Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2011-12-15, n. 201106610
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Testo completo
N. 06610/2011REG.PROV.COLL.
N. 06047/2010 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6047 del 2010, proposto dal:
dott. R N P e dal dott. G G, rappresentati e difesi dal prof . avv. C M, con domicilio eletto presso lo studio del predetto difensore, in Roma, via Forster n.174;
contro
Il Consiglio Superiore della Magistratura ed il Ministero della Giustizia, in persona dei rispettivi rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati per legge, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso la sede di detta Avvocatura;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. Lazio – Roma - Sezione I^ - n. 7376/2009, resa tra le parti, concernente revoca delle funzioni di Procuratori Aggiunti presso la Procura della Repubblica di Catania;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consiglio Superiore della Magistratura e del Ministero della Giustizia;
Viste le memorie difensive delle parti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 novembre 2011 il Cons. G R e uditi per le parti gli avvocati prof. C M ed Enrico Arena dell’Avvocatura Generale dello Stato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. - I dott. R N P e G G, magistrati con funzioni di Procuratori Aggiunti presso la Procura della Repubblica di Catania dal 1° giugno 2000, impugnavano innanzi al TAR della Sicilia, sede di Catania, la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura (di seguito, per brevità : CSM) del 15 novembre 2007, chiedendone l’annullamento nella parte in cui aveva enunciato le modalità interpretative ed applicative delle norme dettate dalla legge n. 160 del 2006 e dalla legge n. 111 del 2007 in materia di conferimento di incarichi semidirettivi, nonché tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenti, in particolare i provvedimenti impliciti di decadenza o revoca dalle funzioni giudiziarie in atto, per effetto di quanto disposto dagli articoli 45 e 46 del D.Lvo. n. 160 del 2006 e dal comma 3 dell’art. 5 della legge n. 111 del 2007.
Con successivi motivi aggiunti impugnavano, altresì, la delibera del CSM del 30 aprile 2008 di messa a concorso di 282 posti relativi ad incarichi semidirettivi i cui titolari, in applicazione della norma di cui al già citato art.5, sarebbero decaduti nel periodo compreso tra il 28 gennaio 2008 ed il 31 dicembre stesso anno.
2. - Trasferita la vertenza presso il TAR Lazio, a seguito di accordo tra le parti circa l’individuazione del Giudice competente a decidere, con sentenza n. 7376 del 22 luglio 2009 detto TAR, richiamando numerose sentenze già pronunziate in casi analoghi, respingeva entrambe le impugnazioni proposte dai ricorrenti ritenendo infondate tutte le censure sollevate contro l’interpretazione fornita dal CSM, sia delle norme introduttive del nuovo regime di temporaneità degli incarichi giudiziari, sia, in particolare, della norma dell’art. 5, comma 3, della legge n. 111 del 2007, regolante la fase transitoria di detto nuovo regime;giudicava, infine, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 5, comma 3, citato per asserita violazione dei parametri di cui agli articoli 3, 97, 105 e 107 della Costituzione.
3. - Con l’appello in epigrafe i ricorrenti hanno chiesto la riforma di detta sentenza per i seguenti motivi:
1)- incostituzionalità della temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi disposta dagli articoli 45 e 46 del D.Lvo. n. 160 del 2006 per violazione degli articoli 107, 105, 3 e 97 della Costituzione perché, alla luce di quanto affermato dalla Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali in sede di esame del disegno di legge costituzionale C 3029 (presentato il 23 gennaio 1997) sarebbe “…assolutamente da escludere che un magistrato, titolare di una funzione assegnatagli senza limiti di tempo, possa essere dichiarato decaduto da tale funzione dalla legge ordinaria…” ;
2)- incostituzionalità della disposizione transitoria contenuta nell’art. 5, terzo comma, della legge n. 111 del 2007 perché questa non troverebbe adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza (art. 3 Cost.) e si porrebbe in contrasto con altri valori ed interessi costituzionali quali l‘inamovibilità del magistrato (art. 107 Cost.);
3)- mancanza, insufficienza o contraddittorietà della motivazione su di un punto essenziale della controversia, cioè sull’interpretazione dell’art. 5, ultima parte del terzo comma, della legge n. 111 del 2007, tenuto conto che “…la sentenza impugnata non contiene alcuna considerazione volta a contrastare le argomentazioni svolte sul punto specifico in primo grado….” ;
4) - violazione, falsa ed erronea interpretazione dell’art. 5, ultima parte, del terzo comma, della legge n. 111 del 2007 in quanto “…il provvedimento del CSM impugnato con il ricorso proposto in primo grado incorre nel vizio di omessa motivazione…” su tale punto specifico e “…la sentenza sottoposta a gravame ignora l’esistenza di tale vizio…” , così eludendo una piana e corretta interpretazione di detta norma che agevolmente consentirebbe di pervenire alla conclusione della proroga per un quadriennio degli incarichi semidirettivi scaduti in data posteriore a quella di entrata in vigore del regime transitorio, così come quelli dei ricorrenti.
