Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-08-03, n. 201603509

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-08-03, n. 201603509
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201603509
Data del deposito : 3 agosto 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 03/08/2016

N. 03509/2016REG.PROV.COLL.

N. 00781/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 781 del 2008, proposto dal signor F M, rappresentato e difeso dall'avvocato F A, con domicilio eletto presso Massimo Angelini in Roma, piazza Cavour 17;

contro

Comune di Cava dei Tirreni, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati G S e A C, con domicilio eletto presso Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria n. 2;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la CAMPANIA – Sede staccata di SALERNO - Sezione II, n. 3 del 9 gennaio 2007, resa tra le parti, concernente diniego condono edilizio per trasformazione porticato in locale attività' sportive.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Cava dei Tirreni;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 aprile 2016 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti, in sede di chiamata preliminare, gli avvocati Ludovico Visone (su delega di Accarino), e Angela Ferrara (su delega di Senatore), e successivamente il medesimo avvocato Accarino;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con l’appello in esame, il signor Mario Farano impugna la sentenza 9 gennaio 2007 n. 3, con la quale il TAR per la Campania, sezione staccata di Salerno, ha rigettato il suo ricorso, proposto avverso il provvedimento con il quale il Comune di Cava dei Tirreni – prot. n. 54 dell’8 novembre 2004 - ha respinto la domanda volta ad ottenere la concessione edilizia in sanatoria, relativamente alla trasformazione in locale per attività sportive del porticato condominiale sito al piano terra del fabbricato di via Canale nn. 17-19.

1.1. L’atto di diniego è stato adottato per insussistenza di opere edilizie significanti l’avvenuta trasformazione sottoposta a procedimento di condono.

1.2. La sentenza impugnata afferma, in particolare, che:

- non si è formato il titolo concessorio in sanatoria per silentium , ai sensi dell’art. 35, co. 17 e 18, l. n. 47/1985, posto che tale normativa “condiziona la formazione del silenzio-accoglimento al pagamento di tutte le somme dovute per il rilascio del titolo di assentimento (per oblazione, oneri concessori, indennità prevista nei casi di opere edilizie in aree sottoposte a vincolo ambientale, etc.) ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria per l’accatastamento”;
tanto non è avvenuto nel caso di specie;

- in ogni caso, il decorso del termine biennale per la formazione del silenzio assenso è stato interrotto da una richiesta istruttoria dell’amministrazione, rimasta priva di riscontro;

- ai fini della verifica dell’ultimazione dell’opera, onde poter conseguire la concessione edilizia in sanatoria ex art. 31 l. n. 47/1985, con riguardo ad opere interne, rileva il cd. “completamento funzionale”, il quale “implica l’avvenuta realizzazione di opere edilizie che, seppur non definite nei minimi elementi di finitura, siano giunte ad un grado di completamento che indichi l’identificazione del nuovo assetto del manufatto edilizio in sé e sotto l’aspetto della mutata destinazione e l’incompatibilità dello stesso con l’originario uso”;

- nel caso di specie, al di là delle opere effettivamente realizzate (un muretto), “non è dato individuare l’avvenuta trasformazione del porticato in locale-palestra, tant’è che lo stesso risulta, per la maggior parte dei lati, solo perimetrato dal detto muretto” ed inoltre, come emerge dalla consulenza di parte dello stesso ricorrente, “lo stato dei luoghi raffigurato al 31 dicembre 1993 non è comprensivo, tra l’altro, degli spogliatoi e dei servizi igienici che sono opere necessarie ed indispensabili alla trasformazione invocata, opere che compaiono invece solo nel progetto di completamento del 1996”.

