Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-11-09, n. 202006875

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-11-09, n. 202006875
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202006875
Data del deposito : 9 novembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 09/11/2020

N. 06875/2020REG.PROV.COLL.

N. 09620/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9620 del 2010, proposto dal
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,

contro

il dott. B A, rappresentato e difeso dagli avvocati G C e M M, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via Massimi n. 154,

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima) n. 1608/2009, resa tra le parti, concernente diniego di corresponsione di indennità di missione.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del dott. B A;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 settembre 2020 il Cons. Carla Ciuffetti, nessuno comparso per le parti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. La controversia in esame riguarda il diniego opposto dall’Amministrazione, con nota in data 25 febbraio 2002, alla richiesta di corresponsione dell’indennità di missione, presentata in data 19 febbraio 2002, ai sensi dall’art. 13, co. 2, l. n. 97/1979, dalla parte appellata, magistrato ordinario consensualmente trasferito dal Tribunale di Cagliari al Tribunale di Lanusei, con assegnazione delle superiori funzioni d’appello.

2. Il ricorso presentato dall’interessato per l’annullamento della suddetta determinazione e per l’accertamento del suo diritto a percepire detta indennità, con condanna dell’Amministrazione al pagamento delle relative somme, è stato accolto dal Tar. Il primo giudice ha rilevato che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 1, co. 209, l. n. 266/2005, l’art. 13, co. 2, l. n. 97/1979, che stabiliva che l’indennità in questione spettasse “ ai magistrati trasferiti d’ufficio fuori della ipotesi di cui all’articolo 2, secondo comma, del R. D. Lgs. 31 maggio 1946, n. 511 ” era stato interpretato dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che nel “ trasferimento d’ufficio ” dovesse ritenersi compreso anche il trasferimento di sede conseguente all’assegnazione di nuove funzioni - non soltanto quindi il trasferimento di coloro che alla nuova sede fossero stati assegnati d’autorità per mancanza di aspiranti al posto resosi vacante -, indipendentemente dalla manifestazione di disponibilità da parte del magistrato, rilevando piuttosto la circostanza del trasferimento ad un posto con attribuzioni di funzioni di natura diversa dalle precedenti, che, nell’interesse prevalente della Amministrazione, si sarebbe dovuto comunque coprire d’ufficio in caso di mancanza di copertura. Perciò, il Tar ha ritenuto di non poter seguire l’orientamento giurisprudenziale che si era in seguito formato in merito alla portata interpretativa dell’art. l, co. 209, della l. n. 266/2005 (“ L’articolo 13 della legge 2 aprile 1979 n. 97, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che ai fini del mutamento di sede la domanda o la disponibilità o il consenso comunque manifestato dai magistrati per il cambiamento della località sede di servizio è da considerare ai fini del riconoscimento del beneficio economico previsto dalla citata disposizione come domanda di trasferimento di sede ”), cui la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2006, n. 5193, 21 giugno 2007, n.3411, e 19 ottobre 2006, n. 6220), aveva attribuito efficacia retroattiva.

Il primo giudice ritenuto di dover aderire al diverso orientamento (T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 24 settembre 2008, n. 2678) secondo il quale quest’ultimo intervento legislativo “ non privilegiava una fra le varie opzioni concretamente in campo, pur se minoritaria o tendenzialmente recessiva, ma ribaltava un assetto solidamente attestato su di un’unica posizione, così di fatto innovando il quadro normativo di riferimento ed incidendo su situazioni sorte e sviluppatesi in costanza di un regime giuridico del tutto differente ”, essendo invece indubbio che “ l’opzione della retroattività debba essere compiuta mediante previsioni di carattere particolarmente univoco e chiaro ”. Perciò, il Tar ha annullato l’atto di diniego dell’indennità in questione, di cui ha dichiarato la spettanza al ricorrente, nella misura determinata ai sensi dell’art. 1, co. 36, l. n. 549/1995 (“ per un solo anno, in misura intera per i primi sei mesi ed in misura ridotta alla metà per il semestre successivo ”), da corrispondere con gli interessi legali, restando escluso il diritto alla rivalutazione monetaria, dato il carattere indennitario e non retributivo dell’emolumento in questione.

