Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2024-06-20, n. 202405517

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2024-06-20, n. 202405517
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202405517
Data del deposito : 20 giugno 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 20/06/2024

N. 05517/2024REG.PROV.COLL.

N. 07419/2020 REG.RIC.

N. 07699/2020 REG.RIC.

N. 07767/2020 REG.RIC.

N. 08691/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sui seguenti ricorsi riuniti :
1) ricorso numero di registro generale 7419 del 2020, proposto da Eurocorp s.p.a. European Corporation, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avvocato I G B, con domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avv. Irene G. Bellavia, sito in Roma, viale Giuseppe Mazzini, n. 55;

contro

Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avv.ti Cristina Montanaro e U G, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia;



2) ricorso numero di registro generale 7699 del 2020, proposto da Dico s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti A F, Ruggero Frascaroli, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia;

contro

Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa da gli avv.ti Rosalda Rocchi e M M, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia;

e con l'intervento di

ad adiuvandum:
Eurocorp s.p.a. European Corporation, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. I G B, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio della medesima, sito in Roma, via Costabella n. 23;



3) ricorso numero di registro generale 7767 del 2020, proposto da Eurocorp s.p.a. European Corporation, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. I G B, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio della medesima, sito in Roma, viale Giuseppe Mazzini n. 55;

contro

Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;



4) ricorso numero di registro generale 8691 del 2020, proposto da Eurocorp s.p.a. European Corporation, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. I G B, con domicilio fisico eletto presso lo studio della medesima, sito in Roma, viale Giuseppe Mazzini, n. 55;

contro

Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. U G, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia;

per la riforma

1) quanto al ricorso n. 7419 del 2020 :

- della sentenza del T.a.r. per il Lazio (sezione seconda) n. 7456/2020, resa tra le parti;

2) quanto al ricorso n. 7699 del 2020 :

- della sentenza del T.a.r. per il Lazio (sezione seconda) n. 09586/2020, resa tra le parti;

3) quanto al ricorso n. 7767 del 2020 :

della sentenza del T.a.r. per il Lazio (sezione seconda) n. 7459/2020, resa tra le parti;

4) quanto al ricorso n. 8691 del 2020 :

della sentenza del T.a.r. per il Lazio (sezione seconda stralcio) n. 5397/2020, resa tra le parti.


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale;

Viste le memorie delle parti;

Visti gli atti tutti della causa;

Designato relatore il cons. G L G;

Uditi nell’udienza pubblica del 23 aprile 2024 per le parti gli avv.ti I G B, anche in dichiarata delega dell’avv. A F;
U G, anche in dichiarata delega dell’avv. M M;

Rilevato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.1.- Con un primo ricorso (n. 9110 del 2005) Eurocorp s.p.a. European Corporation (di seguito « Eurocorp »), impugnava in primo grado, con richiesta di annullamento, la determinazione dirigenziale del Dipartimento VI di Roma Capitale n. 202 del 6 giugno 2005.

1.2.- Con tale provvedimento l’Amministrazione capitolina annullava la concessione edilizia in sanatoria n. 306606/2003 rilasciata in relazione all’immobile identificato in catasto al foglio n. 460, particella n. 704, sub 3 e contestualmente rigettava l’istanza di condono prot. n. 88194/2003 per il contiguo immobile identificato in catasto al foglio n. 460, particella n. 704, sub 2.

1.3.- Il Comune premetteva di aver rilasciato il titolo in sanatoria, in conseguenza di apposita istanza di condono ex l. n. 47 del 1985 riguardante una costruzione a destinazione commerciale con superficie di mq. 91,51 e che successivamente, a seguito di richiesta riesame della ditta interessata, la concessione edilizia in sanatoria era stata estesa ad ulteriori 450 mq. che la parte privata asseriva non aver indicato nell’istanza di condono per mero errore materiale.

Il Comune di Roma disponeva, quindi, l’annullamento in autotutela della concessione edilizia n. 306606/2003 dovendosi, in tesi, escludere l’errore materiale della parte privata e configurandosi, la richiesta di riesame, come nuova istanza con destinazione commerciale di locali che sarebbero risultati privi di destinazione e funzionalità. Ciò che avrebbe imposto il rigetto della istanza di revisione.

Il Comune escludeva pure l’applicabilità al caso di specie dell’art. 40, comma 1, l. n. 47 del 1985 e dell’art. 39, comma 10, l. n. 724 del 1994 e, ad un tempo, rigettava l’istanza di condono veicolata con l’istanza di riesame.