1.3. Avverso tale decisione vengono proposti i seguenti motivi di appello:

a) errores in procedendo et in iudicando violazione art. 26 l. n. 1034/1971;
violazione e mancata applicazione artt. 32 e 35, co. 1, 12, 13 l. n. 47/1985;
violazione e falsa applicazione art. 39, co. 1 e 4 l. n. 724/1994;
violazione e mancata applicazione circolare Ministero LL.PP. 17 giugno 1995 n., 2241/UL;
eccesso di potere per perplessità, mancata ponderazione ed applicazione di propri atti, contraddittorietà dell’azione amministrativa;
violazione artt. 1, 7, 8, 19 e 20 l. n. 24/1990;
eccesso di potere per violazione del giusto procedimento;
violazione art. 3 l. n. 241/1990;
violazione e falsa applicazione artt. 31 ss. l. n. 47/1985;
eccesso di potere sotto molteplici profili;
ciò in quanto, ai fini della verifica del “completamento funzionale” non bisogna dare prevalenza “all’effettivo utilizzo del locale con la nuova destinazione (palestra)”, ma “per accedere al condono bisogna verificare che le opere eseguite non consentano più l’originaria destinazione”. Ciò è quanto avvenuto nel caso di specie, dove le opere realizzate “risultavano incompatibili con l’originaria destinazione d’uso del locale interessato”;

b) errores in procedendo et in iudicando , violazione art. 26 l. n. 1034/1971;
violazione e mancata applicazione artt. 31 ss. l. n. 47/1985;
violazione art. 3 l. n. 241/1990;
eccesso di potere sotto molteplici profili;
poiché “non risulta vera la circostanza che l’unica opera realizzata dal sig. Farano per trasformare il porticato condominiale sia stata la perimetrazione del porticato con il muretto”, ma nelle opere indicate dalla relazione tecnica di parte depositata nel giudizio di I grado;

c) errores in procedendo et in iudicando violazione art. 26 l. n. 1034/1971;
violazione e mancata applicazione artt. 32 e 35, co. 1, 12, 13 l. n. 47/1985;
violazione e falsa applicazione art. 39, co. 1 e 4 l. n. 724/1994;
violazione e mancata applicazione circolare Ministero LL.PP. 17 giugno 1995 n., 2241/UL;
eccesso di potere per perplessità, mancata ponderazione ed applicazione di propri atti, contraddittorietà dell’azione amministrativa;
violazione artt. 1, 7, 8, 19 e 20 l. n. 24/1990;
eccesso di potere per violazione del giusto procedimento;
violazione art. 3 l. n. 241/1990;
violazione e falsa applicazione artt. 31 ss. l. n. 47/1985;
eccesso di potere sotto molteplici profili;
ciò in quanto il “completamento funzionale”, oltre che dalla coerenza delle opere realizzate, deve essere valutato anche con riferimento alla normativa tecnica degli impianti sportivi;

d) errores in procedendo et in iudicando violazione art. 26 l. n. 1034/1971;
violazione e mancata applicazione artt. 32 e 35, co. 1, 12, 13 l. n. 47/1985;
violazione e falsa applicazione art. 39, co. 1 e 4 l. n. 724/1994;
violazione e mancata applicazione circolare Ministero LL.PP. 17 giugno 1995 n., 2241/UL;
eccesso di potere per perplessità, mancata ponderazione ed applicazione di propri atti, contraddittorietà dell’azione amministrativa;
violazione artt. 1, 7, 8, 19 e 20 l. n. 24/1990;
eccesso di potere per violazione del giusto procedimento;
violazione art. 3 l. n. 241/1990;
violazione e falsa applicazione artt. 31 ss. l. n. 47/1985;
eccesso di potere sotto molteplici profili;
ciò in quanto: d1) “solo le somme da corrispondere a titolo di oblazione di cui all’art. 39 l. n. 724/1994 (delle tre in discussione) devono essere integralmente versate ai fini del rilascio (espresso o tacito) della sanatoria”;
d2) non incide sulla formazione del silenzio-assenso la richiesta di integrazione documentale del 10 aprile 2001, poiché ”trattandosi di diritti di credito ed alla luce della ricordata autonomia della procedura di sanatoria, non si può ritenere che una mera richiesta di documenti possa qualificarsi come atto di costituzione in mora del debitore ai sensi e per gli effetti dell’art. 2943 cod. civ.”;
d3) poiché è intervenuto il nuovo accatastamento (in data 31 luglio 2001).