3. Con il presente appello, il Ministero della Giustizia deduce l’erroneità della sentenza impugnata, in quanto, alla luce dell’orientamento della giurisprudenza di questo Consiglio che ha attribuito portata interpretativa con efficacia retroattiva all’art. 1, co. 209, l. n. 266/2005, escludendone la portata innovativa (anche Cons. Stato, 6 marzo 2008, n. 2148), non avrebbe potuto essere corrisposta l’indennità di missione, a prescindere dal conferimento di funzioni superiori, dato che “ l’indennità non spetta comunque in ogni caso in cui il trasferimento sia stato a domanda, come pacificamente è stato nella fattispecie ”.

4. La parte appellata, costituita in giudizio con atto in data 15 dicembre 2010, ha chiesto il rigetto dell’appello. Evidenziato che alla data di proposizione del ricorso di primo grado “ era assolutamente pacifico che l’indennità di missione spettasse a tutti i magistrati ordinari trasferiti d’ufficio, in caso di mutamento di sede che comportasse l'esercizio, per la prima volta, di nuove funzioni ”, anche “ laddove, come appunto accaduto nel caso di specie, il trasferimento fosse stato disposto a seguito di domanda dell’interessato ”. Alla norma di cui all’art. 1, co. 209, l. n. 266/2005 non poteva attribuirsi natura interpretativa perché le pronunce del Consiglio di Stato che, contraddicendo il precedente orientamento giurisprudenziale, avevano riconosciuto a tale norma efficacia retroattiva avevano rilevato che “ il quadro normativo di riferimento è stato profondamente inciso dall’entrata in vigore dell'art. 1, comma 209, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (finanziaria 2006) (ex multis, IV sezione, sentenza n°336/2018) ” e, quindi, se “ una norma ‘incide profondamente’ su un preesistente quadro giuridico, allora la medesima norma non può essere considerata interpretativa, ma deve essere riconosciuta come innovativa ”. Inoltre, dal confronto tra l’art. 13, co.2, l. n. 97/1979 con l’art. 1, co. 209, l. n. 266/2005, sarebbe emerso “ chiaramente che la norma ‘interpretativa’ ha attribuito alla manifestazione di volontà del magistrato in merito al trasferimento (il consenso e/o la disponibilità) il significato di domanda di trasferimento, e cioè il senso esattamente opposto a quello che era attribuito alle medesime manifestazioni di volontà dalla norma ‘interpretata’ che, infatti, le equiparava al trasferimento d’ufficio ”. Dall’intervento legislativo ritenuto interpretativo sarebbe derivata una violazione del principio di uguaglianza tra coloro che erano stati trasferiti “ consensualmente ” nello stesso periodo in cui era stato trasferito l’interessato, poiché alcuni di essi avevano ottenuto il pagamento dell’indennità prima dell’entrata in vigore di tale intervento legislativo, mentre altri, come lo stesso interessato, si erano “ visti opporre un diniego e si sono trovati nella necessità di agire in giudizio a tutela delle proprie ragioni ed hanno visto, nel corso del giudizio, l’approvazione di una norma che, secondo l’interpretazione di codesto Consiglio di Stato, farebbe venir meno il loro diritto, sino a quel momento pacificamente riconosciuto ”. Del resto, l’interessato avrebbe acconsentito al trasferimento confidando nella corresponsione dell’indennità;
ma, tale consenso avrebbe potuto anche non essere espresso, qualora egli avesse saputo che non avrebbe ottenuto l’indennità di missione. Dunque, l’attribuzione di efficacia retroattiva all’art. 1, co. 209, della l. n. 266/2005 avrebbe leso un legittimo affidamento, in contrasto “ con i fondamentali principi della Costituzione e della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, la quale, all’art. 1 del I protocollo addizionale, ha previsto la tutela del diritto dei ‘beni’ intesi come qualsiasi diritto o aspettativa che trovino un fondamento adeguato nella legge nazionale. Tanto più che, nella specie, l’art. 1, comma 209 della l n. 266/2005 ha previsto la soppressione completa di un diritto, senza alcun indennizzo, e senza che tale soppressione sia giustificata da ragioni di interesse pubblico che siano state bilanciate con quelle individuali ”. Perciò, l’applicazione della suddetta norma con effetto retroattivo alla fattispecie in esame sostanzierebbe una violazione degli articoli 10 e 117 della Costituzione, della quale l’interessato chiede che venga investita la Corte costituzionale. Con memoria depositata in data 8 settembre 2010, la parte appellata chiede che la prospettata questione di legittimità costituzionale per violazione degli articoli 10 e 117 della Costituzione sia sollevata con riferimento alla violazione dell’art. 6 CEDU.