1.4.- La domanda caducatoria di tali provvedimenti veniva rigettata dal T.a.r. per il Lazio con sentenza n. 7456 del 2020 sulla base di considerazioni dal seguente (sostanziale) tenore:

- non sarebbe stato violato l’art. 21- nonies l. n. 241 del 1990 anche sul versante del c.d. ‘termine ragionevole’ (la concessione annullata era stata rilasciata il 29 ottobre 2003, e la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela, sintomatica della scoperta dei fatti rilevanti per esercitare il potere di secondo grado, era stata emessa il 4 aprile 2005);

- nessuna violazione dell’art. 39, l. n. 724 del 1994, in relazione all’art. 40, l. n. 47 del 1985, sarebbe stata perpetrata (la ricorrente aveva affermato di non aver avuto per lungo tempo il possesso e la disponibilità dell’immobile e di non essere stata, quindi, nelle condizioni di conoscerne l’esatta consistenza e di presentare autonoma domanda di condono, sì che non appena avuta contezza della situazione avrebbe chiesto la rettifica dell’originaria istanza di sanatoria presentata dalla locataria di 24 aprile 1986);
la parte privata non avrebbe offerto prova della ultimazione delle opere entro la data stabilita dalla legge condonistica;

- l’art. 39, comma 10-bis, l. n. 724 del 1994 non sarebbe stato applicabile al caso di specie stante la mancanza di un provvedimento di diniego successivo al 31 marzo 1995, relativo ad un’istanza di sanatoria da presentarsi entro il 30 giugno 1987, qui mai proposta.

2.1.- Con un secondo ricorso (n. 9116 del 2005) Center Garden s.r.l. impugnava, con richiesta di annullamento, la determinazione dirigenziale n, 256 del 6 luglio 2005 con cui il Comune di Roma rigettava la domanda di sanatoria n. 522935/2004 proposta ai sensi della l. n. 326 del 2003.

Tale provvedimento riguardava gli abusi edilizi realizzati in circonvallazione Gianicolense (fg. 460, part. 657) consistenti nella «realizzazione di un fabbricato ad uso commerciale, avente struttura portante in acciaio con tamponature in vetro e lamiere per una superficie utile di mq. 150,50».

2.2.- Le ragioni del diniego erano compendiate nell’affermazione secondo cui « ai sensi dell’art. 32, comma 25, l. n. 326 del 2003, la sanatoria è applicabile soltanto alle opere abusive relative a nuove costruzioni residenziali escludendo pertanto le nuove costruzioni ad uso diverso dal residenziale ».

2.3.- Con sentenza n. 7459 del 2020 il T.a.r. per il Lazio, sez. seconda stralcio, rigettava il ricorso sul rilievo che andava disattesa – poiché non provata – la tesi di parte privata secondo cui sarebbe stata erronea la qualificazione operata dall’amministrazione riferita ad una ‘nuova edificazione’, trattandosi, in tesi di parte privata, di un ampliamento del precedente fabbricato, pure avente destinazione commerciale, con conseguente ammissibilità (sempre secondo la parte privata) della c.d. sanatoria straordinaria.

3.1.- Un terzo ricorso (n. 12001 del 2005) veicolava la domanda di Asset Europe a r.l. di annullamento del provvedimento n. 101528 del 29 settembre 2005 con cui il Comune di Roma rigettava l’istanza di concessione edilizia in sanatoria del 26 luglio 2005 sul rilievo che la richiesta di riesame da cui è conseguito il condono sarebbe stata relativa a un manufatto di circa 450 mq. per il quale nessuna istanza di condono sarebbe stata presentata ai sensi sia della l. n. 47 del 1985, sia della l. n. 724 del 1994.

3.2.- Con sentenza n. 5397 del 2020, il T.a.r per il Lazio, sez. seconda stralcio, rigettava il ricorso.

3.2.1.- Il T.a.r., in punto di fatto, premetteva che:

- la Società Fidene Immobiliare a r.l. – poi divenuta Società Asset Europe a seguito del cambio di denominazione – proprietaria di un terreno con sovrastante immobile sito in Roma, alla via circonvallazione Gianicolense, aveva concesso l’immobile oggetto di istanza in locazione alla società Center Garden;
tale ultima società presentava, ai sensi della l. n. 47 del 1985, la domanda di concessione in sanatoria prot. n. 87581/1986 per un abuso di 91,51 mq. con destinazione d’uso commerciale, distinto al N.C.E.U. al foglio n.460, part. n. 704 sub 2;

- la società ricorrente, successivamente rientrata nella disponibilità dell’immobile a seguito di un contenzioso intercorso con la Società affittuaria, procedeva, in data 25 giugno 2003, ad integrare l’originaria istanza di sanatoria del 1986 e ne chiedeva il riesame: la consistenza effettiva dell’immobile, infatti, non era quella di 91,50 mq, come dichiarata dalla Center Garden, bensì di complessivi 542 mq. circa. Risultavano abusivamente realizzati, quindi, ulteriori 450 mq, non dichiarati nella originaria domanda di condono;