1.4. Si è costituito in giudizio il Comune di Cava dei Tirreni, che ha concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

1.5. In data 18 marzo 2016, l’appellante ha depositato una pluralità di documenti, in particolare ottenuti a seguito di istanza di accesso del 22 febbraio 2016.

1.6. Successivamente, con memoria depositata il 24 marzo 2016, ha, per un verso, articolato una pluralità di “considerazioni”, derivanti dalla acquisita nuova documentazione (pagg. 7 ss. memoria cit., punti a), b), c) e pagg. 14 -15);
per altro verso (pag. 12-14, punto d), ha articolato considerazioni che, in quanto volte a censurare “il diniego di una istanza di sanatoria di opera abusiva nel frattempo divenuta, comunque, assentibile”, assurgono al rango di ulteriore motivo di impugnazione.

Con ulteriore memoria depositata il 7 aprile 2016, il Comune di Cava dei Tirreni ha eccepito la “tardività della documentazione depositata per la prima volta in data 18 marzo 2016;
violazione art. 104 c.p.a.;
inammissibilità delle difese svolte da pag. 7 a pag. 15 della memoria difensiva depositata il 24 marzo 2016”.

1.7. All’udienza pubblica di trattazione del 28 aprile 2016, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. Il Collegio, ai fini della esatta delimitazione del thema decidendum e della valutazione delle prove a supporto dei motivi di impugnazione, ed anche al fine di pronunciare sulla specifica eccezione proposta in merito dal Comune di Cava dei Tirreni, deve preliminarmente decidere in ordine alla ammissibilità del motivo di appello di cui alla memoria del 21 marzo 2016, nonché della documentazione depositata in data 18 marzo 2016 e delle “considerazioni” svolte argomentando dalla stessa, come innanzi indicate.

Questa Sezione ha già avuto modo di occuparsi del problema dei motivi e documenti nuovi in appello (Sez. IV, 29 agosto 2013 n. 4315), con considerazioni che devono intendersi riconfermate nella presente sede.

Si è rilevato, per quel che qui interessa, che l’art. 104 Cpa, in specificazione di quanto in generale previsto dall’art. 345 c.p.c., prevede:

“1. Nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande, fermo quanto previsto dall’ articolo 34, comma 3, né nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio. Possono tuttavia essere chiesti gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza stessa.

2. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

3. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati.”.

Con tali disposizioni, si è inteso preservare alla cognizione del giudice di appello il thema decidendum offerto al giudizio di I grado e oggetto della sentenza impugnata, che non può ricevere ampliamenti – in tal modo sfuggendo alla regola del doppio grado di giudizio – ma semmai riduzioni, per effetto dei motivi di impugnazione concretamente proposti dalle parti, che ben possono circoscriverlo in II grado, rispetto al precedente grado di giudizio.

Il divieto di proposizione di motivi nuovi in appello, nel confermare l’esigenza che tutto il “dedotto ed il deducibile”, offrendosi alla cognizione del giudice di I grado, non sfugga al doppio grado di giudizio, costituisce anche attuazione dei principi enunciati dall’art. 24 Cost. in tema di diritto alla tutela giurisdizionale e di diritto di difesa, cui inerisce il principio di parità processuale delle parti.

Ed infatti, salvo taluni casi nei quali, per esigenze processuali ed in ossequio al principio di effettività della tutela giurisdizionale, è possibile derogare al principio del doppio grado di giudizio (non costituzionalizzato ma positivamente previsto, in via generale, dalla legge processuale), non può riconoscersi ad alcuna delle parti la possibilità di sottrarre alle altre – attraverso un uso temporalmente differito dei mezzi di tutela – il diritto ad avere i gradi di giudizio previsti dal codice di rito (e quindi, nel caso della giurisdizione di legittimità, la doppia verifica del giudice).