5. Tanto esposto, il Collegio passa quindi all’esame dell’appello.

5.1. A tal fine, giova ricordare che nel quadro normativo di riferimento vigente prima dell’entrata in vigore della l. n. 266/2005: l’art. 1 della l. n. 1039/1950 aveva previsto che “ ai magistrati promossi al grado terzo, destinati a sede diversa da quella in cui esercitavano le funzioni del grado inferiore, spetta per la durata di un anno dal giorno dell’assunzione, anche se entro detto periodo siano trasferiti ad altra sede, l’indennità di missione stabilita dal decreto legislativo 13 gennaio 1947, n. 7, e successive modifiche ed integrazioni ”;
l’art. 13, co. 2, della l. n. 97/1979, modificato dall’art. 6 della l. n. 27/1981 e dall’art. 4, della l. n. 133/1998, aveva stabilito che detta indennità spettasse “ ai magistrati trasferiti d’ufficio o comunque destinati ad una sede di servizio per la quale non hanno proposto domanda, ancorché abbiano manifestato il consenso o la disponibilità fuori della ipotesi di cui all’articolo 2, secondo comma, del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, in misura intera per il primo anno ed in misura ridotta alla metà per il secondo anno ”;
l’art. 1, co. 36, della l. n. 549/1995 aveva previsto che “ a decorrere dal 1° gennaio 1996 l’indennità continuativa di missione prevista dagli articoli 1 e 3 della legge 6 dicembre 1950, n. 1039, dall’articolo 13 della legge 2 aprile 1979, n. 97, come sostituito dall’articolo 6 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nonché dalla legge 10 marzo 1987, n. 100, e dall’articolo 10 del decreto-legge 4 agosto 1987, n. 325, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 1987, n. 402, è corrisposta per un solo anno, in misura intera per i primi sei mesi ed in misura ridotta alla metà per il semestre successivo ”.

5.2. Su tale quadro normativo si era svolta un’attività interpretativa da parte della giurisprudenza di questo Consiglio, secondo la quale l’indennità di missione continuativa, prevista dall’art. 13, l. n. 97/1979 per i casi di assegnazione o trasferimento da ufficio, non spetta “ nel caso in cui il trasferimento, ancorché disposto autoritativamente, sia preceduto da una manifestazione espressa di gradimento da parte del magistrato;
ciò in quanto non è possibile individuare un ‘tertium genus’ tra trasferimento d’ufficio e trasferimento a domanda, e la circostanza della esistenza di una previa dichiarazione di gradimento riconduce tale forma di trasferimento alla specie di trasferimento a domanda, per il quale non è erogabile la citata indennità continuativa di missione
”. Perciò l’indennità “ spetta al personale di magistratura nei casi di trasferimento d’ufficio in senso proprio, dai quali va escluso il trasferimento previa disponibilità, essendo questo sostanzialmente assimilabile al trasferimento a domanda, disposto nel prevalente interesse del magistrato e non ad iniziativa e nell'interesse dell'amministrazione, mentre è assimilabile al trasferimento d’ufficio quello in cui si tratta di conferire per la prima volta nuove funzioni ” (Cons. Stato, A. P., 13 maggio 1994, n. 5). Dunque, il trasferimento a domanda del magistrato a parità di funzioni era stato considerato rispondente “ esclusivamente o prevalentemente all’interesse del magistrato stesso ”, mentre “ il trasferimento con conferimento di funzioni superiori risponde ad un prevalente interesse della p.a., ancorché l’interessato abbia preventivamente dichiarato la propria disponibilità al mutamento di sede ” e, solo in questo secondo caso, si era ritenuto che spettasse il trattamento di missione (Cons. Stato, sez. IV, 8 settembre 1997, n. 960).