- l’Ufficio speciale condono edilizio del Comune di Roma, in data 30 ottobre 2003, rilasciava la concessione in sanatoria n. 306606/2003 per la superficie di 450 mq. e la concessione in sanatoria n. 306674/2003 per la superficie di 91,50 mq., entrambe con destinazione d’uso commerciale;

- detto ufficio con successiva determinazione dirigenziale n. 202/2005, annullava la concessione in sanatoria n. 306606/2003, relativa ai suddetti 450 mq. e contestualmente respingeva l’istanza di riesame presentata dalla ricorrente ritenendo sostanzialmente che l’istanza di riesame rappresentasse « una vera e propria domanda di condono ex novo e ciò per il semplice fatto che gli abusi ivi dichiarati sono di gran lunga più consistenti dell’unico abuso originariamente e tempestivamente denunciato »;

- la ricorrente, quindi, intervenuto l’annullamento della concessione in sanatoria n. 306606/2003, presentava, in data 26 luglio 2005, nuova domanda di concessione in sanatoria ai sensi dell’art. 35, comma 2, della l. n. 47 del 1985: l’istanza veniva denegata con provvedimento prot. n. 101528 del 29 settembre 2005, oggetto di impugnazione.

3.2.2.- Le ragioni della reiezione del ricorso erano così compendiate:

« come correttamente rilevato nel provvedimento impugnato, la concessione in sanatoria n. 306606/2003 è stata annullata in autotutela dal Comune in ragione del fatto che per gli ulteriori 450 mq abusivi non era stata presentata alcuna istanza di condono, né ai sensi della legge n. 47/85, né in base alla legge n. 724/94;
risultava invece proposta una mera istanza di rettifica ed integrazione della precedente domanda di condono senza, peraltro, che fossero rispettati i termini previsti dalla legge n. 47/85 (30.06.87) e dalla legge 724/94 (31.03.95).

La disposizione di cui all’art. 35 co. 2 della legge n. 47/85, poi, risulta correttamente intesa dal Comune nel senso che la possibilità di sanatoria ivi prevista deve intendersi limitata alle sole concessioni rilasciate in via ordinaria, e non anche a quelle rilasciate in sanatoria. La norma citata, cioè, deve intendersi riferita alle sole ipotesi in cui le opere edilizie, realizzate entro il 1.10.1983, siano, in un secondo momento, rimaste sine titulo per effetto dell’annullamento amministrativo o giurisdizionale del titolo che le aveva ab origine legittimate in via ordinaria;
il che non può ritenersi avvenuto nel caso qui in esame ove la concessione edilizia n. 306674/2003 è stata rilasciata dal Comune a sanatoria degli abusi già realizzati.

Le considerazioni sin qui esposte, infine, danno conto della infondatezza delle ulteriori censure mosse in sede di gravame, stante la compiutezza del quadro motivazionale del provvedimento impugnato che null’altro doveva argomentare circa il pubblico interesse sotteso al diniego di condono ed all’affidamento ingenerato nella ricorrente dal rilascio della prima concessione in sanatoria. Come è noto, del resto, in materia edilizia l’Amministrazione non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione degli abusi ed alla corretta gestione del territorio, né ad effettuare una comparazione tra questo e l’interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell’illecito ed al ripristino della legalità […]».

4.1.- Con un quarto e quinto ricorso (n. 10415 del 2006 e n. 1905 del 2007) e motivi aggiunti, DICO s.p.a., già DACO s.r.l. (conduttrice degli immobili di cui trattasi), impugnava, quanto al primo ricorso, con richiesta di annullamento, la determinazione dirigenziale n. 1849 del 23 ottobre 2006 con la quale il Comune di Roma disponeva la cessazione dell’attività della media struttura di vendita intrapresa nei locali di cui trattasi (nonché avverso ogni altro atto ad essa presupposto). Con il secondo ricorso impugnava il diniego di autorizzazione all’apertura dell’attività di media struttura di vendita (determinazione dirigenziale n. 230/07) di prodotti nel settore alimentare e non alimentare nei locali di cui trattasi.

4.2.- Sia l’inibitoria, sia il diniego di autorizzazione muovevano dalle sottese irregolarità edilizie (quanto al diniego anche dal parere negativo di regolarità urbanistica).

4.4.- Con sentenza n. 9586 del 2020 il T.a.r. per il Lazio rigettava la domanda caducatoria evidenziando che:

- « in sostanza, da tutti gli atti di causa e dai descritti esiti giudiziari emerge inequivocabilmente la radicale mancanza della conformità dell’immobile de quo alla disciplina urbanistico-edilizia, con conseguente necessitato diniego dell’autorizzazione all’apertura.

Va ribadito che l’atto impugnato di cessazione dell’attività ha intimato la cessazione di un'attività di vendita illegittimamente intrapresa, tal che va respinta anche la censura secondo cui l’atto sarebbe privo del presupposto della reiezione dell'istanza di autorizzazione presentata per lo svolgimento dell'attività della media struttura.