In tal senso, si è affermato che nel giudizio amministrativo il divieto di motivi nuovi in appello costituisce la logica conseguenza dell'onere di specificità dei motivi di impugnazione in primo grado del provvedimento amministrativo e più in generale dell'onere di specificazione della domanda da parte di chi agisce in giudizio (Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2011 n. 5758).

E’ pur vero che l’art. 104, comma 3, consente la proposizione di motivi aggiunti “qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”.

Sul punto, tuttavia, questo Consiglio di Stato ha già affermato come i motivi aggiunti sono consentiti in appello solo per dedurre ulteriori censure in relazione ad atti e provvedimenti già impugnati, allorchè i vizi ulteriori emergano da documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di I grado, il che determina l’inammissibilità dell’impugnazione in appello di nuovi atti, fermo restando la possibilità per la parte, ove ne ricorrano le condizioni, di proporre avverso questi ultimi autonomo ricorso giurisdizionale (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2011 n. 2913;
sez. V, 21 settembre 2011 n. 5329).

E si è altresì aggiunto (sez. IV, 16 giugno 2011 n. 3662) che “l’art. 104, comma 3, cod. proc. amm., laddove consente la proposizione di motivi aggiunti in appello “qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”, ha codificato il pregresso orientamento giurisprudenziale che ammette i motivi aggiunti in grado d’appello al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella diversa ipotesi in cui con essi si intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 7 aprile 2008, nr. 1442;
Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2007, nr. 5024;
Cons. Stato, sez. VI, 25 luglio 2006, nr. 4648)”.

Alle considerazioni sin qui esposte, occorre aggiungere che, dalla disamina del comma 3 dell’art. 104 Cpa, si deduce che l’oggetto del giudizio di appello resta circoscritto agli atti e provvedimenti impugnati in I grado.

Ciò comporta, non solo che ulteriori “atti”, ancorché non aventi natura provvedimentale (non a caso la norma cita distintamente “atti” e “provvedimenti”), non possono essere oggetto di impugnazione, ma anche che i vizi ad essi eventualmente attribuiti non possono riverberarsi quali vizi – in via di illegittimità derivata – degli atti già impugnati.

Diversamente opinando, si giungerebbe o ad ammettere che un provvedimento amministrativo possa risentire in via derivata dell’illegittimità di un atto del procedimento, pur senza impugnazione di questo;
ovvero, in sostanza, si aggirerebbe il chiaro limite posto dall’art. 104, co. 3, alla proposizione di motivi aggiunti in appello, in quanto, pur non ammettendone formalmente l’impugnazione, i nuovi atti (ed i loro vizi) dispiegherebbero effetti sui provvedimenti impugnati, allo stesso modo che se fossero stati anch’essi oggetto di impugnazione.

Inoltre, la condizione della mancata produzione del documento nel giudizio di I grado, costituisce soltanto un limite preclusivo oggettivo alla considerabilità dello stesso ai fini della proposizione di motivi aggiunti in appello, ma tale condizione non “seleziona” a contrariis tutti gli altri documenti come “sopravvenuti”, e quindi utilizzabili ai fini di eventuali motivi aggiunti.

Infatti, ai documenti “prodotti” devono aggiungersi i documenti che – pur non prodotti dall’amministrazione o da altre parti – possono comunque formare oggetto di acquisizione istruttoria ai sensi degli artt. 63 e 65 Cpa.: questi documenti, quindi, ancorché non acquisiti al procedimento, non possono in futuro essere posti a fondamento di un eventuale ricorso per motivi aggiunti.

In definitiva, ai fini dell’esclusione di motivi aggiunti in appello ai documenti “conosciuti” (perché prodotti dalle parti), occorre aggiungere i documenti da queste “conoscibili”, ancorché non effettivamente conosciuti.

