Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2023-11-03, n. 202309549

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2023-11-03, n. 202309549
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202309549
Data del deposito : 3 novembre 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 03/11/2023

N. 09549/2023REG.PROV.COLL.

N. 09544/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9544 del 2021, proposto da -OMISSIS-rappresentato e difeso dall'avvocato N P, con domicilio eletto presso il suo studio in Bari, Piazzale Aldo Moro, 38;

contro

Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sede di Bari, sezione prima, n. -OMISSIS- resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 ottobre 2023 il Cons. Stefano Filippini;

Udito l’avv. Angela Contento in delega per l'avv. N P;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe indicata il TAR pugliese, dopo aver inizialmente accolto l’istanza cautelare del-OMISSIS- ha rigettato il ricorso principale e quello per motivi aggiunti proposti dall’odierno appellante, già assistente capo del Corpo della Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale -OMISSIS- avverso i provvedimenti con cui l’Amministrazione penitenziaria aveva disposto nei suoi confronti la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio, a decorrere dal 16 giugno 2015, in considerazione delle condotte penalmente accertate in via definitiva con sentenza n. -OMISSIS-della Corte di Appello di Bari.

2. Con ricorso in appello tempestivamente proposto dinanzi a questo Consiglio, il -OMISSIS- ha articolato i motivi che possono riassumersi nei termini seguenti:

2.1. Error in iudicando: violazione e falsa applicazione dell’art. 5 e art. 11 D. Lgs. n. 449/1992, art. 3 Legge n. 241/1990;
art. 323 c.p. (come modificato dal Decreto Legge n. 76/2020, convertito dalla L. n. 120/2020);
Corte di Giustizia Europea (Causa C 101/96 del 16.12.1999);
Circolare n. 3635/6085, recante “Criteri guida dell’azione disciplinare”;
eccesso di potere “giurisdizionale”. In sostanza si lamenta la carenza di un rapporto di adeguatezza e proporzionalità dell’atto di destituzione con i fatti addebitati;
le condotte penalmente accertate rientrano nell’ambito delle più lievi previsioni di cui all’art. 5 del D. Lgs. n. 449/1992, punibili con la sanzione conservativa della sospensione;
l’Amministrazione Penitenziaria non ha rispettato la tipizzazione normativa delle diverse figure di infrazione;
il TAR ha esteso il suo sindacato di legittimità, entrando nel merito dei provvedimenti adottati, direttamente valutando la sanzione come proporzionata alle condotte censurate. Non può ravvisarsi l’integrazione delle fattispecie di destituzione rappresentate dalla “mancanza del senso dell’onore e del senso morale” (art. 6, comma 2, lettera a.) o dal “grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento” (art. 6, comma 2, lettera b.), ipotesi che non possono invocarsi laddove, come nella specie, vi sia una norma sanzionatoria che tipizzi l’illecito prevedendo una sanzione minore. Erra altresì il primo Giudice allorchè ritiene integrato il reato di abuso d’ufficio (che rileva come ipotesi legittimante il provvedimento di destituzione ai sensi dell’art. 6, comma 3, lett. a) del D. Lgs. n. 449/1992;
invero, la recente riformulazione dell’articolo 323 c.p., a seguito della novella introdotta dal D.L. n. 76/2020, convertito con L. n. 120/2020, ha modificato il reato di abuso di ufficio, sostituendo le parole “ di norme di legge o di regolamento ” con quelle di “ specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e da atti aventi forza di legge e dalle quali non residui margini di discrezionalità ”;
di conseguenza, nella fattispecie, posto che le condotte ravvisate costituiscono violazione di fonti normative di tipo regolamentare o sub primario, le stesse non integrano più il requisito richiesto per la configurabilità del reato ascritto, con conseguente abolitio criminis . Sussiste inoltre la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11, D. Lgs. n. 449/1992, trattandosi di sanzione sproporzionata rispetto alle condotte accertate, così violandosi anche i precetti della richiamata giurisprudenza CGUE.