4. - Si sono costituiti nel presente grado di giudizio il Ministero della Giustizia ed il CSM che con memoria hanno sostenuto:
a)- che il ricorso di prime cure sarebbe inammissibile, per carenza di interesse alla contestazione della delibera 15 novembre 2007, in quanto le questioni interpretative ed applicative degli articoli 45 e 46 del D.Lgs. n. 160 del 2006 e della norma transitoria contenuta nell’ultima parte del comma 3 dell’art. 5 della legge n. 111 del 2007, agitate nella presente sede, sarebbero state risolte dal CSM con altra e precedente delibera del 4 ottobre 2007;quella impugnata con il ricorso di prime cure, invece, si occuperebbe soltanto dell’interpretazione e applicazione dell’art. 19 del già citato decreto legislativo n. 160 del 2006 che non toccherebbe in alcun modo la posizione giuridica dei ricorrenti, siccome attinente alla generale questione “…della permanenza nella posizione tabellare del magistrato o nel gruppo di lavoro…” e soltanto in via meramente confermativa richiamerebbe la determinazione finale della delibera del 4 ottobre 2007;
b) - che, nel merito, sarebbero infondati i motivi di impugnazione siccome coerente il nuovo regime di temporaneità delle funzioni direttive e semidirettive dei magistrati, peraltro già anticipato nel previgente regime per alcune funzioni giudiziarie (G.I.P., G.U.P. e Procuratore nazionale Antimafia), e giustificata la norma transitoria all’uopo dettata, così come ricostruita, sia dal CSM nelle proprie delibere sia dal Giudice di primo grado;sarebbero, inoltre,manifestamente infondate le questioni di costituzionalità sollevate dai ricorrenti, potendosi condividere le argomentazioni espresse sul punto dal primo Giudice.
5. - Con memoria depositata il 13 ottobre 2011 gli appellanti hanno, innanzi tutto, controdedotto all’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa erariale affermando che la delibera del CSM del 4 ottobre 2007, che i ricorrenti non avrebbero tempestivamente impugnata, non avrebbe “…ad oggetto la regolamentazione della materia in argomento e non riguarderebbe i ricorrenti, ma si sarebbe limitata a rispondere ai quesiti proposti da diversi magistrati…”;di qui, la correttezza della contestazione mossa alla delibera del 15 novembre 2007 che, invece, ha inciso direttamente le posizioni giuridiche dei ricorrenti.
Nel merito, hanno ulteriormente illustrato le tesi difensive svolte con l’appello, in particolare i dedotti profili di incostituzionalità delle norme in questione, se interpretate nella maniera prescelta dal CSM e dal TAR.
6. - All’udienza pubblica del 4 novembre 2011 l’appello è stato rimesso in decisione.
DIRITTO
1. - L’Amministrazione appellata ha eccepito l’inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza di interesse dei dott. P e G alla contestazione della delibera del Consiglio Superiore della Magistratura (di seguito, per brevità: CSM) impugnata in quanto le questioni interpretative ed applicative da questi contestate in materia di incarichi direttivi e semidirettivi sarebbero state già determinate da altra e precedente delibera del CSM del 6 ottobre 2007 rimasta in oppugnata.