I motivi aggiunti in appello, di cui all’art. 104, co. 3, Cpa, dunque, devono senz’altro riguardare “atti o provvedimenti amministrativi impugnati”, e non possono essere desunti né da atti endoprocedimentali e/o di procedimenti collegati che avrebbero dovuto essere impugnati (e che eventualmente possono ancora formare oggetto di autonoma impugnazione in I grado), né da documenti non solo conosciuti, in quanto prodotti dalle parti in giudizio, ma anche conoscibili, per il tramite dell’esercizio degli ordinari mezzi di prova che il codice riconosce alle parti, ed in specie, al ricorrente”.

A quanto sin qui esposto (desunto dalla sentenza n. 4315/2013 citata), deve aggiungersi, quale ovvio completamento, che - indipendentemente dalla eventuale proposizione di motivi aggiunti - il divieto di produzione di nuovi mezzi di prova ovvero il deposito di documenti “nuovi” (anch’esso funzionale alla sottoposizione al giudice di appello dello stesso “materiale” oggetto di giudizio da parte della sentenza impugnata), riguarda, con riferimento alla “novità” dei documenti, sia quelli che sono “successivi” al giudizio di I grado (e dunque qualificabili come nuovi rispetto ad esso, in quanto sopravvenuti), sia i documenti che, pur non depositati dall’amministrazione in primo grado, erano tuttavia esistenti ed acquisibili per il tramite di istruttoria ovvero attraverso i normali rimedi offerti dall’ordinamento per la tutela delle posizioni giuridiche soggettive, quali l’esercizio del diritto di accesso.

Ciò comporta che le ipotesi in cui il comma 2 dell’art. 104 consente la produzione e dunque l’utilizzabilità dei documenti devono riguardare:

- o, in generale, documenti meramente integrativi di altri già presenti agli atti del giudizio di I grado (Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014 n. 5509), tali dunque da non alterare il thema decidendum già offerto al primo giudice;

- o documenti dei quali non era possibile l’acquisizione in primo grado, perché non conosciuti né conoscibili, attraverso i normali rimedi (dunque, quei documenti che, non depositati dall’amministrazione ma afferenti al thema decidendum , non avrebbero potuto tuttavia essere acquisiti dalla parte o da questa indicati con un minimo di specificazione al giudice a fini istruttori), e dunque quei casi nei quali per la mancata acquisizione dei documenti vi sia stata “causa non imputabile” alla parte che di essi intenda avvalersi;

- ovvero documenti che il Collegio “ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa”, sia nel caso in cui essi siano stati prodotti dalle parti, sia nel caso in cui se ne disponga ex officio l’acquisizione. Ma tale declaratoria di “indispensabilità” – implicita per quei documenti che, preesistenti o successivi, comportano una definizione “in rito” della controversia - deve conseguire ad una valutazione non già relativa alla “mera rilevanza dei fatti dedotti, ma postula la verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l’onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge processuale” (Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013 n. 4793 e 14 giugno 2013 n. 3339). Solo in questo modo si rende infatti possibile conciliare il potere riconosciuto al giudice dall’art. 63, co. 1, Cpa, ed i divieti, coerenti con il principio dispositivo, di cui all’art. 104 Cpa.

Nel caso di specie, i documenti depositati in data 18 marzo 2016 sono conseguenti ad una istanza di accesso del 22 febbraio 2016 (e ad una successiva precisazione alla medesima, formulata il 3 marzo 2016), concernente la pratica “condono edilizio ex l. 724/94 di cui all’istanza registrata nel cronologico al n. 1599 e assunta al protocollo comunale con il n. 11326 del 1 marzo 1995, compresi relazioni e verbali di qualsiasi tipo connessi e/o conseguenti”.

Come è dato osservare, si tratta di atti afferenti alla pratica di condono edilizio instaurata dall’attuale appellante presso il Comune di Cava dei Tirreni e, dunque, atti che ben avrebbero potuto essere acquisiti al giudizio di I grado, per mezzo di istruttoria o di accesso agli atti tempestivamente esercitato.