Il TAR non ha esaminato il motivo dedotto nel ricorso per motivi aggiunti a proposito della violazione dei criteri di cui alla Circolare n. 3635/6085, che impongono il rispetto del principio di proporzionalità, di specifica valutazione dei fatti accaduti, del principio di ragionevolezza, di adeguatezza della motivazione.

2.2. Error in iudicando : omessa valutazione del motivo del ricorso di primo grado con il quale veniva denunciato vizio di eccesso di potere dei provvedimenti impugnati per omessa valutazione delle risultanze dell’attività istruttoria compiuta in sede disciplinare. Ai sensi degli artt. 445, comma 1 bis e 653 comma 1 bis c.p.p., l'Amministrazione è vincolata all'accertamento del fatto, alla sua qualificazione come illecito penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, contenuti nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti;
nondimeno, l'organo competente deve compiere, sulle univoche risultanze fattuali emerse in sede penale, un autonomo apprezzamento circa la gravità della condotta tenuta dall'inquisito e la sua rilevanza ai fini disciplinari;
nella specie, l’istruttoria svolta dal Funzionario istruttore ha dimostrato che non sussistono le condotte inerenti all’avere influito sull’assegnazione dei detenuti ad una sezione invece che ad un’altra, con ciò favorendo questi ultimi;
inoltre, non sussistevano vincoli e divieti ai colloqui tra i familiari e i detenuti o tra i difensori e i detenuti;
il D.P.R. n. 230/2000 non vieta ai detenuti la possibilità di cuocere generi alimentari.

2.3. Error in iudicando : omessa valutazione del motivo espresso con il ricorso per motivi aggiunti con il quale veniva denunciato vizio di illegittimità per violazione del principio de “ ne bis in idem ” in riferimento sia alla contestazione disciplinare sia al decreto di conferma della sanzione notificato il 5.05.2020, rispetto alla sanzione penale;
per giunta, nel decreto di conferma della sanzione espulsiva non è stata espressamente espunta dai richiamati “fatti di cui al giudizio penale” la fattispecie dell’introduzione di hashish;
le sanzioni comminate al ricorrente, benché formalmente qualificate di natura amministrativa dall’ordinamento italiano, devono essere ricondotte alla “materia penale” agli effetti di cui all’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU.

2.4. L’appellante ha anche chiesto la sospensione cautelare della sentenza impugnata, domanda rigettata da questo Consiglio con ordinanza del 30.11.2021 per la ritenuta carenza del fumus boni iuris .

3. Si è costituita l’Amministrazione per resistere all’appello.

4. L’appellante ha depositato memoria ex art. 73 c.p.a.con la quale ha insistito sui motivi proposti.

5. Sulle difese e conclusioni in atti, la controversia è stata trattenuta in decisione all’esito dell’udienza del 24.102023.

DIRITTO

6. L’appello è infondato.

7. Giova ricordare, in punto di fatto che, con sentenza n. -OMISSIS- del Tribunale di Foggia (a cui ha fatto seguito la sentenza di patteggiamento in appello n. -OMISSIS-della Corte di Appello di Bari, divenuta definitiva, che si è limitata a ridurre la pena -un anno di reclusione-per effetto del patteggiamento, confermando, quindi, i fatti addebitati e la loro qualificazione giuridica secondo le valutazioni contenute nella sentenza di condanna in primo grado), l’odierno appellante, già assistente capo del Corpo della Polizia Penitenziaria presso la Casa Circondariale -OMISSIS- è stato giudicato colpevole -anche in concorso con altro dipendente (-OMISSIS-)- del reato di abuso d’ufficio (capo A della relativa imputazione) per essersi, in più occasioni ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, abusando del proprio ufficio, reso disponibile ad eseguire servizi vari, costituenti vantaggio patrimoniale, in favore di alcuni detenuti. In particolare, secondo le testuali affermazione del giudice penale, sulla base del complesso probatorio scrutinato in quella sede, è emerso, all’esito di protratta (circa tre mesi) attività di captazione dei colloqui del-OMISSIS- che lo stesso, insieme al collega -OMISSIS- hanno recapitato ai detenuti da loro favoriti corrispondenza epistolare e sigarette, che si sono resi complici nel far pervenire abusivamente ai detenuti della carne cruda, che hanno funto da latori di ambasciate provenienti da congiunti e difensori, che hanno procurato loro sistemazioni in celle più gradite. Tali condotte sono state giudicate “ingiuste” ai sensi dell'art. 323 c.p., non solo perché in contrasto con il divieto - incombente su tutti i pubblici funzionari ex art. 97 Cost. - di usare il potere conferito dalla legge per compiere deliberati favoritismi o per procurare ingiusti vantaggi, ma anche perché contrastanti con specifiche norme dell'ordinamento penitenziario (p.e., gli artt. 13-14, 37 e 38 del DPR n. 230/2000 che regolamentano, rispettivamente, la ricezione ed il consumo dei generi alimentari, i colloqui e gli scambi epistolari) e del DPR n. 82/99 (regolamento di servizio del Personale di Polizia penitenziaria, p.e., artt. 10, 15, 24, 44 e 50).