L’ente ha, viceversa, fatto cessare una attività iniziata sine titulo, essendo sufficiente constatare, come presupposto di fatto, l'illegittimo esercizio dell'attività da assentire;
essa, ai sensi delle disposizioni allora vigenti, era invero assoggettata al rilascio dell’autorizzazione amministrativa. Dal punto di vista commerciale, infatti, deve ricordarsi che, ai sensi del combinato disposto dell’art. 8 del D.L.vo n. 114/98 e dell’art. 27 della Legge Regionale n. 33/1999, l’apertura di una media struttura di vendita, all’epoca e anche in caso di concentrazione di più esercizi, è assoggettata al rilascio di un’autorizzazione amministrativa espressa
».

5.- Avverso le predette sentenze le parti private hanno interposto distinti appelli chiedendone le rispettive riforme.

a) appello n. 7419 del 2020 :

6.1.- Con un primo ricorso in appello (n. 7419/2020) Eurocorp s.p.a. European Corporation ha impugnato la sentenza T.a.r. per il Lazio n. 7456 del 2020, cit., sulla base di doglianze così compendiate:

1) Violazione e art. 39 l. n. 724 del 1994 in relazione all’art. 40 l. n. 47 del 1985;
eccesso di potere sotto diversi profili, error in iudicando e in procedendo.

Sostiene l’appellante che:

- in relazione alla qualificazione della domanda di condono come ‘nuova istanza’, la ricorrente si sarebbe avvalsa della facoltà di integrare la domanda di concessione in sanatoria erroneamente – poiché asseritamente parziale – presentata dall’affittuaria;
facoltà questa, in tesi, espressamente riconosciuta da due ordini di servizio del Comune di Roma (n. 24 del 4 novembre 1987 e n. 5 del 15 marzo1990) e dal Ministero dei lavori pubblici (nota prot. n. 2460 del 23 novembre 1989), interpellato a tal fine dallo stesso Comune di Roma, con possibilità di integrare la domanda di condono (e nel caso di specie i relativi presupposti sarebbero stati dimostrati);

- l’ulteriore superficie non denunciata oggetto del titolo in sanatoria poi annullato sarebbe risultata pienamente rientrante nell’ambito del c.d. primo condono edilizio di cui alla l. n. 47 del 1985 e relativo termine di ultimazione delle opere (1° ottobre 1983);

- il condono ottenuto ad ‘integrazione’ dell’originaria domanda avrebbe riguardato una superficie asseritamente munita dei presupposti per accedere al beneficio e, quindi, non avrebbe riguardato la sanatoria di un abuso non sanabile;

- nel caso di specie nessun inganno o frode sarebbero stati posti in essere per ottenere una sanatoria non dovuta, o comunque, un vantaggio dall’originario errore, sia pure « grave » in termini di consistenza dell’abuso e – quindi – non si sarebbe trattato di domanda nuova;

- la decisione del T.a.r. si sarebbe fondata su erronei presupposti poiché la (asserita) datazione dell’abuso nel periodo della locazione così come la responsabilità dello stesso da parte dell’affittuaria sarebbero elementi indubbi e comprovati;

- la società Asset avrebbe ottenuto la disponibilità del terreno (secondo quanto esposto, in stato di completo abbandono e divenuto discarica abusiva di rifiuti) in epoca successiva al 1995 quando ormai era ampiamente scaduto il termine per presentare autonoma domanda per sanare gli abusi eseguiti dall’affittuaria e dalla medesima non denunciati;

- anche le affermazioni del T.a.r. sulla consistenza dell’abuso sarebbero errate;

2) Violazione art. 39 l. n. 724 del 1994 sotto altro profilo;
eccesso di potere per errore dei presupposti e per difetto di istruttoria;
error in iudicando e in procedendo.

Sostiene l’appellante che:

- a differenza di quanto affermato dal T.a.r., sarebbe irrilevante il richiamo all’art. 39, comma 10-bis, l. n. 724 del 1994 che prevede la possibilità di chiedere la « rideterminazione delle domande di concessione in sanatoria presentate entro il 30.06.1987, solo a condizione che su di esse sia stato espresso provvedimento di diniego successivamente al 31.03.1995 »: ciò sul rilievo che la concessione in sanatoria relativa alla superficie di 450 mq., sarebbe stata rilasciata dal Comune di Roma come integrazione dell’originaria domanda di sanatoria e cioè usufruendo della facoltà di integrare e modificare tale domanda (facoltà asseritamente ammessa dai richiamati ordini di servizio e dalla nota del Ministero dei lavori pubblici, citt.);
la concessione poi annullata sarebbe stata, poi, rilasciata all’esito di una « richiesta di riesame per rettifica » presentata dalla società ricorrente;