Ne consegue che, anche in accoglimento dell’eccezione specificamente formulata dal Comune di Cava dei Tirreni, il suddetto deposito documentale deve essere dichiarato inammissibile, di modo che non possono essere esaminate le argomentazioni di cui alla memoria del 24 marzo 2015, come innanzi specificate.

Quanto alle deduzioni di cui al punto c) della memoria depositata il 24 marzo 2015, occorre dichiararne l’inammissibilità, nella misura in cui alle stesse possa riconoscersi natura di motivo aggiunto, in ragione del divieto di motivi nuovi in appello (art. 104 Cpa), in disparte ogni verifica in ordine alla necessità di notificazione (e fermo restando, comunque, quanto già precisato in ordine alla non esaminabilità di considerazioni fondate su una inammissibile produzione di nuovi documenti).

Giova, comunque, osservare che, essendo oggetto del giudizio in I grado il precitato diniego di concessione edilizia in sanatoria n. 54 del 2004 , non possono comunque trovare accoglimento considerazioni desunte da interventi legislativi successivi, salvo che in attuazione di essi (ipotesi qui non ricorrente), l’amministrazione non si sia diversamente determinata, così verificandosi una cessazione della materia del contendere ovvero l’improcedibilità dell’appello per sopravvenuto difetto di interesse.

4. Nel merito, l’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

4.1. Occorre preliminarmente esaminare, in quanto sicuramente antecedente sul piano logico-giuridico, il quarto motivo di appello (sub d) dell’esposizione in fatto), con il quale si censura il capo della sentenza relativo al non riconoscimento della intervenuta formazione del silenzio-assenso sull’istanza di condono a suo tempo presentata dal ricorrente.

L’art. 35, comma 18, della l. n. 47/1985, prevede che, decorso il termine perentorio di 24 mesi dalla presentazione della domanda di condono, “quest’ultima si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento”.

Tanto con eccezione dei casi in cui si tratti di opere non suscettibili di sanatoria, ex art. 33 l. n. 47/1985, e fermo quanto disposto dal successivo art. 40.

Occorre, innanzi tutto, precisare, sul piano generale, che l’art. 35 cit., nell’introdurre una particolare ipotesi di silenzio-assenso e cioè provvedimento implicito di assenso sulla domanda di concessione edilizia in sanatoria, non si sottrae agli elementi che, in generale, ai sensi degli artt. 20 e 21 della l. n. 241/1990, devono sussistere perché possa intendersi formato il suddetto silenzio.

Per un verso, dunque, devono sussistere, con riferimento al caso di specie, tutti i presupposti perché possa essere emanato un provvedimento favorevole espresso;
per altro verso, deve essere decorso il termine normativamente indicato, senza che l’amministrazione abbia provveduto ovvero, in presenza di una domanda ritenuta incompleta, non abbia richiesto le occorrenti integrazioni alla stessa.

Nel caso di specie, in cui il termine è indicato in due anni, devono altresì ricorrere ulteriori condizioni, quali:

- il “pagamento di tutte le somme eventualmente dovute a conguaglio”;

- la “presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento”.

La giurisprudenza amministrativa ha già chiarito che, oltre al pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, per la formazione del silenzio assenso occorre che siano anche assolti gli oneri di documentazione (che si risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito sostanziale), relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all’ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere esercitati i poteri di verifica dell’amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. V, n. 932 del 2015;
sez. IV, 16 febbraio 2011 n. 1005 e 30 giugno 2010 n. 4174).

Più in particolare, il Collegio ritiene che le somme dovute, il cui pagamento deve intervenire nei due anni dalla presentazione della domanda perché possa dirsi formato il silenzio-assenso, consistono – diversamente da quanto ritenuto dall’appellante (sub d1) dell’esposizione in fatto) – in tutte le somme che il richiedente è necessario versi per conseguire la concessione edilizia in sanatoria, e dunque non solo quanto ancora dovuto per oblazione, ma anche quanto dovuto in relazione alla tipologia di abuso da sanare, ovvero per oneri concessori (artt. 3, 5 e 6 l. 10/1977, all’epoca vigente), etc.: in altre parole, tutte le somme che sarebbero richieste dall’amministrazione per il rilascio della concessione laddove questo avvenisse mediante provvedimento espresso.

