente a concludersi con l’irrogazione di una sanzione incidente sui diritti e sullo status dell’incolpato, l’amministrazione è tenuta ad estendere al massimo le garanzie procedimentali, e segnatamente a rispettare il principio della previa contestazione dell’addebito, l’esigenza del contraddittorio, il diritto di difesa dell’incolpato.

Ciò comporta che la contestazione dell’addebito che, nella prospettazione iniziale dell’amministrazione, integra illecito disciplinare è costituita da fatti che devono essere i medesimi per i quali si perviene, all’esito dell’istruttoria e delle giustificazioni dell’interessato, alla irrogazione della sanzione.

Ciò comporta, per un verso, che l’amministrazione deve contestare con immediatezza tutti i fatti di cui sia a conoscenza e che ritiene possano costituire illecito disciplinare (non essendo ammesse le cd. “contestazioni a catena” – come definite nel processo penale – volte ad eludere termini decadenziali);
per altro verso, che laddove, nel corso dell’istruttoria (o comunque) emergano nuovi fatti rilevanti ai fini dell’integrazione dell’illecito disciplinare, l’amministrazione è tenuta a contestarli con immediatezza all’incolpato, onde garantire in concreto l’attuazione del diritto di difesa.

Per queste ragioni, non può essere condivisa la sentenza impugnata, laddove essa afferma che non vi è alcuna violazione delle norme sulla partecipazione procedimentale, posto che “la decadenza risulta essere stata comminata a conclusione di un procedimento cui l’interessata è stata fin dall’inizio ammessa a partecipare, anche presentando memorie difensive per il cui esame l’amministrazione ha legittimamente disposto un supplemento di istruttoria, nell’ambito della medesima procedura”.

Ciò che rileva nel caso del procedimento disciplinare, come si è già detto, non è solamente l’assicurazione della partecipazione al detto procedimento e la concreta possibilità di interloquire, quanto la costante certezza dell’ “oggetto” del procedimento medesimo, e dunque dei precisi fatti contestati come illecito disciplinare, in relazione ai quali articolare le proprie difese.

Nel caso di specie, quindi, non essendovi corrispondenza tra fatti oggetto di contestazione e fatti per i quali è stata determinata la sanzione della decadenza, non può che trovare accoglimento il primo motivo di appello.

L’accoglimento di tale motivo è di per sé sufficiente a sorreggere l’accoglimento del ricorso. Tuttavia, altrettanto fondato è il terzo motivo di appello, con il quale in particolare si deduce l’error in iudicando in relazione alla (non correttamente considerata) sussistenza del vizio di eccesso di potere per carenza dei presupposti e per carenza di ragionevolezza nel rapporto tra presupposti individuati e conclusioni tratte;
difetto di motivazione e travisamento dei fatti, poiché i fatti contestati non erano tali da “dimostrare l’esercizio di attività di consulenza tributaria, nemmeno in forma occasionale”.

Questo Collegio deve innanzi tutto ribadire l’ampia discrezionalità della quale è titolare l’amministrazione nella valutazione dei fatti ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare e della gravità dei medesimi, anche ai fini della graduazione della sanzione. Così come occorre ribadire che il sindacato giurisdizionale di legittimità deve necessariamente limitarsi alla verifica della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge e della logicità/ragionevolezza della valutazione dei fatti, onde escludere il relativo vizio di eccesso di potere.

Tanto precisato, nel caso di specie, occorre rilevare che i fatti concretamente considerati non sono ex se idonei a fornire la prova della esistenza e dello svolgimento di una attività professionale incompatibile con lo status di giudice tributario (tanto non potendo dedursi né dalla “targhetta” del citofono o dalla esistenza di una partita IVA), ovvero sono tali da postulare la verifica di una eventuale situazione di incompatibilità, risolvibile con il mutamento di sede di svolgimento delle funzioni (attività di consulenza tributaria del coniuge).

Per le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata e accoglimento del ricorso instaurativo del giudizio di I grado ed annullamento degli atti con il medesimo impugnati.

L’accoglimento della domanda di annullamento comporta anche l’accoglimento della domanda di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, posto che, in conseguenza dell’atto illegittimo, l’appellante è stata privata della possibilità di esercizio delle funzioni di giudice tributario.

Prescindendo dalla impossibile reintegrazione in forma specifica, la parte appellante quantifica detto risarcimento nei compensi non percepiti dal 27 giugno 2000 al 29 marzo 2001 e dal 3 maggio 2005 al reintegro e, dunque, ora, fino alla data di teorica cessazione dell’incarico (v. pag. 24 ricorso in riassunzione).

La domanda deve essere accolta, per i periodi sopra indicati, nei limiti del 50% del compenso fisso spettante al giudice tributario, stante la mancata prestazione lavorativa connessa alla propria obbligazione, pur a fronte del comportamento illecito dell’amministrazione, con attualizzazione delle somme dovute, trattandosi di debito di valore.

Stante la natura delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

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