3) Violazione art. 39 l. n. 724 del 1994 sotto altro profilo;
eccesso di potere per errore dei presupposti e per difetto di istruttoria;
omessa pronuncia. Premesso che il Comune, inoltre, avrebbe annullato la concessione in sanatoria rilasciata ritenendo che il terreno su cui insiste l’abuso sarebbe destinato a «verde pubblico», detto profilo non sarebbe stato idoneo a radicare il diniego impugnato in considerazione che – aspetto sul quale il T.a.r. avrebbe omesso di pronunciare – il menzionato vincolo sarebbe decaduto;

4) Violazione artt. 3 e 21-nonies l n. 241 del 1990;
difetto di pubblico interesse;
error in iudicando e in procedendo in relazione all’art. 21- nonies l. n. 241 del 1990. Il Comune di Roma avrebbe omesso di motivare circa la (in)sussistenza del pubblico interesse sotteso alla decisione, nonché sullo stato e consistenza delle opere già realizzate dal privato in rapporto al tempo trascorso dal rilascio del titolo in sanatoria. Il difetto di motivazione investirebbe anche il profilo del legittimo affidamento riposto dalla ricorrente sull’originario titolo edilizio, poi rimosso.

6.2.- Si è costituita in giudizio Roma Capitale la quale ha concluso per il rigetto dell’avversaria domanda in considerazione che:

- correttamente l’Amministrazione comunale avrebbe respinto l’istanza di riesame, prot. n. 88194/2003, unitamente alla rimozione della concessione in sanatoria n. 306606/2003, tenuto conto della sostanziale differenza tra la superficie dichiarata nella prima domanda di sanatoria (91,50 mq.) e quella dichiarata nella seconda domanda di sanatoria (542 mq.): il confronto tra le due domande restituirebbe uno scarto di circa 450 mq. che avrebbe configurato, a ben vedere, una sostanziale rideterminazione della consistenza effettiva dell’abuso da sanare, anziché, come dichiarato da controparte, una sua «mera integrazione»;

- la facoltà di integrazione della domanda non avrebbe potuto che riferirsi a sole integrazioni di dettaglio e meramente chiarificatrici;

- l’art. 39, comma 10- bis , l. n. 724 del 1994 sarebbe stato esplicitamente invocato da parte ricorrente nell’istanza del 17 settembre 2003, ma non risulterebbe utilmente applicabile per l’avvenuto spirare del termine decadenziale entro il quale la domanda di rideterminazione di cui trattasi avrebbe dovuto essere presentata;

- la destinazione a verde pubblico integrerebbe una forma di zonizzazione urbanistica, costituendo un « vincolo a contenuto conformativo non soggetto a decadenza »;

- il provvedimento sarebbe stato congruamente motivato avuto riguardo anche al suo (asserito) carattere vincolato.

6.3.- Le tesi difensive di parte appellante sono state ribadite con memoria depositata in prossimità dell’udienza.

b) appello n. 7699 del 2020 .

7.1.- Il secondo ricorso in appello (n. 7699/2020) riguarda la sentenza T.a.r. per il Lazio, sez. II stralcio, n. 9586 del 2020 con la quale sono stati rigettati, previa riunione, i ricorsi (e motivi aggiunti) avverso l’ordine di cessazione dell’attività e il diniego di autorizzazione all’attività di media struttura di vendita avverso la quale l’appellante ha dedotto:

1) Violazione art. 295 c.p.c. in relazione all’art. art. 79, comma 1 c.p.a.;
pregiudizialità tecnica (o necessaria);
eccesso di potere per errore dei presupposti e per difetto assoluto di istruttoria;
contraddittorietà ed illogicità manifesta della motivazione. Sostiene l’appellante che:

- al momento della decisione sarebbero risultati pendenti i giudizi riguardanti l’accertamento della conformità dei manufatti alla disciplina urbanistico-edilizia, sicché il giudizio avrebbe dovuto essere sospeso;

2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 20 l. n. 241 del 1990 anche in combinato disposto con l’art. 10-bis l. n. 241 del 1990;
erronea e/o contraddittoria decisione circa l’avvenuta formazione del silenzio assenso. Sostiene l’appellante che sull’istanza di autorizzazione datata 11 luglio 2006 si sarebbe formato il silenzio-assenso in data 29 settembre 2006.