Ritiene il Collegio di poter prescindere, per mera economia decisionale, dall’esame di detta eccezione pregiudiziale essendo infondato l’appello in esame.
2. - Ciò chiarito, può darsi ingresso al merito della controversia.
2.1 - Prima di procedere allo scrutinio dei motivi di appello proposti dai citati magistrati ritiene opportuno il Collegio procedere all’esame del quadro normativo all’interno del quale s’inscrivono gli atti contestati con il ricorso di prime cure.
Nell’ambito delle recenti riforme in materia di ordinamento giudiziario, il legislatore ha introdotto il cd. principio della temporaneità degli incarichi direttivi, disponendo, in particolare, con l’art. 45 del d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160, come sostituito dall’art. 2, comma nove, della legge 30 luglio 2007, n. 111 (di seguito, per brevità: decreto 160) che le funzioni direttive di cui all’art. 10, commi da dieci a sedici, hanno natura temporanea e sono conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato può essere confermato, per una sola volta e per altri quattro anni, da parte del CSM, a seguito di valutazione dell’attività svolta e purché tale valutazione non sia negativa (comma uno).
La stessa norma prevede, poi, che alla scadenza del termine suindicato il magistrato già esercitante funzioni direttive, in assenza di domanda per il conferimento di altra funzione, ovvero in ipotesi di reiezione della stessa, è assegnato alle funzioni non direttive nel medesimo ufficio, anche in soprannumero, da riassorbire con la prima vacanza (comma secondo), e che all’atto della presa di possesso da parte del nuovo titolare della funzione direttiva, il magistrato che abbia in precedenza esercitato la medesima funzione, se ancora in servizio presso il medesimo ufficio, resta comunque provvisoriamente assegnato alla stesso, nelle more delle determinazioni del CSM, con funzioni né direttive né semidirettive (comma terzo).
Analoghi principi sono stabiliti anche per gli incarichi semidirettivi dal successivo decreto 160.
Quanto all’attuazione delle predette disposizioni ed al regime transitorio, provvede l’art. 5, comma tre, della stessa legge n. 111 del 2007, a mente del quale “…Le disposizioni in materia di temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi di cui agli articoli 45 e 46 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, come modificati dall’articolo 2 della presente legge, si applicano a decorrere dal centottantesimo giorno, successivo alla data di entrata in vigore della presente legge e pertanto, fino al decorso del predetto termine, i magistrati che ricoprono i predetti incarichi mantengono le loro funzioni. Decorso tale periodo, coloro che hanno superato il termine massimo per il conferimento delle funzioni senza che abbiano ottenuto l’assegnazione ad altro incarico o ad altre funzioni decadono dall’incarico restando assegnati con funzioni non direttive né semidirettive nello stesso ufficio, eventualmente anche in soprannumero da riassorbire con le successive vacanze, senza variazione dell’organico complessivo della magistratura e senza oneri per lo Stato. Nei restanti casi le nuove regole in materia di limitazione della durata degli incarichi direttivi e semidirettivi si applicano alla scadenza del primo periodo successivo alla data di entrata in vigore della presente legge” .
Il CSM, ritenuto che dal complesso delle disposizioni testé richiamate discendesse, allo spirare del termine di 180 giorni dall’entrata in vigore della legge n. 111 del 2007, l’automatica decadenza di quei magistrati che a tale data avessero superato il termine massimo consentito di permanenza negli incarichi direttivi, previa ricognizione degli incarichi interessati da siffatta decadenza, ha proceduto, con una prima determinazione del 4 ottobre 2007 e poi con la delibera impugnata del 15 novembre 2007 alla definizione, per quel che qui rileva, delle modalità di interpretazione e di applicazione delle norme dettate dal decreto 160 e dalla legge n. 111 del 2007 in materia di incarichi direttivi e semidirettivi.