Tale conclusione è sostenuta, sul piano letterale, dal riferimento a “tutte” le somme, di modo che non si comprenderebbe una interpretazione riduttiva riferita alle sole somme dovute a titolo di oblazione, nonché dal riferimento al “conguaglio”, che, lungi dall’essere inteso come conguaglio delle prime due rate di oblazione, deve essere rettamente inteso come “conguaglio di quanto complessivamente dovuto”.

D’altra parte, se il “provvedimento implicito di assenso” deve tenere compiutamente luogo del non emanato “provvedimento espresso”, perché tale provvedimento implicito possa “formarsi” non possono non sussistere tutti i presupposti richiesti nel caso di specie.

Diversamente opinando, si otterrebbe una diversa disciplina che, mentre nel caso di provvedimento espresso, impone all’amministrazione (e all’interessato) la sussistenza di tutti i presupposti e condizioni normativamente richiesti per il rilascio dell’atto, nel caso di provvedimento implicito prescinderebbe dal dato normativo, di modo che l’esistenza del provvedimento si determinerebbe in modo diverso (e del tutto casualmente determinato) a seconda che l’amministrazione provveda nel termine indicato dalla legge, ovvero rimanga inerte.

In questa ipotesi, per un verso si verificherebbe una non ammissibile disparità di trattamento tra cittadini nei confronti della pubblica amministrazione;
per altro verso, si perverrebbe a “costruire” una tipologia di provvedimento implicito sganciata dal rispetto del principio di legalità desumibile dall’art. 97 Cost.

Le conclusioni ora rappresentate confermano anche l’interpretazione amministrativa a suo tempo effettuata dal Ministero dei lavori pubblici con circolare 17 giugno 1995 n. 2241/UL, il cui punto 3.7 afferma che, in caso di condono edilizio, la formazione del silenzio assenso interviene, decorso il termine prescritto, “in presenza di una domanda completa della documentazione essenziale e dei contenuti descrittivi dell’abuso, per la quale vi sia stato il regolare versamento sia dell’oblazione sia degli oneri concessori, nonché la denuncia al catasto dell’immobile . . .”.

Per le ragioni esposte, il quarto motivo di appello deve essere respinto (risultando superfluo esaminare gli ulteriori profili dello stesso, sub lett, d2) e d3) dell’esposizione in fatto), e deve, sul punto, essere confermata la sentenza impugnata, laddove essa (pag. 4) afferma che la formazione del silenzio-assenso di cui all’art. 35 l. n. 47/1985 è condizionata “al pagamento di tutte le somme dovute per il rilascio del titolo di assentimento”.

4.2. Anche gli ulteriori motivi di appello (sub lett. a-c dell’esposizione in fatto) sono infondati e devono essere, pertanto, respinti

Con gli stessi si contesta la definizione di “completamento funzionale” offerta dalla sentenza impugnata.

Quest’ultima ha affermato che, ai fini della verifica dell’ultimazione dell’opera, il cd. “completamento funzionale”, necessario al fine di poter conseguire la concessione edilizia in sanatoria ex art. 31 l. n. 47/1985, con riguardo ad opere interne, “implica l’avvenuta realizzazione di opere edilizie che, seppur non definite nei minimi elementi di finitura, siano giunte ad un grado di completamento che indichi l’identificazione del nuovo assetto del manufatto edilizio in sé e sotto l’aspetto della mutata destinazione e l’incompatibilità dello stesso con l’originario uso”

Si rileva, altresì, in sentenza che nel caso di specie, al di là delle opere effettivamente realizzate (un muretto), “non è dato individuare l’avvenuta trasformazione del porticato in locale-palestra, tant’è che lo stesso risulta, per la maggior parte dei lati, solo perimetrato dal detto muretto” ed inoltre, come emerge dalla consulenza di parte dello stesso ricorrente, “lo stato dei luoghi raffigurato al 31 dicembre 1993 non è comprensivo, tra l’altro, degli spogliatoi e dei servizi igienici che sono opere necessarie ed indispensabili alla trasformazione invocata, opere che compaiono invece solo nel progetto di completamento del 1996”.