7.2.- Roma Capitale, costituitasi in giudizio, ha contrastato le pretese dell’appellante evidenziando che:

- con riferimento al diniego di rilascio dell’autorizzazione amministrativa per l’apertura della media struttura di vendita, non possono non rilevare i provvedimenti di disciplina edilizia adottati dall’Amministrazione e impugnati dalle controparti con numerosi ricorsi poi respinti;

- il provvedimento di cessazione dell’attività avrebbe, dunque, doverosamente intimato la cessazione di un’attività di vendita (media struttura) la quale sarebbe stata illegittimamente intrapresa;

- non rileverebbe la cronologia dell’ordine di cessazione dell’attività (emesso anteriormente al diniego di autorizzazione allo svolgimento di attività di media struttura di vendita) sia perché l’attività commerciale sarebbe iniziata prima (e senza) il rilascio del titolo, sia perché l’istanza dell’interessato sarebbe stata priva dei presupposti e requisiti richiesti dalla legge per l’esercizio dell’attività commerciale.

7.3.- Con memoria l’appellante ha reso noto che in data 12 febbraio 2008 la VII commissione consiliare permanente (competente materia urbanistica) del Comune di Roma avrebbe presentato una proposta di revisione delle previsioni del Piano di assetto e che poiché tale istanza sarebbe rimasta priva di riscontro, la soc. Eurocorp avrebbe proposto ricorso al T.a.r. per il Lazio (n. 130141 del 2016), il quale lo avrebbe accolto con sentenza n. 3178 del 2017 (dichiarando l’obbligo del Comune Roma di concludere il procedimento). All’esito di tale giudizio sarebbe stata adottata la variante di ripianificazione sicché la conformità urbanistico-edilizia dell’immobile risulterebbe, oggi, riconosciuta nella sua interezza.

7.3.- E’ intervenuta, con atto ad adiuvandum , Eurocorp la quale, evidenziando, tra l’altro, profili di asserita contraddittorietà della sentenza appellata ed il mancato passaggio in giudicato delle sentenza che hanno definito i giudizi precedentemente instaurati, ha concluso (anche con successiva memoria), anch’essa, per l’accoglimento dell’appello.

c) appello n. 7767 del 2020 .

8.- Un terzo ricorso in appello (n. 7767 del 2020) ha ad oggetto la sentenza T.a.r. per il Lazio, sez. II stralcio, n. 7459 del 2020, di rigetto del ricorso avverso il diniego di condono n. 256 del 6 luglio 2007.

8.1.- Le doglianze dell’appellante sono state così articolate:

1) Violazione art. 32 l. n. 326 del 2003 e l.r. Lazio n. 12 del 2004;
eccesso di potere per errore e falsità dei presupposti;
difetto assoluto di istruttoria;
error in procedendo e/o in iudicando in relazione agli artt. 19, 63 e 64 c.p.a.

Sostiene l’appellante che:

- premesso che il Comune ha rigettato l’istanza di condono sul rilievo che sarebbero escluse dal condono le nuove costruzioni ad uso diverso da quello residenziale, nel caso di specie non ci si troverebbe al cospetto di un nuovo immobile ma di un ampliamento di quello preesistente ad uso commerciale, il quale (quest’ultimo), avrebbe integrato tutti i presupposti per la sua condonabilità;

- la Regione Lazio, con propria circolare, avrebbe ammesso che « l’ampliamento può anche non essere in aderenza purché realizzato nella stessa area di pertinenza del fabbricato principale e ad esso legato pertinenzialmente »;

- sarebbe erronea l’affermazione del T.a.r. – non preceduta da approfondimento istruttorio che, pure, in tesi, avrebbe potuto essere disposto – secondo cui non sarebbe stata fornita da parte ricorrente la prova che l’oggetto della sanatoria fosse un ampliamento, ciò che sarebbe invece attestato da apposita relazione tecnica (la quale evidenzierebbe trattarsi di struttura unica con l’immobile preesistente, con un ‘ampliamento’ che sarebbe tale sia sotto il profilo strutturale, sia sotto il profilo funzionale);

- in tal senso sarebbe irrilevante che nella domanda di sanatoria si sia fatto riferimento soltanto ad un «fabbricato ad uso commerciale» senza specificare trattarsi di «ampliamento», atteso che le tipologie di abuso ammesse a sanatoria di cui alla legge n. 47 del 1985, riconfermate dalla legge n. 724 del 1994 e modificate dalla legge n. 326 del 2003 non contemplerebbero la tipologia di abuso dell’ampliamento.

8.2.- Roma Capitale, sebbene ritualmente intimata, non si è costituita in giudizio.

8.3.- Le tesi dell’appellante sono state ribadite con memoria.

d) appello n. 8691 del 2020 .

9.1.- Con il quarto (ed ultimo) ricorso in appello Eurocorp ha chiesto la riforma della sentenza n. 5397 del 2020 con la quale il T.a.r. per il Lazio, sez. II stralcio, ha rigettato il ricorso la domanda di annullamento del diniego di sanatoria n. 101528 del 29 settembre 2005. Le doglianze della parte privata sono state così articolate:

1) Violazione art. 35, comma 2, l. n. 47 del 1985;
violazione art. 97 Cost.;
eccesso di potere per errore e falsità dei presupposti, genericità manifesta;
difetto di istruttoria;
error in iudicando e in procedendo.