Gli appellanti, ricoprendo dal 1° giugno 2000 gli incarichi semidirettivi di Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Catania, risultano coinvolti dalla vicenda decadenziale più sopra sinteticamente ricostruita.
2.2 - Come anticipato nella parte in fatto della presente sentenza, nell’appello in esame i dott. G e P ripropongono, innanzi tutto, con i primi due motivi di appello, le questioni di legittimità costituzionale sollevate avverso la disciplina attuativa del principio di temporaneità degli incarichi direttivi, ex art. 5, comma tre, della legge n. 111 del 2007, assumendo che il primo giudice avrebbe errato a considerarla manifestamente infondata e, comunque, perché avrebbe sostanzialmente eluso un esame attento, analitico e consapevole delle tesi svolte.
Il Collegio, così come già ha fatto la Sezione in precedenti casi nei quali sono state decise questioni del tutto identiche ( cfr. sentenze n. 1762, n. 1763 en. 1764 del 2009 ), ritiene di dover disattendere i rilievi di parte appellante, meritando condivisione le conclusioni sostanzialmente raggiunte dal Giudice di prime cure.
2.3 - Ed invero, premessa l’evidente rilevanza delle questioni di costituzionalità sollevate dagli appellanti (avuto presente, alla stregua delle già citate condizioni soggettive degli appellati medesimi, come la decadenza dall’incarico che li interessa discenda direttamente dall’applicazione del citato art. 5, comma tre, della legge n. 111 del 2007), le stesse appaiono però manifestamente infondate sotto tutti i profili denunziati.
Al riguardo, prima ancora di approfondire i singoli profili di illegittimità costituzionale formulati dagli appellanti, non può esimersi il Collegio dal rilevare come la stessa “ filosofia ” sulla cui scorta è da questi ricostruita la vicenda decadenziale che li riguarda, ad onta dell’insistito richiamo ai principi costituzionali in subiecta materia , appaia non sempre pienamente compatibile con una corretta lettura di questi ultimi.
In linea di principio occorre, innanzi tutto, chiarire che, in ogni caso, non può collegarsi al nuovo sistema introdotto con il decreto 160 una sorta di “ declassamento ” o di “ retrocessione ” che gli incaricati di funzioni direttive e semidirettive subirebbero all’atto dell’enetrata in vigore del nuovo regime degli incarichi giudiziari, né una lesione al loro prestigio, ovvero all’immagine professionale, poiché un tale eventuale opinamento tradirebbe una visione delle funzioni direttive come momento terminale di una sorta di “ cursus honorum” , il cui connotato essenziale consisterebbe nel ricoprire un ruolo in qualche modo “ superiore ” a quello di altri magistrati, in una visione della funzione magistratuale che è lecito chiedersi fino a che punto sarebbe coerente con l’assetto costituzionale dell’ordine giudiziario, che notoriamente esclude l’esistenza di “carriere” e “gerarchie” , in virtù del principio secondo cui i magistrati si distinguono fra di loro soltanto per diversità di funzioni (art. 107, comma tre, Cost.).
Ad avviso del Collegio, l’attuazione del principio di temporaneità degli incarichi direttivi trova la propria legittimazione costituzionale proprio nel principio dell’art. 107 testè richiamato, manifestando l’intento del Legislatore di considerare tendenzialmente come un munus , un l’incarico giudiziario, piuttosto che come un privilegio, ancorché conseguito all’esito di una carriera positivamente valutata.
2.4 - Ciò premesso in linea generale, passando all’esame delle specifiche questioni di legittimità costituzionale sollevate dagli appellanti, viene in rilievo innanzi tutto quella proposta con il primo motivo di appello.