Come già affermato dalla giurisprudenza del giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2011 n. 2750;
sez. V, 4 luglio 2002 n. 3679), il concetto di “completamento funzionale”, perché possa darsi luogo a condono edilizio in relazione ad opere interne, richiede che le opere realizzate siano già tali (alla data di scadenza del termine considerato dalla legge per la loro condonabilità) da dimostrare la loro finalizzazione ad un uso dell’immobile diverso da quello originariamente assentito, il che evidentemente postula una intervenuta “incompatibilità” dello stato dell’immobile (come trasformato), con la precedente destinazione.

Si è anche chiarito, con ciò “mitigando” le conseguenze che l’interpretazione letterale di “completamento” comporterebbe, che non occorre che l’immobile risulti completamente ultimato con riferimento a quanto richiesto dal nuovo uso, essendo invece sufficiente che risultino completate tutte le opere “principali”, e cioè quelle opere idonee a dimostrare la nuova destinazione, in sé incompatibile con la precedente.

Alla luce di quanto esposto, non può trovare accoglimento quanto sostenuto con il primo motivo di appello, secondo il quale è sufficiente che le opere realizzate dimostrino l’intervenuta incompatibilità dell’immobile, come trasformato, con la precedente utilizzazione, poiché, ove ciò fosse, verrebbe meno il significato stesso di “completamento funzionale”.

Nel caso di specie, le opere realizzate dall’attuale appellante non sono idonee a dimostrare l’intervenuto “completamento funzionale” di locali da destinare a palestra. E tale completamento non risulta identificabile nemmeno nel caso in cui si accedesse alla tesi sostenuta con il secondo motivo di appello, laddove (pagg. 8-9) si elencano una serie di interventi che, nella prospettazione del ricorrente, risulterebbero ultimati alla data della domanda. E ciò in quanto gli stessi – prescindendosi da ogni verifica in ordine alla loro data di ultimazione, essendosi in sentenza dato atto di una diversa realtà fattuale – stante la loro generica natura, e quindi la loro riferibilità ad una pluralità di differenti destinazioni non sono idonei a dimostrare l’intervenuto “completamento funzionale”, relativamente alla destinazione a palestra.

Del resto, e conclusivamente sul punto, costituisce ius receptum il principio secondo cui incombe sul richiedente il condono edilizio straordinario fornire la prova rigorosa dell’effettivo completamento funzionale delle opere abusive nel termine perentorio fissato dalla legge (cfr. fra le tante Cons. Stato, sez. V, nn. 2541 del 2014 e 2194 del 2014);
onere che nel caso di specie non risulta essere stato assolto.

4.3. Alla luce di tutto quanto sin qui esposto, sono pertanto inaccoglibili gli ulteriori motivi di appello (sub lett- a-c dell’esposizione in fatto).

5. In definitiva, stante la sua complessiva infondatezza, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

6. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, tenuto anche conto di quanto previsto dall’art. 26, co. 1, Cpa.

Al riguardo, il Collegio rileva che l’accertamento di infondatezza del gravame si basa, come dianzi illustrato, su ragioni manifeste, in modo da integrare i presupposti applicativi dell’art. 26, co. 1, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (cfr. da ultimo sez. IV, 28 giugno 2016, n. 2864;
sez. V, 21 novembre 2014, n. 5757, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, comma 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative e alla determinazione della misura indennitaria).

La condanna dell’originario ricorrente ai sensi dell’art. 26 cod. proc. amm. rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e f), della legge 24 marzo 2001, nr. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, nr. 208.

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