Premesso che l’art. 35, comma 2, l. n. 47 del 1985 avrebbe previsto la possibilità di presentare istanza di condono oltre il termine di legge, per effetto dell’annullamento, decadenza o inefficacia del relativo titolo edilizio a condizione che le opere risultino ultimate entro il 1° ottobre 1983, ad avviso dell’appellante sarebbe errata l’affermazione del Comune (e del T.a.r.) secondo cui la possibilità di sanatoria ivi prevista debba intendersi limitata alle sole concessioni rilasciate in via ordinaria, e non anche a quelle rilasciate in sanatoria. Tale interpretazione sarebbe – secodno quanto esposto – in contrasto con la ratio della stessa norma la quale risiederebbe nel consentire la sanatoria delle opere che, al momento dell’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985 sul condono edilizio, sono legittime poiché munite di un titolo autorizzatorio (ordinario o in sanatoria), ma divengano successivamente abusive per effetto di un provvedimento comunale di annullamento, di revoca, di decadenza del titolo edilizio;

2) Violazione e falsa applicazione dell’art. 35, comma 2, l. n. 47 del 1985, sotto altro profilo. Eccesso di potere per errore, falsità dei presupposti e confusione;
difetto di istruttoria;
error in iudicando e in procedendo. Sostiene l’appellante che il Comune illegittimamente avrebbe richiamato a sostegno del rigetto della sanatoria ex art. 35 cit. la motivazione del provvedimento di annullamento del titolo invece che valutare la domanda la domanda di sanatoria proposta ex art. 35 comma 2;

3) Violazione art. 3 l. n. 241 del 1990;
difetto di pubblico interesse;
error in iudicando e in procedendo. Il provvedimento impugnato risulterebbe privo di motivazione in ordine all’interesse pubblico posto a base del sacrificio imposto alla società appellante e rispetto all’affidamento (in tesi, legittimo, anche in relazione ai controinteressati). L’affermazione del T.a.r. circa la presenza di un interesse pubblico in re ipsa sarebbe errata in considerazione della natura, in tesi, essenzialmente discrezionale del provvedimento.

9.2.- Roma Capitale, costituitasi in giudizio, ha concluso per l’infondatezza dell’appello e ne ha chiesto il rigetto.

9.3.- Parte appellante ha depositato memoria per ribadire le proprie tesi difensive.

10.- All’udienza pubblica del 23 aprile 2024, presenti i procuratori delle parti, gli appelli, su richiesta degli stessi, sono stati trattenuti tutti in decisione.

11.- Gli appelli in epigrafe vanno riuniti in ragione della complessiva unitarietà della vicenda contenziosa e alla omogeneità sostanziale delle questioni prospettate.

12.- Gli appelli, alla stregua di quanto si dirà, non sono meritevoli di accoglimento.

13.- Infondato è l’appello n. 7419/2020.

13.1.- Correttamente il Comune ha proceduto alla rimozione del precedente titolo edificatorio in sanatoria, emanato all’esito di una richiesta di riesame in relazione alla quale non sussistevano i presupposti per l’accoglimento.

È pacifico che gli ulteriori abusi perpetrati non fossero stati dichiarati e che il mancato possesso dell’immobile, ove pure rispondente a realtà, non radicava la possibilità di presentazione di un’istanza di sanatoria oltre il termine assegnato. Correttamente, dunque, il T.a.r ha giudicato immune dai vizi prospettati l’attività del Comune di Roma nell’esercizio del suo potere di ritiro. In tal senso va rilevato che:

a) irrilevanti si rivelano gli atti interni il Comune e la circolare del Ministero dei lavori pubblici i quali avrebbero consentito le modalità seguite dalla parte privata: la giurisprudenza si è da tempo espresso sulla inefficacia normativa esterna delle circolari. « A quest'ultime, infatti, è stata attribuita la natura di atti meramente interni della pubblica amministrazione, i quali, contenendo istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali o gerarchicamente superiori agli enti o organi periferici o subordinati, esauriscono la loro portata ed efficacia giuridica nei rapporti tra i suddetti organismi ed i loro funzionari. Le circolari amministrative, quindi, non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all’amministrazione, né acquistare efficacia vincolante per quest’ultima » (Cass. civ., sez. un. n. 23031 del 2007);

b) il termine perentorio per la presentazione dell’istanza di condono non subiva deroghe, quantunque in presenza di un abuso astrattamente sanabile ovvero in mancanza (qui addotta dall’appellante) di finalità di elusione della disciplina condonistica;
è del tutto evidente che l’accesso a un’impostazione esegetica secondo cui sarebbe ammissibile una modifica dell’istanza di condono involgente abusi non dichiarati e che travalichi il mero dato formale dell’istanza originaria (come nel caso di specie) non si sincronizzerebbe con la disciplina del condono, di stretta interpretazione, insuscettiva di applicazioni estensive o analogiche;