Sostengono essi, in particolare, che la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi, imposta con le norme degli articoli 45 e 46 del decreto 160, violerebbe i parametri di cui agli articoli 107, 105, 97 e 3 della Costituzione ed altresì, a contestazione delle conclusioni rassegnate in proposito dal primo Giudice, che la sentenza impugnata non avrebbe dato “…esauriente risposta alle argomentazioni svolte nel ricorso di primo grado…” , in special modo alla considerazione che una conferma dei dubbi di costituzionalità indicati derivasse dall’approvazione da parte della Commissione Bicamerale per le Riforme -nell’ambito del D.D.L. costituzionale C 3029, presentato nel corso della XIII^ Legislatura- del nuovo testo dell’art. 107 della Costituzione (nella seguente formula: “…La legge disciplina i periodi di permanenza nell’ufficio e nella sede dei giudici ordinari e amministrativi e dei magistrati del pubblico ministero.” ) dal quale emergerebbe la precisa volontà di affermare che “…la previsione di una temporaneità delle funzioni giudiziarie non poteva che passare attraverso una modifica della normativa costituzionale…” e, quindi, che “…un magistrato titolare di una funzione assegnatagli senza limiti di tempo, possa essere dichiarato decaduto da tale funzione dalla legge ordinaria…” .
Al riguardo, il Collegio osserva che il riferimento operato dagli appellanti ad atti di iniziativa legislativa che non sono stati mai definitivamente approvati dal Parlamento non possa in alcun modo essere, non solo vincolante, ma neppure orientativo della decisione da assumersi nel caso in esame, esprimendo essi atti null’altro che una prima formulazione del possibile, e non probabile, esito della modifica costituzionale proposta, ma mai arrivata a definitivo compimento.
Peraltro, il principio che gli appellati enfatizzano a sostegno delle proprie tesi, a ben vedere, quand’anche fosse stata definitivamente approvata la nuova norma dell’art. 107 della Costituzione, nel testo sopra riportato, lo stesso non avrebbe impedito l’ingresso nell’ordinamento giudiziario del regime della temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi di cui si discute, atteso che la rimessione al Legislatore ordinario ( “…La legge disciplina…” ) della competenza ad individuare le forme di regolazione dei “…periodi di permanenza nell’ufficio e nella sede…” dei magistrati, comprende, razionalmente, in sé anche la possibilità di introdurre un tale regime.
Né sotto qualsivoglia altro profilo può fondatamente predicarsi un contrasto delle norme denunziate con i parametri costituzionali formalmente indicate nell’epigrafe del motivo in esame alla stregua delle seguenti ulteriori considerazioni.
La Corte Costituzionale da tempo ormai remoto afferma ( cfr. n. 156 del 1963 ) che la garanzia di inamovibilità dei magistrati ex art. 107 Cost., essendo posta a tutela dell’indipendenza e autonomia dei magistrati considerati uti singuli , non esclude la possibilità che possano essere adottati, per esigenze di servizio, provvedimenti da cui consegua lo spostamento di magistrati, anche senza il loro consenso, purché si tratti di provvedimenti destinati a operare in maniera indifferenziata e indiscriminata, senza alcuna considerazione delle condizioni soggettive e individuali dei singoli magistrati interessati, o di alcuni di essi.
In altri termini, la generalità e l’astrattezza della disposizione di legge dalla quale deriva il trasferimento o lo spostamento di una pluralità indifferenziata di magistrati riveste, invero, una rilevanza decisiva per escluderne un’incostituzionalità per contrasto con il primo comma dell’art. 107 della Costituzione.
Tale disposizione, infatti, come risulta anche dai lavori dell’Assemblea Costituente, va letta calandola nel contesto delle più generali garanzie di autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario poste dall’art. 104 Cost., ed appare chiaramente tesa a impedire che sullo status di singoli magistrati possano interferire, con propri atti, poteri dello Stato diversi da quello giudiziario.
Ne consegue che, se certamente illegittima sarebbe una norma che consentisse al potere esecutivo di adottare provvedimenti con i quali si disponga lo spostamento di sede di magistrati – come pure, a fortiori, una norma che disponesse il trasferimento coattivo di uno o più magistrati singolarmente individuati -, non altrettanto può dirsi di una norma destinata a operare in modo generalizzato, nella quale non è dato cogliere un’oggettiva interferenza sulle prerogative dell’ordine giudiziario (diversa questione si avrebbe, forse, laddove si lamentasse che la norma de qua, ancorché formalmente generale e astratta, sia stata emanata per favorire o danneggiare uno o più soggetti specificamente individuati – cd. legge ad personam – ma nulla del genere si assume nel caso che occupa).
