Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-09-15, n. 201006871
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N. 06871/2010 REG.DEC.
N. 02125/2009 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL PO I
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
Sul ricorso numero di registro generale 2125 del 2009, proposto dal Comune di Lanciano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. G C, con domicilio eletto presso il signor D D G in Roma, via Anapo, 29;
contro
Il signor D'Amico Bruno, non costituitosi nel presente grado del giudizio, e i signori F N, D I G, F G, rappresentati e difesi dagli avv.ti A T e B T, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. A T in Roma, via Germanico, 96;
nei confronti di
L’avv. S Pietro, rappresentato e difeso da se stesso, con domicilio eletto presso il signor Alessandro Rimato in Roma, viale delle Milizie, 9;
la signora Gaeta Angela, rappresentata e difesa dagli avv.ti A T e B T, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato A T in Roma, via Germanico, 96;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. ABRUZZO - SEZ. STACCATA DI PESCARA n. 00157/2008, resa tra le parti, concernente DEMOLIZIONE E RIPRISTINO STATO DEI LUOGHI.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 maggio 2010 il Consigliere R P e uditi per le parti gli avvocati Carlini e Taverniti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.- Con ricorso al TAR Abruzzo , sezione staccata di Pescara, i signori D’Amico Bruno, F N, D I G , proprietari nel territorio del Comune di Lanciano di appartamenti situati in v. Cesare De Titta (ed identificati a catasto al fg. N.26/mapp577-4405), impugnavano un ordine di demolizione edilizia, emesso dal Comune, al termine di un’articolata vicenda, che può essere ripercorsa come segue.
Adiacente alla proprietà degli esponenti, si è un villino bifamiliare, dello stesso stile, di proprietà dell’Avv. Pietro S. Gli esponenti facevano anche presente l’inserimento di entrambi detti immobili nella variante al PRG del 1985 in zona di ristrutturazione urbanistica, da attuarsi attuata attraverso piano di recupero al patrimonio edilizio (PRPE) , mediante demolizione e ricostruzione di un unico edificio.
La Società precedente proprietaria dell’immobile presentava al Comune un PRPE relativo solo all’area di sua proprietà, che riceveva l’approvazione dal consiglio comunale (atti nn. 56/1996 e 11/1997). Conseguentemente il Comune rilasciava poi la concessione edilizia (n. 180 del 7.4.1998) in favore della Società D.N.D Immobiliare per la costruzione del fabbricato residenziale, previa ristrutturazione di quello preesistente.
Tuttavia, su ricorso del confinante proprietario, avv. S, il TAR annullava la concessione edilizia e gli atti di approvazione del PRPE (sent.n. 458/1999), evidenziando che il Comune non avrebbe potuto approvare l’intervento poiché il progetto e la concessione interessavano solo una parte dell’unico comparto individuato nello strumento urbanistico.
Il TAR aggiungeva che, anche ove il PRG avesse individuato due distinti comparti, gli atti impugnati dovevano ritenersi ugualmente illegittimi, perché non si era disposta la demolizione dei due fabbricati, era stata realizzata una volumetria eccedente, il nuovo edificio era stato costruito in aderenza al supposto limite di zona ed infine perché la zona a verde pubblico non era stata realizzata all’estremità del comparto.
Il Consiglio di Stato confermava la decisione di primo grado, rigettando gli appelli proposti dal Comune e dalla Società D.N.D. (sent. sez. V, n. 697/2003).
Nelle more dello svolgimento dei due gradi di giudizio, la costruzione è comunque stata realizzata, ottenendo anche l’abitabilità, per cui gli appartamenti nel 2001 venivano venduti agli attuali appellati e ad altri acquirenti.
In esecuzione della pronuncia del Consiglio di Stato, il Comune, preso atto dell’annullamento dei titoli edilizi, ordinava il ripristino dello stato dei luoghi con atto del 20.6.2003, immediatamente dopo tuttavia autoannullato.