Si è anche affermato che le descritte condotte antidoverose hanno realizzato intenzionalmente un ingiusto vantaggio a beneficio dei detenuti destinatari dei favoritismi: essi non avrebbero potuto intrattenere corrispondenza epistolare, ricevere plichi, ottenere sigarette, cioccolato o altro cibo in virtù dell'informale mediazione dei due agenti, cioè in spregio alla rigorosa disciplina dettata dall'ordinamento giudiziario e del relativo regolamento. L'evento di vantaggio che ne conseguiva era, dunque, oggettivamente ingiusto (non spettante secondo il diritto oggettivo) e d'indubbio contenuto patrimoniale in quanto concretizzantesi nell'acquisizione di beni materiali e di un'utile accrescimento qualitativo del proprio status di detenuto.

E, circa l’intenzionalità delle condotte, il giudice penale ha espressamente affermato che la prova che la volontà degli imputati fosse orientata proprio a procurare ai detenuti i vantaggi patrimoniali dei quali s'è detto poteva essere desunta agevolmente da una serie di convergenti elementi indiziari: a) la totale assenza di una qualsivoglia finalità pubblica nelle azioni antidoverose stigmatizzate;
b) la reiterazione quasi quotidiana delle medesime e la macroscopica illegittimità dei favoritismi, invero collidenti con le molteplici norme di legge e di regolamento che disciplinano il regime penitenziario;
c) la specifica qualifica professionale e le mansioni dei due imputati e la loro notevole anzianità di servizio;
d) la piena consapevolezza della illegittimità dei proprio operato;
e) i rapporti di familiarità, se non di amicizia, tra gli imputati e i detenuti da loro protetti (definiti nelle conversazioni captate come "i nostri") dimostrati dal tenore dei colloqui con i committenti esterni sempre invero improntati a estrema dimestichezza.

In definitiva, il giudice penale ha ritenuto dimostrati, al di là di ogni ragionevole dubbio, gli abusi continuati contestati in concorso al capo A) dell’imputazione, fatta eccezione per l'introduzione dell'hashish in carcere, espressamente esclusa dal momento che l’addebito al riguardo contenuto nel capo d’imputazione non ha trovato adeguato riscontro probatorio.

8. Ciò posto, devesi ora ricordare che l’art. 653, comma 1-bis, c.p.p., espressamente dispone che “ La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso .”

8.1. Inoltre, per effetto dell’art. 445, comma 1, c.p.p., la sentenza di applicazione pena su richiesta (patteggiamento) “ …..è equiparata a una pronuncia di condanna .”

8.2. Alla luce di tali previsioni, dunque, per effetto dell’accertamento contenuto nel giudicato penale di condanna di cui si è detto, nella specie non vi è spazio per discutere, in ambito disciplinare, della sussistenza degli specifici fatti accertati e della loro attribuibilità all’appellante.