A ben vedere, la giurisprudenza costituzionale in materia, essendo sempre riferita alla tutela di posizioni individuali, conferma che la garanzia dell’inamovibilità è posta dalla Costituzione a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dei singoli magistrati e non esclude la legittimità di interventi normativi comportanti modifiche e spostamenti nell’organico dell’ordine giudiziario complessivamente inteso.
In sintesi, interventi legislativi come quello introduttivo del regime in questione si giustificano nell’ottica del perseguimento di altri valori costituzionali di pari e prevalente rilevanza rispetto a quello tutelato dall’art. 107 Cost. per cui le considerazioni sin qui svolte appaiano già dam sole idonee ad escludere ogni sospetto di incostituzionalità della norma contestata, senza necessità di operare “ bilanciamenti ” con altri principi e valori di rango costituzionale.
Tuttavia, non è forse fuori luogo osservare che l’opzione normativa per la temporaneità degli incarichi direttivi, in generale, appare in linea anche con una più piena realizzazione dei valori di autonomia e indipendenza della magistratura, quali sono “ scolpiti ” nell’art. 104 Cost.
Tali valori, secondo l’ormai consolidata elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, vanno perseguiti garantendo non solo l’autonomia della magistratura dagli altri poteri dello Stato (cd. indipendenza “esterna” ), ma anche l’indipendenza dei singoli magistrati all’interno degli uffici ove operano, nei rapporti con gli altri magistrati e, soprattutto, con quelli che siano titolari di uffici direttivi (cd. indipendenza “interna” ).
Sotto tale profilo, il rilievo valorizzato dal CSM, secondo cui la principale ratio della temporaneità degli incarichi direttivi consisterebbe nell’esigenza di evitare incrostazioni di potere e personalismi, lungi dal costituire un argomento di carattere metagiuridico o politico, appare coerente con quella prospettiva di effettiva realizzazione dei valori di autonomia e indipendenza cui, come più sopra si è accennato, la configurazione delle funzioni direttive come “incarichi” risulta funzionale.
Né può ritenersi inciso il parametro dell’art. 105 della Costituzione, laddove questo attribuisce all’esclusiva competenza del CSM “…le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati… ”, tenuto conto che detta violazione sarebbe evidente nella previsione di una decadenza ex lege , qui non sussistente, rispetto alla quale all’organo di autogoverno della magistratura residuerebbe una mera attività ricognitiva.
Ancora una volta, il principio costituzionale invocato va letto sistematicamente, in rapporto alle più generali garanzie di indipendenza che il costituente ha riconosciuto all’ordine giudiziario;sotto tale profilo, esso appare palesemente teso a evitare che il Legislatore ordinario possa ledere le prerogative dell’autogoverno, attribuendo a organi o poteri diversi dal CSM la disciplina delle “carriere” dei magistrati (ivi compresi i loro trasferimenti), ma non esclude affatto la possibilità che, magari sulla base di esigenze organizzative e demografiche sopravvenute, che inducano a una diversa organizzazione degli uffici giudiziari, possano essere emanati atti legislativi comportanti, nei termini già descritti, anche lo spostamento di magistrati e finanche la soppressione dei posti da essi ricoperti.
Una interpretazione “estrema” porterebbe, infatti, ad escludere che il Legislatore ordinario possa accorpare o sopprimere uffici giudiziari, come avvenuto in passato con le Preture mandamentali e con le Procure circondariali (cosa che nessuno ha mai pensato di sostenere), ovvero prevedere che determinate funzioni giurisdizionali abbiano un termine massimo di durata, come accade per il Procuratore Distrettuale Antimafia o per i giudici assegnati all’ufficio del Giudice per le indagini preliminari (ciò che, del pari, non risulta sia stato mai affermato).