Di fronte alla successiva inerzia del Comune, l’avv. S proponeva ulteriore ricorso al TAR per l’ottemperanza alla sentenza n. 458/1999, che era accolto con la sentenza n. 859/2004, con cui si nominava anche il Commissario “ad acta”. In particolare con tale decisione il Tribunale individuava le “regole cui deve uniformarsi l’amministrazione in sede di esecuzione” (volte a rimuovere le conseguenze delle commesse illegittimità, in ordine alla mancata approvazione di un unico piano per il comparto, alla realizzazione di un ulteriore edificio, in assenza della demolizione di quelli preesistenti, e all’eccesso di volumetria);la sentenza, inoltre, rilevava il dovere del Comune di “procedere alla demolizione coattiva delle opere edilizie realizzate, ovvero, sussistendo interesse pubblico contrario, all’applicazione di altra sanzione secondo le previsioni delle vigenti norme in materia di abusi edilizi”, oppure conformando “diversamente la situazione di fatto alla normativa urbanistica con riferimento agli strumenti vigenti all’epoca di notifica della sentenza del Consiglio di Stato, dando conto, in particolare, attraverso un giudizio che implica anche valutazioni di interesse pubblico, della compatibilità delle opere realizzate con gli stessi strumenti urbanistici, con particolare riferimento alla questione concernente la volumetria residenziale realizzata”.
In sede di esecuzione di tale giudicato, con la delibera n. 36 del 14 dicembre 2004 la Giunta comunale di Lanciano stabiliva:
a) di procedere alla “attuazione del comparto nella sua unitarietà”, “approvando un piano di recupero” e “soprassedendo nelle more” “alla demolizione dell’edificio compatibile con lo strumento urbanistico di attuazione”;
b) di invitare il dirigente a demolire – dopo l’approvazione del comparto – le opere incompatibili (per la misura di mc. 1976,51) applicando la sanzione pecuniaria per l’impossibilità di procedere alla demolizione di ulteriori mc 253, 52.
Con la nota n. 18993 del 2005 il Dirigente della programmazione urbanistica comunicava l’avviso di avvio del procedimento per la formazione del comparto, invitando l’avv. S e la società a costituire il consorzio previsto dall’art. 26 della L.R. n. 18/1983, in assenza del quale è stata prospettata l’approvazione d’ufficio del piano.
Con la nota n. 18993 del 2005, il dirigente della programmazione urbanistica comunicava poi l’avviso di avvio del procedimento per l’attuazione del comparto ed invitava l’avv. S e la società DND a costituire il consorzio previsto dall’art. 26 della legge regionale n. 18 del 1983, in assenza del quale il Comune prospettava l’approvazione d’ufficio del piano.
L’avv. S impugnava però dinanzi al TAR tali provvedimenti con ulteriori ricorsi (nn. 67 e 262 del 2005) al TAR Abruzzo, i quali con la sentenza n. 98/2006 venivano accolti, sulla base delle seguenti considerazioni:
- la delibera n. 36 del 2004 aveva constatato l’interesse pubblico alla conservazione dell’edificio realizzato da oltre cinque anni (ed abitato da dieci famiglie), in base a piano di recupero a suo tempo annullato;
- era stata prevista la formazione del comparto non per attuare la previsione del piano regolatore, ma per sanare l’opera divenuta abusiva per l’annullamento della concessione edilizia n. 180 del 1998;
- l’esecuzione della medesima delibera comporterebbe la conservazione di immobili su una sagoma diversa da quella prevista dal piano regolatore, in assenza del consenso del proprietario finitimo e con un eccesso di volumetria;
- in sostanza, la delibera mirava a soddisfare esigenze meramente privatistiche alla conservazione di un bene abusivo, senza tenere conto delle esigenze del proprietario finitimo.
2.- In tale contesto, infine, il Comune, preso atto della conferma giurisdizionale dell’annullamento dei titoli edilizi (Cons. di Stato, n.697/2003) reiterava in data 13.12.2006 l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, mediante abbattimento di tutte le opere edilizie eseguite fuori terra ed interrate, ordine che veniva impugnato con il menzionato ricorso al TAR da parte dei proprietari esponenti.
A sostegno dell’impugnativa si denunciava:
- la violazione degli artt. 7 e 8 della L.241/1990, per non essere stati i ricorrenti previamente informati circa l’avvio di siffatto procedimento, quando addirittura agli stessi era stato comunicato l’avvio del procedimento volto alla costituzione del “Consorzio”, in attuazione dell’art. 26 della L.R. 18/1983.