c) la richiesta di revisione ai sensi dell’art. 39, comma 10-bis l. n. 724 del 1994 (ai sensi del quale « Per le domande di concessione o autorizzazione in sanatoria presentate entro il 30 giugno 1987 sulle quali il sindaco abbia espresso provvedimento di diniego successivamente al 31 marzo 1995, sanabili a norma del presente articolo, gli interessati possono chiederne la rideterminazione sulla base delle disposizioni della presente legge ») era esplicitata nella nuova istanza e si è rivelata tardiva (cfr. memoria del Comune);

d) quanto alla destinazione dell’area a «verde pubblico», una previsione dello strumento urbanistico può ad un tempo comportare sia un vincolo preordinato all’esproprio (che decade col decorso del termine di cinque anni, quando non è dichiarata la pubblica utilità dell’opera), sia la conformazione della proprietà privata e ciò avviene tipicamente attraverso la destinazione «a verde pubblico o privato» di un’area. Ora, lungi qui dall’esaminare i profili di non univocità degli orientamenti giurisprudenziali sulla natura espropriativa o conformativa della destinazione a verde pubblico (in molti casi correlati alle singole situazioni di fatto e alla specificità delle previsioni delle norme tecniche di attuazione dei piani regolatori generali di riferimento), nel caso di specie non è minimamente dimostrata la presenza di elementi propri dell’esercizio del potere espropriativo, quantunque soltanto nella sua sola connotazione di tipo sostanziale;
in ogni caso, una ipotetica decadenza del vincolo (ipoteticamente) espropriativo, non avrebbe determinato un assetto idoneo a offrire parametri di edificabilità, men che mai abusiva, ricadendo l’area nella c.d. « zona bianca ».

e) nessuna violazione dell’art. 21- nonies della l. n. 241 del 1990 può dirsi perpetrata quanto ai presupposti sostanziali per l’esercizio del potere di autotutela (qui adeguatamente motivato), alle ragioni ad esso sottese e al termine, ragionevole, entro il quale l’atto di secondo grado è stato adottato, configurandosi questo come atto dovuto in presenza di un’istanza di rettifica, quella sì, che manifestamente non poteva essere accolta.

14.- Ne discende l’infondatezza del primo ricorso in appello (n. 7419/2020).

15.- Parimenti infondato è il secondo ricorso in appello:

- correttamente il T.a.r. ha deciso il ricorso di primo grado pur in mancanza di una sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. in attesa della definizione delle controversie avverso gli atti c.d. edilizi: al di là di ogni considerazione in rito (considerato che la sospensione è disposta quando la definizione di una controversia costituisca l’indispensabile antecedente logico giuridico dal quale dipende la decisione di un’altra e l'accertamento di tale antecedente sia in questa richiesto con efficacia di giudicato, ciò che, quantomeno in parte, non è nel caso di specie), l’ordine di cessazione dell’attività muoveva anche dalla mancata autorizzazione allo svolgimento della stessa, peraltro iniziata senza il conseguimento di apposito titolo (ciò che ne giustificava l’inibitoria quantunque anteriormente al diniego di autorizzazione);
va pure ricordato che « il combinato disposto degli artt. 7 e 22 d.lgs. n. 114 del 1998 prevede che, laddove vengano posti in vendita prodotti alimentari senza autorizzazione o denuncia di inizio attività, venga ordinata la chiusura immediata dell’esercizio di vendita» e che «il provvedimento di chiusura dell’esercizio commerciale […] è un atto dovuto e vincolato » (Cons. Stato, sez. V, n. 4441 del 2018);

- sono irrilevanti e non possono costituire parametro di legittimità dei provvedimenti qui impugnati le vicende inerenti alla nuova pianificazione urbanistica in itinere (che ammetterebbe lo svolgimento dell’attività di cui trattasi) poiché successive al termine di scadenza dell’istanza di condono e, comunque, involgente l’attività edilizia ‘futura’;

- infondate sono le considerazioni in punto di complessiva contraddittorietà della sentenza esplicitate dall’interveniente stante la nitidezza e fondatezza, anche logica, delle ragioni di infondatezza del ricorso.

16.- Anche l’appello n. 7699/2020 va, dunque, rigettato.

17.- Anche il terzo ricorso in appello non è meritevole di accoglimento.

17.1.- Correttamente il T.a.r. ha affermato l’assenza, nel caso di specie, di un « ampliamento » e, altrettanto correttamente, ha escluso l’applicabilità della disciplina condonistica (ex l. n. 326 del 2003, c.d. «terzo condono») alle (nuove) costruzioni non residenziali.

17.2.- Il T.a.r. ha, infatti, puntualmente argomentato nel senso che:

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