Parimenti è, poi, da escludere che una qualche fondatezza possa essere riconosciuta all’eccezione di violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione.
Infatti, all’eventuale rilievo che il forzato allontanamento del vertice di un ufficio, dopo anni di esercizio delle funzioni dirigenziali magari meritevole e fruttuoso, comporterebbe il venir meno ex abrupto di un prezioso patrimonio di esperienza e professionalità, andando quindi a detrimento dell’organizzazione e del funzionamento dell’ufficio medesimo, è agevole rispondere che una tale interpretazione muove da una lettura erronea e fuorviante del principio di cui all’art. 97 Cost., alla cui retta e realizzazione è estranea ogni interpretazione che leghi imprescindibilmente il perseguimento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa a singole persone, per quanto capaci e meritevoli.
In altri termini, non può ritenersi conforme al principio di buon andamento un’organizzazione amministrativa nella quale l’efficienza dipenda esclusivamente dalle capacità e dalla professionalità del singolo, di tal che l’eventuale venir meno di quest’ultimo determini ineluttabilmente l’insorgere di inconvenienti e rallentamenti nell’azione dell’amministrazione;ciò comporta, per rimanere al caso che occupa, che l’esperienza e la professionalità maturate non dovranno soltanto essere impiegate dal dirigente per assicurare il miglior funzionamento dell’ufficio, ma dovranno anche essere “comunicate” e trasmesse al personale dello stesso, facendo sì che divengano patrimonio comune in grado di garantire che l’efficacia e l’efficienza realizzate permangano anche oltre il (prima o poi, inevitabile) venir meno del dirigente.
Tale approccio “culturale” , ancora una volta, è coerente con quella visione dell’incarico direttivo come munus cui si è più volte accennato e trova riscontro in un più generale modello notoriamente perseguito, in materia di organizzazione degli uffici giudiziari, sia dal legislatore che dal CSM con una ricca normazione, primaria e secondaria, che prevede di regola criteri di rotazione e temporaneità tra i magistrati fra le varie articolazioni e sezioni degli uffici medesimi, malgrado la crescente “ specializzazione ” delle stesse, in modo da garantire la circolazione delle conoscenze e delle professionalità.
Infine, osserva il Collegio che, in relazione alle norme denunziate di incostituzionalità, neppure sembra fondatamente contestabile un contrasto con i parametri di cui all’art. 3 della Costituzione per le seguenti ragioni.
Non v’è, infatti, alcuna sorta di irragionevolezza “ intrinseca ”, per incongruità rispetto al fine perseguito, della scelta di rendere la nuova disciplina retroattiva e, quindi, applicabile anche ai magistrati che alla data di entrata in vigore della stessa avessero già esaurito il termine massimo oggi previsto per la permanenza nelle funzioni direttive.
Né l’eventuale retroattività della nuova normativa configura ex se vizio di costituzionalità, essendo, come noto, il principio di irretroattività della legge, di cui all’art. 11 delle preleggi al codice civile, derogabile dal Legislatore ordinario, fatta salva la materia penale, che non interessa in questa sede, per la quale esiste una “copertura” costituzionale ex art. 25 Cost.
Al contrario, una vistosa disparità di trattamento si sarebbe creata laddove il Legislatore ordinario non avesse introdotto la normativa attuativa di cui all’art. 5, comma 3, della legge n. 111 del 2007 atteso che, mentre il nuovo regime di temporaneità sarebbe stato applicabile ai magistrati entranti nelle funzioni direttive dopo l’entrata in vigore della citata legge n. 111 del 2007, vi sarebbe stata una categoria di magistrati i quali, per il solo fatto di aver acquisito tali funzioni in un momento anteriore, avrebbero potuto continuare a ricoprirle sine die .
2.5 - Quanto alla seconda delle eccezioni di costituzionalità sollevate (cfr. secondo motivo di appello) per ritenerne la manifesta infondatezza è sufficiente rinviare alle motivazioni già rese nei capi di decisione che precedono nei quali sono stati espressamente affrontati e giudicati anche i profili di contestazione costituzionale dell’art. 5, comma 3, della legge n. 111 del 2007.