5.3. A tale assetto della materia va ricondotto l’art. 1, co. 209, della l. n. 266/2005. Come rilevato dall’Amministrazione appellante, effettivamente la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto a tali disposizioni natura interpretativa con effetto retroattivo (tra le altre Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2006, n. 5193, e 6 marzo 2008, n. 2148). Infatti, con riferimento alle fattispecie già portate alla sua attenzione, questo Consiglio ha affrontato e sciolto in senso positivo la questione della ragionevolezza delle suddette disposizioni, con la conclusione che “ l’elemento individuato dal legislatore per l’assoggettamento di situazioni diverse ad unica disciplina (‘la domanda o la disponibilità o il consenso’) appare comunque non irragionevolmente ricondurre sotto lo stesso alveo, quanto alla erogazione dell’indennità di cui si tratta, situazioni, nelle quali tutte le esigenze dell’amministrazione quanto meno coesistono con quelle al cambiamento di sede proprie dell’interessato, il quale comunque ad esso si candida in tutta autonomia con ‘la domanda o la disponibilità o il consenso’, sì da rendere del tutto recessive, secondo la ragionevole formula legislativa, le prime ” (Cons. Stato, sez. IV, 21 giugno 2007, n. 3411). La già ravvisata ragionevolezza dell’art. 1, co. 209, della l. n. 266/2005 porta ad escludere la fondatezza della censura della parte appellata in ordine alla violazione del principio di uguaglianza e della disparità di trattamento derivante da tale intervento normativo, censura peraltro formulata in modo generico, senza il supporto di elementi informativi idonei a prestare consistenza al preteso paragone.

Sul sospetto di illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni questo Consiglio si è già pronunciato escludendolo. Ciò in base alla considerazione che “ il carattere di interpretazione autentica di una legge non presuppone infatti indispensabilmente una preesistente situazione di incertezza o di conflitti interpretativi nell’applicazione della legge stessa: è invece necessario e sufficiente che la legge interpretativa imponga una scelta ermeneutica rientrante fra le tante, possibili, opzioni interpretative della legge anteriore e che, dunque, stabilisca un significato, che ragionevolmente ad essa possa essere ascritto ” (Cons. Stato, sez. IV, 19 gennaio 2018, n. 336). Una tale legge interpretativa “ pur sopravvenendo in presenza di una diversa giurisprudenza consolidata, non è del resto ex se sospettabile d’illegittimità costituzionale, essendo costituzionalmente garantita la sola irretroattività della legge penale ” (Cons. Stato, sez. IV, n. 336/2018 cit.).

Nell’economia di tale pronuncia - che ha riformato la sentenza del T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 24 settembre 2008, n. 2678 richiamata nella sentenza in epigrafe - che recepisce un consolidato indirizzo giurisprudenziale, alla locuzione che l’appellato taccia di contraddittorietà (“ il quadro normativo di riferimento è stato profondamente inciso dall'entrata in vigore dell' art. 1, comma 209, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 ”) non può attribuirsi altro significato se non quello, coerente con il percorso logico giuridico complessivamente seguito, di sottolineare che, in un ambito normativo in cui la giurisprudenza aveva svolto un necessario ruolo interpretativo, era subentrato un intervento legislativo di definitivo chiarimento in ordine a quale fosse, tra quelle possibili, la norma da estrarre dalle disposizioni in questione. Ai fini della natura interpretativa di tale intervento legislativo, era quindi sufficiente che venisse indicata “ una scelta ermeneutica rientrante fra le possibili opzioni interpretative ”, stabilendo “ un significato che ragionevolmente poteva essere ascritto alla legge anteriore ”.

Anche il tema della compatibilità delle suddette disposizioni con la CEDU e i suoi protocolli aggiuntivi, come interpretati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU), prospettato dalla parte appellata, è già stato affrontato questo Consiglio che ha ritenuto che tale “ disposizione interpretativa, invero, risulta conforme all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, in quanto supportata da motivi imperativi di interesse generale configurabili allorquando: la norma interpretativa corrisponde all’originario contenuto di quella interpretata;
risolva oscillazioni giurisprudenziali ed, applicata ai giudizi pendenti, rispetti i diritti acquisiti con decisioni irrevocabili
” (Cons Stato, sez. IV, 18 ottobre 2010, n. 7571).

Con specifico riferimento all’art. 1 del Prot. n. 1, va osservato che la Corte EDU non esclude che le leggi aventi effetto retroattivo siano comunque compatibili con il requisito di legalità ivi previsto (cfr. Maggio e altri c. Italia, sez. II, 31 maggio 2003 ric. nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, che richiama Maurice c. France [GC], n. 11810/03, § 81,

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