- la violazione delle statuizioni contenute nelle pronunce del TAR n. 458/1999 e 859/2004, nonché la violazione dell’art. 38 del DPR 380/2001, avendo l’Amministrazione omesso ogni valutazione circa la possibilità di mantenere l’intervento edilizio, che è stato realizzato non abusivamente, ma in base a permessi regolarmente assentiti, annullati in sede giurisdizionale solo dopo che l’opera era stata edificata.
- la violazione della pronuncia n. 859/2004, con cui il TAR aveva stabilito l’obbligo dell’Amministrazione di procedere ad un riesame dell’intera vicenda, indicando i provvedimenti da assumere, costituiti o dalla demolizione coattiva ovvero, sussistendo interesse pubblico contrario, dall’applicazione di altra sanzione, o da un provvedimento teso a conformare la situazione di fatto alla normativa urbanistica con riferimento agli strumenti vigenti all’epoca di notifica della sentenza del Consiglio di Stato;
- l’ inesistenza delle istruttoria e delle valutazioni che si sarebbero dovute esternare prima di adottare la misura repressiva in parola, anche tenendo conto che l’esecuzione di tale misura priverebbe dell’abitazione dieci famiglie in un Comune ad alta densità abitativa, come Lanciano;
- la mancata considerazione del fatto che, essendo stato l’immobile realizzato in base a titoli edilizi rilasciati dal Comune, nel caso di demolizione l’ente dovrebbe risarcire i proprietari degli appartamenti e l’impresa costruttrice, che avevano riposto affidamento nella legittimità della concessione rilasciata;
- la violazione dell’art.38 del DPR 380/2001, che impone l’obbligo di rendere motivata valutazione circa l’impossibilità di rimuovere i vizi delle procedure amministrative prima di disporre la rimozione delle opere, atteso che in nessuna parte dell’atto si indicano le ragioni della scelta compiuta a fronte delle alternative previste dalla norma ricordata;
- la omessa indicazione delle ragioni per cui l’amministrazione aveva ritenuto non più sussistenti le ragioni che avevano indotto all’autoannullamento della prima ordinanza di demolizione, con cui si pone in contraddizione l’attuale ordine di rimozione;
- il contrasto con le precedenti valutazioni e determinazioni dell’Amministrazione contenute delle delibere consiliari n. 56/1996 e 11/1997 e con la volontà di salvaguardare la villa risalente ai primi anni del ‘900, avente elementi di pregio ed esistente a fianco alla palazzina oggetto dell’ordine di rimozione;
- la violazione dell’art. 3, comma 4, della L.241/1990 per l’omessa indicazione del termine e dell’autorità cui ricorrere, mentre con altro motivo ci si duole della mancata indicazione dell’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3 dell’art. 31 del DPR 380/2001;
- l’impossibilità di eseguire l’ordine di demolizione ingiunto, in quanto rivolto non ad un soggetto unico, ma a più soggetti, proprietari di beni esclusivi e di parti condominiali, di talchè chi volesse adempiere di fatto sarebbe impossibilitato a farlo senza il consenso di tutti gli altri, consenso che non si sa bene come raccogliere, con la conseguenza che il provvedimento impugnato non potrebbe essere che eseguito mediante l’acquisizione della proprietà dell’immobile da parte dell’ente.
3.- Con la sentenza epigrafata, il TAR riconosceva la fondatezza delle prime due censure, ritenute assorbenti degli ulteriori motivi formulati.
4.- Il Comune di Lanciano (con atto notificato il 19.2.2009) ha impugnato innanzi a questo Consiglio la sentenza del TAR, chiedendone la riforma.
Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti in prime cure (salvo il sig. D’amico, nelle more deceduto) e l’avv. S, resistendo al gravame ed esponendo in successiva memoria le proprie argomentazioni difensive, che si hanno qui per riportate.