9. All’esito della valutazione, anche reiterata, da parte dell’Amministrazione, dei profili di rilevanza disciplinare delle condotte in questione (il Tar, infatti, con ordinanza cautelare resa all’esito della camera di consiglio del 4 settembre 2019, prima ha accolto ai fini del riesame l’impugnativa della deliberazione del 16.04/2.05.2019, emessa dal Ministero della Giustizia, Consiglio Centrale di Disciplina del Corpo di Polizia Penitenziaria e del conseguente decreto di destituzione n. 0074147-2019/31067/DS08;
successivamente, con ordinanza resa a seguito della camera di consiglio del 2 settembre 2020, ha sospeso il decreto n. 0131310-2020/31067/DS08, emesso dal Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, notificato all'interessato in data 5.5.2020, con il quale era stato confermato il precedente decreto di destituzione dal servizio), è stata affermata la piena integrazione del plurimo addebito disciplinare contestato [e cioè: quello di cui all’art 6 comma 2 lettera a) del D.LGS n.449/92 "per atti che rivelino mancanza del senso dell'onore o del senso morale";
lett. b) "per atti che siano in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento" e lett. d) "per dolosa violazione dei doveri, che abbia arrecato grave pregiudizio allo Stato, all'Amministrazione penitenziaria, ad enti pubblici o privati", nonché quello di cui alla fattispecie ex art.6 comma 3, lett. a) "...per qualsiasi altro delitto non colposo per il quale sia stata irrogata una pena non inferiore ad un anno di reclusione "].

9.1. Infatti, secondo le definitive conclusione dell’Amministrazione, il -OMISSIS- doveva ritenersi responsabile di quei comportamenti intenzionali ed elaborati, accertati dal giudice penale (e sopra descritti) che lo avevano visto, con premeditazione, mirare ad introdurre oggetti all'interno della struttura penitenziaria, ove prestava servizio, oltre che a favorire variamente alcuni detenuti e a dispensare consigli ed informazioni a soggetti appartenenti a consorterie criminali della zona, informazioni ottenute in ragione del proprio incarico;
e, proprio per tali ragioni, attesa l’inaffidabilità del -OMISSIS- che se ne desumeva e l’insanabile rottura del rapporto fiduciario, si è ritenuto che quest’ultimo non potesse essere ulteriormente associato al Corpo della Polizia Penitenziaria, alle cui più fondamentali missioni era venuto meno.

Dunque, l’Amministrazione, nel provvedimento finale di destituzione, si è determinata in maniera legittima e non illogica, nel senso di ravvisare l’integrazione delle contestate ipotesi di destituzione, previa considerazione della possibile adozione di una sanzione conservativa, soluzione, quest’ultima, esclusa atteso che, anche in sede di riesame, si è ritenuto che quei fatti accertati in ambito penale (e, in particolare, l’essersi il -OMISSIS- reso disponibile a rendere servigi a favore di aderenti a consorterie criminali del foggiano, territorio ad altissima densità criminale) risultassero del tutto incompatibili con una nuova associazione al Corpo, anche considerando la pluralità e ripetizione dei fatti, capaci di mettere a rischio l'ordine e la sicurezza dell'istituto penitenziario dove il -OMISSIS- prestava la propria attività istituzionale.