2.6 - Con il terzo motivo d’impugnazione gli appellanti sostengono che sia il CSM, sia il Giudice di primo grado, avrebbero omesso di svolgere specifiche argomentazioni in ordine alla disposizione del terzo comma dell’art. 5 della legge n. 111 del 2007.
In particolare, affermano:
-che l’organo di autogoverno avrebbe fornito una propria interpretazione soltanto sulla prima parte di detto terzo comma, nulla invece argomentando sull’ultima parte dello stesso per la quale si sarebbe limitato soltanto ad affermare, apoditticamente, che la soluzione adottata dal legislatore “…non lascia spazio ad alcun periodo di comporto…” ;
- che il TAR, per suo conto, sarebbe incorso in un inspiegabile errore avendo preso in considerazione e ritenuta infondata “…una tesi mai sostenuta dagli odierni appellanti… ”.
Detto motivo non può essere condiviso.
Osserva al riguardo il Collegio che, in disparte l’erroneità o meno della pronunzia del primo Giudice, detto motivo comunque non supera un attento vaglio della sua consistenza tenuto conto di quanto dispone l’altra e precedente (rispetto a quella impugnata) delibera del CSM del 6 ottobre 2007.
Infatti, in tale delibera, non impugnata dagli attuali appellanti, è stata data completa e corretta interpretazione delle norme qui rilevanti, in particolare, per quel che qui interessa, dell’art. 5, comma 3, della legge n. 111 del 2007, laddove è stato precisato, per un verso, che “…coloro che ricoprono incarichi direttivi e semidirettivi senza avere superato i termini di durata continuano ad esercitare le loro funzioni fino alla scadenza del termine previsto (quattro od otto anni dalla data di conferimento dell’incarico)…”; per altro verso, che “ Il sistema descritto è avvalorato dal fatto che il riferimento della norma a “coloro che hanno superato il termine massimo” evoca il criterio della “scadenza” insito nell’articolazione della disciplina della temporaneità…” .
Consegue, alla stregua di tali puntuali determinazioni, che alcuna seria critica può essere mossa alla delibera impugnata dovendo essa essere riguardata ed interpretata sinergicamente con tutte le altre determinazioni emesse sempre in subiecta materia dallo stesso Organo di autogoverno, per prima proprio la citata delibera del 6 ottobre 2007, ai fini della verifica della regolare attuazione del nuovo regime degli incarichi giudiziari direttivi e semidirettivi.
Consegue, altresì, che alcun rilievo assume nell’economia complessiva della valutazione giurisdizionale del caso in esame neppure l’errore di giudizio asseritamente imputato al TAR dagli appellanti, essendo comunque sufficiente la pronunzia testè resa circa l’infondatezza del motivo in esame a superare ogni rilievo in proposito, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello.
In sintesi, può essere ribadito che il motivo esaminato è infondato perché, come ben ha evidenziato la difesa erariale nella propria memoria, le disposizioni contenute nel citato art. 5 esprimono la volontà del legislatore di fissare, con efficacia immediata, un limite temporale massimo di durata degli incarichi direttivi e semidirettivi al fine di dare un’eguale applicazione a tutte le possibile ipotesi, con l’unica diversificazione determinata dai distinti momenti in cui tale limite opera, calibrati, ovviamente, sulla data di conferimento degli incarichi medesimi.
2.7 - Né, infine, sorte diversa può essere riservata al quarto ed ultimo motivo di impugnazione trovando giustificazione la declaratoria di sua infondatezza in tutte quante le considerazioni sin qui svolte nei capi di decisione che precedono.
3. - In conclusione, nessuna delle critiche mosse alla sentenza impugnata merita di essere condivisa per cui non può il Collegio non ritenere completamente infondato l’appello in epigrafe che, come tale, deve essere rigettato.
4. - Quanto alle spese del presente grado di giudizio ritiene il Collegio che sussistono certamente giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese anzidette, attesa la parziale novità delle questioni trattate.