Alla pubblica udienza del 4 maggio 2010 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Non ha fondamento l’eccezione di nullità, proposta dagli appellati, della notificazione dell’appello in quanto effettuata dal Comune al ricorrente in primo grado D’Amico Bruno (deceduto il 15.3.2008) nel domicilio eletto presso il suo procuratore nel giudizio di primo grado. Successivamente al deposito della sentenza di primo grado, ai fini della notificazione dell’ appello, le parti si presumono conservare l’elezione di domicilio disposta per il giudizio di primo grado, salvo che risulti abbiano dato avviso alle controparti del mutamento del domicilio o degli eventi che ne determino la necessità.
2- Come accennato in fatto, il TAR per l’Abruzzo ha accolto il ricorso contro il contestato ordine di ripristino dei luoghi (ord. n.346/2006) ritenendo la fondatezza dei motivi che avevano sostenuto:
- la violazione degli artt. 7 e 8 della L.241/1990 per non essere stati i ricorrenti previamente informati circa l’avvio di siffatto procedimento, quando addirittura agli stessi era stato comunicato l’avvio del procedimento volto alla costituzione del “Consorzio”, in attuazione dell’art. 26 della L.R. 18/1983.
- la violazione delle statuizioni contenute nelle precedenti pronunce del TAR n. 458/1999 e 859/2004, nonché la violazione dell’art. 38 del DPR 380/2001, avendo l’Amministrazione omesso ogni valutazione circa la possibilità di mantenere l’intervento edilizio, che è stato realizzato non abusivamente, ma in base a permessi regolarmente assentiti, annullati in sede giurisdizionale solo dopo che l’opera era stata edificata.
In particolare, non vi è stata alcuna modifica dello strumento urbanistico generale, che – per non risultare affetto da irragionevolezza o da altri profili di eccesso di potere - comunque non avrebbe potuto consentire alcun superamento dei limiti massimi volumetrici da parte della società costruttrice.
3. Ritiene la Sezione che l’appello risulta fondato e va accolto.
E’ decisivo considerare che risulta una attuale eccedenza dei limiti massimi di volumetria complessivamente assentibili e che non vi è stata alcuna modifica dello strumento urbanistico, volta a dare un nuovo regime alle aree in questione (nel rispetto dei principi di legalità e di ragionevolezza delle scelte).
Pertanto, risultano pienamente operanti le statuizioni derivanti dai precedenti giudicati, che impongono al Comune di Lanciano di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, con la materiale demolizione dell’edificio da considerare realizzato sine titulo..
Ne consegue che – col provvedimento impugnato in primo grado - del tutto legittimamente il dirigente ha ravvisato i presupposti per disporre la demolizione.
4. E’ anche fondata la censura secondo cui non sussiste la dedotta violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Nei confronti della società, parte nei precedenti giudizi, non occorreva alcun avviso di avvio del procedimento, poiché il precedente giudicato non ha attribuito alcun potere discrezionale al dirigente, tenuto ad adeguare la situazione di fatto a quella di diritto.
Inoltre, gli acquirenti delle unità immobiliari, quali titolari di posizioni derivate dalla parte soccombente nei precedenti giudizi, vanno considerati titolari di un interesse ad intervenire nel corso del procedimento amministrativo e non come ‘parti necessarie’ del medesimo procedimento.
Sotto tale profilo, è frequente in materia edilizia che possa assumere iniziative, in sede amministrativa o giurisdizionale, il soggetto leso da un provvedimento, anche se l’amministrazione non ha il dovere di trasmettergli l’avviso di avvio del procedimento.
Nella specie, la natura vincolata dell’atto di demolizione e la titolarità del relativo obbligo in capo alla società, rispetto alla quale i subacquirenti hanno assunto una posizione derivata e riflessa, fanno escludere che il Comune aveva l’obbligo di trasmettere l’avviso di avvio del procedimento anche a soggetti estranei alle vicende che hanno condotto alla formazione del giudicato.
5. Risultano invece infondate le domande risarcitorie già proposte in primo grado nei confronti del Comune, poiché – per la ravvisata legittimità del provvedimento impugnato in primo grado – non è configurabile un suo illecito.
5. Pertanto l’appello deve essere accolto e in riforma della sentenza impugnata il ricorso di primo grado va respinto. Le spese del giudizio seguono il principio della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.