10. Tanto premesso, evidentemente infondato appare il primo motivo di gravame.

10.1. Invero, non illegittima, né arbitraria o immotivata, per quanto detto, appare la scelta, operata dall’Amministrazione, di infliggere la sanzione della destituzione dal servizio piuttosto che la sola sospensione (art. 5 D. Lgs. n. 449/1992);
al proposito, il Consiglio di disciplina (cfr. la relativa deliberazione del 16.4.2019, richiamata dai provvedimenti espulsivi del 16.5.2019 e 27.4.2020), ha espressamente fatto riferimento alle esatte risultanze del giudizio penale, dalle quali emergeva non una occasionale, sporadica o singola violazione di alcune delle disposizioni del regolamento penitenziario prese in considerazione dall’art. 5 del D. Lgs. n. 449/1992, bensì una sistematica, protratta e intenzionale commissione, per un lungo periodo di tempo (almeno i tre mesi durante i quali erano state fatte le captazioni di colloqui), di incessante attività abusiva di sostegno ai detenuti favoriti dal -OMISSIS- e dal collega sodale -OMISSIS- consistenti nel recapitare ai ristretti la corrispondenza epistolare e le sigarette, nel far pervenire abusivamente della carne cruda, nel fungere da latori di ambasciate provenienti da congiunti e difensori, nel procurare sistemazioni in celle più gradite. Inoltre, nel riferire privatamente comunicazioni intervenute tra avvocati e familiari dei detenuti, si è ritenuto, non certo illogicamente, che il -OMISSIS- e il -OMISSIS- avessero contribuito ad agevolare strategie difensive di imputati, al mantenimento dei rapporti con le consorterie criminali di appartenenza dei detenuti stessi, favorendo la sopravvivenza delle consorterie criminali del territorio pugliese, in palese contrasto con i doveri assunti con il giuramento al Corpo, del quale offrivano anche immagine negativa all’esterno

Dunque, come esposto, per nulla immotivata o ingiustificata appare la conclusione (espulsiva) raggiunta dall’Amministrazione, posto che le richiamate condotte illecite non costituivano occasionali violazioni di singoli precetti del regolamento penitenziario, ma, nel loro complesso, minando insanabilmente la fiducia della quale doveva godere il-OMISSIS- erano di ostacolo alla irrogazione di una sanzione conservativa e comportavano necessariamente la definitiva espulsione dal Corpo per inconciliabilità con i relativi scopi e valori istituzionali.

Né risulta esservi stato, almeno nel provvedimento espulsivo conseguente alla riedizione del potere amministrativo, alcun fraintendimento circa l’avvenuta esclusione, tra gli addebiti ravvisati dal giudice penale, di quelli relativi alla consegna di hashish, per i quali il Tribunale di Foggia non ha trovato alcun riscontro all’addebito li ha esclusi dal catalogo degli abusi commessi dal -OMISSIS- e dal correo -OMISSIS-. Invero, dalla motivazione del provvedimento espulsivo conseguente al riesame (quello impugnato dinanzi al TAR con motivi aggiunti) emerge che l’Amministrazione ha limitato le proprie valutazioni ai fatti sulla cui base effettivamente l’odierno appellante era stato condannato per abuso d’ufficio: l’aver introdotto oggetti all’interno della struttura penitenziaria (corrispondenza, carne cruda);
attività volte variamente a favorire alcuni detenuti (riferire comunicazioni intervenute tra avvocati e familiari dei detenuti afferenti le strategie difensive;
influire sull’assegnazione dei detenuti ad una sezione invece che a un’altra, con ciò ugualmente favorendo detenuti e contribuire fuori dal carcere a mantenere rapporti con le consorterie criminali di appartenenza dei detenuti stessi, in particolare dispensando consigli e informazioni ottenute in ragione del proprio incarico volte a favorire il relativo status criminale).

10.2. Neppure possono condividersi gli argomenti dell’appellante secondo cui la sanzione disciplinare risulterebbe viziata perché fondata su una condanna per abuso d’ufficio che dovrebbe invece ritenersi venuta meno per effetto della recente riformulazione dell’articolo 323 c.p. (come disposta dalla novella introdotta con D.L. n. 76/2020, convertito dalla L. n. 120/2020), secondo cui per l’integrazione del reato non è più sufficiente la ricorrenza di una violazione “ di norme di legge o di regolamento ”, occorrendo invece la violazione di “ specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e da atti aventi forza di legge e dalle quali non residui margini di discrezionalità ”.

Secondo l’appellante, posto che le condotte trasgressive ravvisate dal giudice penale costituiscono violazione di fonti normative di tipo regolamentare o sub-primario (come indicate nell’imputazione penale), nella fattispecie non sarebbero più sufficienti a sorreggere l’addebito penale, che dunque dovrebbe ritenersi non più previsto dalla legge come reato per intervenuta abolitio criminis .

L’argomento è infondato sotto plurimi profili.

Invero, allo stato, non avendo l’odierno appellante né dedotto né dimostrato di aver ottenuto, ex art. 673 c.p.p., la revoca della sentenza penale, deve ritenersi che il provvedimento espulsivo di causa si basi tutt’ora su un giudicato penale valido ed efficace. E, solo all’esito dell’eventuale accoglimento dell’istanza ex art 673 c.p.p., in ragione di tale sopravvenienza, ben potrà la parte interessata avanzare istanza, ai sensi dell’art. 21, 22 e 23 del d.lgs. n. 449/1992, per chiedere all’Amministrazione già di appartenenza la riapertura del procedimento disciplinare conclusosi con l’applicazione della sanzione disciplinare della destituzione.

E comunque, impregiudicata la competenza ( rectius , giurisdizione) del giudice penale a pronunciarsi sul punto, non pare ultroneo osservare in questa sede che, come sostenuto dalla difesa erariale, nella specie le condotte trasgressive sanzionate paiono trovare tuttora adeguata previsione e sanzione in una fonte normativa primaria per effetto del contenuto dell’art. 1 del D.lgs. 449/92, secondo cui “ l’appartenente al corpo di polizia penitenziaria che viola i doveri specifici e generici del servizio e della disciplina indicati dalla legge, dai regolamenti o conseguenti alla emanazione di un ordine, commette infrazione disciplinare ed è soggetto alle seguenti sanzioni ” (di seguito declinate nel corpo della norma stessa).

Peraltro, nella specie, sussistono comunque le ulteriori ipotesi di destituzione contestate [quelle ex art. 6 comma 2 lettera a), lett. b) e lett. d)], atteso che le plurime, reiterate e intenzionali condotte accertate ben possono essere considerate come dimostrazione di mancanza di senso dell'onore o del senso morale, come integrative di una grave e sistematica violazione dei doveri assunti con il giuramento, avendo natura dolosa e protratta nel tempo, nonché foriera di grave pregiudizio (sia come esposizione al rischio, sia come danno all’immagine) all'Amministrazione penitenziaria.

10.3. Né pare al Collegio ravvisabile violazione alcuna dell’art. 11, D. Lgs. n. 449/1992 o dei criteri di cui alla Circolare, invocata dall’appellante, n. 3635/6085, in relazione al rispetto del principio di proporzionalità, di specifica valutazione dei fatti accaduti di ragionevolezza e di adeguatezza della motivazione;
invero, la sanzione, oltre ad apparire sufficientemente proporzionata rispetto alle gravi condotte accertate, dalla motivazione della proposta formulata dal Consiglio di disciplina risulta essere frutto della adeguata considerazione di tutte le circostanze attenuanti, dei precedenti disciplinari e di servizio del trasgressore, della qualifica e dell'anzianità di servizio nonché della frequenza e abitualità riscontrate nel periodo di captazione dei colloqui, univocamente deponenti per la ravvista caduta di senso morale e di aderenza alle regole basilari del Corpo di appartenenza.

11. Infondato è anche il secondo motivo di gravame, con il quale si lamenta la mancanza di un autonomo apprezzamento, in sede disciplinare, della effettiva gravità della condotta tenuta dall'appellante;
nella specie, l’istruttoria svolta in sede disciplinare dal Funzionario istruttore avrebbe dimostrato l’insussistenza di alcuni addebiti (quale quelli inerenti all’avere influito sull’assegnazione dei detenuti ad una sezione invece che ad un’altra), la mancanza di vincoli e divieti ai colloqui tra i familiari e i detenuti o tra i difensori e i detenuti, la sussistenza della possibilità, per i detenuti, di cuocere autonomamente generi alimentari.

Al riguardo, pare al Collegio sufficiente ribadire che, ai sensi degli artt. 445, comma 1 bis e 653 comma 1 bis c.p.p., all'Amministrazione non residuava spazio “ quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso ”.

Peraltro, la sentenza penale (cfr. pagg.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi