Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2021-08-05, n. 202105765

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2021-08-05, n. 202105765
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202105765
Data del deposito : 5 agosto 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 05/08/2021

N. 05765/2021REG.PROV.COLL.

N. 00347/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 347 del 2021, proposto da -OMISSIS-in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato D C, con domicilio digitale come da pec da registri di Giustizia;

contro

il Ministero dell’Interno, Ufficio territoriale del Governo - Prefettura di Vibo Valentia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS-, concernente, tra l’altro, il rigetto della domanda di iscrizione nell’elenco di fornitori di beni, prestatori di servizi e esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cd. white list).


Visto il ricorso in appello ed i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno, Ufficio territoriale del Governo - Prefettura di Vibo Valentia;

Vista la memoria depositata dalla -OMISSIS-;

Vista la memoria depositata dal Ministero dell’Interno, U.T.G. - Prefettura di Vibo Valentia in data 22 gennaio 2021;

Viste le note di udienza depositate dalla -OMISSIS-

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza del giorno 29 luglio 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, il Cons. G F e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;

Ritenuto, in fatto e in diritto, quanto segue:


FATTO

1.-OMISSIS-ha impugnato (ricorso n. -OMISSIS-) innanzi al Tar Calabria, sede di Catanzaro, la nota prefettizia n. -OMISSIS-, con la quale è stata rigettata la domanda di iscrizione nell’elenco di fornitori di beni, prestatori di servizi e esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cd. white list).

Aveva dedotto che il provvedimento prefettizio difetta di motivazione, è stato adottato senza i requisiti di legge ed è carente di istruttoria.

2. Con sentenza -OMISSIS-, la sezione prima del Tar Catanzaro ha respinto il ricorso sul rilievo che il provvedimento prefettizio non era irragionevole né sproporzionato, alla luce di una lettura sinottica dei vari elementi raccolti in sede di istruttoria.

3. La sentenza del Tar Catanzaro -OMISSIS- è stata impugnata con appello notificato in data -OMISSIS-.

Il Tar ha, tra le altre cose, erroneamente valorizzato i vincoli familiari di --OMISSIS-, nonostante questi, nella realtà, siano assenti, anche in considerazione del fatto che il marito della nipote di -OMISSIS-sia detenuto in carcere da molti anni.

4. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e l’Ufficio territoriale del Governo - Prefettura di Vibo Valentia, che hanno sostenuto l’infondatezza, nel merito, dell’appello.

5. Con ordinanza -OMISSIS-è stata respinta l’istanza di sospensione della sentenza del Tar Catanzaro -OMISSIS-.

6. All’udienza del 29 luglio 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’articolo 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Al fine del decidere sulla legittimità del diniego di iscrizione nell’elenco di fornitori di beni, prestatori di servizi e esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cd. white list), opposto alla società -OMISSIS- s.r.l. con nota prefettizia n. -OMISSIS-, appare opportuno richiamare la ricostruzione dell’istituto dell’iscrizione nella white list e della interdittiva antimafia e la granitica giurisprudenza elaborata dalla Sezione sui principi cardini di tale misura (ricordati da ultimo con la sentenza 6 maggio 2021, n. 3530), peraltro correttamente richiamata sia in sede amministrativa dalla Prefettura che dal giudice di primo grado.

Il diniego di iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (cd. white list) é disciplinato dagli stessi principi che regolano l’interdittiva antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione (Cons. St., sez. I, 1 febbraio 2019, n. 337;
id. 21 settembre 2018, n. 2241).

Ha chiarito la Sezione (20 febbraio 2019, n. 1182;
24 gennaio 2018, n. 492) che le disposizioni relative all'iscrizione nella cd. white list formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia per le relative misure antimafia (comunicazioni ed informazioni) tanto che, come previsto dall'art. 1, comma 52-bis, l. n. 190 del 2012, introdotto dall'art. 29, comma 1, d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 114 del 2014, "l'iscrizione nell'elenco di cui al comma 52 tiene luogo della comunicazione e dell'informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per la quali essa è stata disposta";
“l'unicità e l'organicità del sistema normativo antimafia vietano all'interprete una lettura atomistica, frammentaria e non coordinata dei due sottosistemi - quello della cd. white list e quello delle comunicazioni antimafia - che, limitandosi ad un criterio formalisticamente letterale e di cd. stretta interpretazione, renda incoerente o addirittura vanifichi il sistema dei controlli antimafia”.

Ciò premesso, costituisce oramai un fatto accertato in più occasioni che vi sia stato, e vi sia tuttora, una evoluzione o ri-direzionamento di metodi e ambizioni delle organizzazioni criminali di tipo mafioso, le quali non paiono più considerare quale primo obiettivo gli attacchi frontali allo Stato ed ai suoi rappresentanti, per infiltrare invece i tentacoli in azioni e progetti per occupare o condizionare settori dell’economia, della gestione dei rifiuti, della politica, non di rado riuscendovi per il tramite di personalità deviate o di personaggi compiacenti, che si pongono sulla labile linea di confine tra legalità ed illegalità (Cons. St., sez. III, 11 maggio 2020, n. 2962).

L’attenzione dell’ordinamento per i fenomeni illeciti che possono interessare lo svolgimento dell’attività imprenditoriale, specialmente nel delicato settore delle commesse pubbliche, è, pertanto, massima, in ragione del disvalore sociale e del notevole danno che l’infiltrazione di soggetti portatori di interessi contrastanti con gli interessi dello Stato-comunità comporta. Ciò giustifica il conferimento, all’Autorità di Pubblica Sicurezza preposta, di un’ampia gamma di poteri da esercitarsi in una fase preventiva rispetto alla causazione del danno (Cons. St., sez. III, 8 luglio 2020, n. 4391).

Le misure qui in rilievo sono volte, in chiave preventiva, a neutralizzare i fattori distorsivi che nell’economia nazionale in genere e nei rapporti con la Pubblica amministrazione, in particolare, possono generare la presenza e l’azione di soggetti in rapporto di collegamento qualificato con il crimine organizzato.

Si tratta di strumenti che si pongono a presidio di valori di rango costituzionale rivelandosi strettamente funzionali alla salvaguardia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato e del corretto utilizzo delle risorse pubbliche e che, a fronte della insidiosa pervasività e mutevolezza del fenomeno mafioso, sono opportunamente calibrati sull’utilizzo di tecniche di tutela anticipata oltre che costruiti su un catalogo di situazioni sintomatiche aperto al costante aggiornamento indotto dalla realtà empirica.

L’Adunanza plenaria (6 aprile 2018, n. 3) ha chiarito che il provvedimento di interdittiva antimafia, di natura cautelare e preventiva, determina una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione . E’, dunque, escluso che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come "affidabile") e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge, ovvero ancora (…) essere destinatario di "contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate".

Nella declinazione applicativa che questa Sezione ha fatto dell’istituto in commento la misura interdittiva, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo sull'esistenza della contiguità dell'impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da fattori sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa sussistere il tentativo di ingerenza nell'attività imprenditoriale della criminalità organizzata.

La verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (quale è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ai fini dell’adozione dell’interdittiva occorre, da un lato, non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata;
d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).

Come di recente ribadito dalla Sezione (27 dicembre 2019, n. 8883, riprendendo un ormai consolidato orientamento del giudice di appello), l’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.

Ha aggiunto la Sezione (n. 8883 del 2019) che lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.

Ha ancora chiarito la Sezione (5 settembre 2019, n. 6105) che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f), d.lgs. n. 159 del 2011), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.

L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.

Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111).

Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame.

Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.

La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).

Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.

Lo stesso Giudice delle leggi ha confermato la legittimità delle disposizioni in materia di interdittiva antimafia. Ha di recente (n. 57 del 26 marzo 2020) affermato – di fatto confermando la giurisprudenza della Sezione – a supportare il provvedimento interdittivo sono sufficienti anche situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale.

Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale;
le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa;
la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dal d.lgs. n. 159 del 2011;
i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”;
i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;
le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa;
la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”;
l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.

2. Ciò preliminarmente chiarito – anche a confutazione dell’ultimo motivo di appello ai fini della corretta applicazione dei principi che governano la materia de qua – il Collegio ritiene che il provvedimento della Prefettura di Vibo Valentia resista ai motivi dedotti dall’appellante.

Il diniego di iscrizione nella white list si fonda principalmente sulle figure del socio unico e zio dell’amministratore unico della società --OMISSIS-, e del suo amministratore unico e direttore tecnico -OMISSIS-.

-OMISSIS- è cugino della moglie (-OMISSIS-) di un esponente apicale della locale `ndrangheta -OMISSIS-

-OMISSIS-è zio materno di -OMISSIS-. Inoltre, egli è socio della -OMISSIS-

3. Con l’atto di appello la società ha controdedotto su molti di tali profili, ma l’impianto motivazionale, seppure depurato di alcuni elementi, nel suo insieme resiste ed è tale da supportare la probabilità che la società stessa subisca l’influenza degli ambienti della criminalità organizzata.

Non va, infatti, sottovalutata la particolare difficoltà che ha caratterizzato, in sede amministrativa, il processo induttivo confluito nell’atto poi impugnato il cui precipuo sforzo, già in via ordinaria, si sostanza proprio nella complessa opera di decriptazione di segni, tracce, indizi di appartenenza organica ovvero anche di collegamenti con realtà che vivono nella clandestinità e si avvalgono della rigida impenetrabilità rinveniente non solo dalle cointeressenze che legano gli affiliati ma anche dalla reazione omertosa che, anche all’esterno, le associazioni criminali generano grazie alla propria elevatissima capacità di intimidazione.

Occorre, poi, soggiungere che lo stesso parametro normativo di riferimento che vale ad orientare la relativa indagine è, come chiarito sub 1, a contenuto aperto in quanto elasticamente declinato in funzione di un risultato da ricostruire sulla scorta di elementi non predeterminati.

In altri termini, l’Amministrazione si è trovata ad operare in un campo di indagine, già di per sé non governato da un canone di riferimento certo ed a contenuto unidirezionale bensì volutamente soggetto ad un’ampia libertà di apprezzamento onde poter intercettare tutte le possibili variabili che possono porre l’economia in rapporto qualificato con la criminalità organizzata.

Ciò nondimeno, il contestato sbilanciamento dell’approdo valutativo verso la tutela anticipata delle esigenze di difesa sociale non può di certo comportare, con inaccettabile pretesa di automaticità, un giudizio di rimproverabilità nei confronti dell’Autorità procedente.

Il teorema sviluppato dall’organo prefettizio sulle possibili implicazioni sottese ai divisati legami non regge al vaglio della giurisprudenza, giustamente garantista, seguita nella sentenza impugnata.

L’astratta plausibilità logica del procedimento di inferenza su cui riposa l’interdittiva non appare, invero, smentita dai rilievi dell’appellata.

Ciò che viene qui in rilievo è, infatti, la tenuta, sul piano della concludenza dimostrativa, del quadro complessivo degli elementi indiziari raccolti, ma non può essere revocata in dubbio la concreta esistenza di elementi di fatto e la loro astratta pertinenza funzionale rispetto ad un giudizio che si dispiega in una logica di anticipazione della tutela speciale propria della misura qui in rilievo.

Come già chiarito, nella materia di che trattasi è proprio la visione di insieme dei diversi fattori ed elementi istruttori che può consentire di coglierne l’esatta portata indiziaria, la quale viceversa rischierebbe di sfuggire ad una loro diagnosi ripartita e atomistica.

Dunque, il metodo della lettura organica e sistematica del quadro istruttorio presenta una indubbia valenza “euristica” - e non puramente descrittiva - laddove capace di far emergere, nella interpolazione di dati apparentemente spuri, una possibile trama di collegamenti e relazioni, fattuali o deduttive, capaci di illuminare la consistenza singola e complessiva degli elementi che compongono l’intero compendio probatorio.

E’ quanto succede nel caso in esame.

Osserva in primo luogo il Collegio che a fronte dell’illustrato intreccio - che riconduce, anche se non in via diretta ed immediata, la -OMISSIS- ad ambienti della criminalità organizzata - poco rileva che le società di cui è socio -OMISSIS-non siano interdette, essendo sufficiente la presenza, nelle stesse, di -OMISSIS-, socio di società interdette, senza che a tale circostanza possa opporsi, in modo determinante, che alla data della costituzione delle stesse, avvenuta nel 2003, le imprese del gruppo -OMISSIS- non fossero state ancora colpite da interdittiva;
è infatti assorbente la circostanza relativa al collegamento.

Non è neanche risolutiva alle ragioni fatte valere dalla società il fatto che alcuni procedimenti penali richiamati nel provvedimento impugnato si siano conclusi con l’assoluzione, e ciò in quanto anche una sentenza di proscioglimento può contribuire a completare il quadro indiziario di legami, coinvolgimenti e collegamenti diretti ed indiretti con esponenti di cosche malavitose. A prescindere, infatti, dalla ragione posta a base della assoluzione e alla motivazione contenuta nella sentenza penale, dalla quale possono emergere in ogni caso elementi fattuali che se non hanno rilevanza penale possono assumerla agli effetti di una interdittiva, è assorbente la considerazione che il fatto un imprenditore può diventi “strumento” operativo della criminalità organizzata denota comunque una particolare “debolezza” rispetto al fenomeno mafioso, in quanto incapace di respingerne le avances (anche soltanto al fine di garantirsi la sopravvivenza economica in una eventuale situazione di difficoltà): circostanza che, in un contesto caratterizzato dalla particolare pervasività delle organizzazioni criminali (costantemente alla ricerca di nuove occasioni di profitto o investimento), integra, già da sola, il “pericolo di condizionamento” che costituisce la ratio del potere interdittivo (Cons. St., sez. III, 30 ottobre 2019, n. 7414).

4. E’ altresì infondato il secondo motivo, avendo il giudice di primo grado, nell’affermare la neutralità di alcune circostanze richiamate dal Prefetto, voluto far riferimento al principio della valutazione non atomistica degli elementi posti a base dell’interdittiva.

Riprendendo quanto chiarito in ordine ad una visione complessiva degli elementi che la Prefettura ha posto a supporto del nuovo provvedimento interdittivo, va ribadito che la legittimità di quest’ultimo si fonda sul principio secondo cui i fatti valorizzati nell’adottarlo devono essere valutati non atomisticamente, ma in chiave unitaria, secondo il canone inferenziale – che è alla base della teoria della prova indiziaria - quae singula non prosunt, collecta iuvant, al fine di valutare l’esistenza o meno di un pericolo di una permeabilità della struttura imprenditoriale a possibili tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, secondo la valutazione di tipo induttivo che la norma attributiva rimette al potere cautelare dell’amministrazione, il cui esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica giurisprudenza di questa Sezione.

5. Non è suscettibile di positiva valutazione neanche il motivo con il quale si afferma la non attualità di alcuni elementi richiamati e il carattere non penale di altri episodi.

E’ sufficiente richiamare il principio, affermato costantemente dalla Sezione, secondo cui i fatti sui quali si fonda tale misura di prevenzione possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Come chiarito recentemente dalla Sezione (20 aprile 2021, n. 3182;
3 marzo 2021, n. 1825;
17 febbraio 2021, n. 1447;
2 gennaio 2020, n. 2;
21 gennaio 2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.

In altri termini, la risalenza del fatto contestato, a meno che non si estrinsechi in una significativa dimensione cronologica (comunque sempre da commisurare alla reale gravità dei fatti contestati), è una circostanza di per sé oggettivamente neutra e comunque non decisiva, dovendo concorrere, al fine di attribuire alla stessa significato liberatorio, fatti e situazioni di segno “positivo” atti a denotare la fuoriuscita o comunque l’estraneità ab origine dell’impresa al contesto criminale (quale potrebbe essere, a titolo esemplificativo, la realizzazione di condotte antagoniste rispetto all’affermazione ed alla diffusione del fenomeno mafioso) (Cons. St., sez. III, 30 ottobre 2019, n. 7414).

6. Quanto alla asserita assenza di rapporti tra -OMISSIS-e la nipote o il marito della stessa (-OMISSIS-), giova ricordare quanto questa Sezione, anche richiamando il recente arresto del giudice delle leggi (26 marzo 2020, n. 57), ha affermato che gli stessi sono da soli sufficienti a supportare il provvedimento interdittivo laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza;
una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti.

Nella specie il richiamo a tali principi non perde di rilievo in conseguenza della asserita assenza di “frequentazioni” e ciò non solo per la mancanza di una prova certa a supporto di tale affermazione ma soprattutto per il grado di pressione che un parente mafioso può esercitare anche a prescindere dagli incontri familiari che caratterizzano le visite tra parenti.

Non rileva neanche che il signor -OMISSIS- sia da tempo in stato di reclusione in carcere per condanna a trent’anni, considerato che non si può escludere che anche da tale stato sia possibile impartire ordini agli uomini appartenenti al clan e gestire gli affari della “famiglia”.

Non è suscettibile di positiva valutazione il motivo dedotto avverso il richiamo alle frequentazioni che il -OMISSIS-- avrebbe avuto con soggetti controindicati, in periodi ormai risalenti nel tempo e senza essere a conoscenza della loro vicinanza agli ambienti della criminalità organizzata.

Vale infatti rilevare che non occorre certo la prova, a fronte delle frequentazioni costituenti il nucleo di tale rete, che i soggetti controindicati o affiliati ai diversi clan intervengano essi stessi nella gestione dell’impresa, poiché proprio il sistema di conoscenze e connivenze, che le mafie abilmente alimentano, consente loro di infiltrarsi nell’economia senza intervenire direttamente, ma servendosi di imprenditori “abbordabili” e disponibili a facilitarne i progetti economici.

Quanto alla attualità delle frequentazioni, poi, si deve rilevare che l’appellante non ha offerto alcuna prova, anche di carattere indiziario, che la vicinanza di -OMISSIS-- a soggetti controindicati si sia interrotta e sia stato quindi reciso quell’insidioso legame che in tale rete di conoscenze, convenienze e connivenze alligna, essendosi limitata a contestare, formalmente, il carattere remoto di tali frequentazioni, ma non già ad addurre elementi che costituiscano o dimostrino una soluzione di continuità o una cesura netta rispetto al passato, cesura che certo non può essere rappresentata o integrata, come a torto assume l’appellante, dal mero trascorrere del tempo, elemento in sé neutro se non corroborato da ulteriori significativi elementi di segno contrario rispetto a quelli indicativi di infiltrazione mafiosa.

7. Non ha, infine, rilevanza la data dell’operazione societaria che ha visto la cessione di quote delle società della -OMISSIS-, le cui società solo in epoca successiva sono state interdette, essendo determinante la circostanza che uno dei soci della -OMISSIS- ha la titolarità di quote in società nella quale figurano, quali soci o amministratori, altri soggetti che sono anche soci o amministratori di società interdette.

8. In conclusione, in applicazione delle suindicate coordinate, deve ritenersi che il provvedimento impugnato in prime cure, lungi dall’essere frutto di un’acritica ed irragionevole applicazione della normativa antimafia, riposa su una molteplicità di elementi – anche al netto di alcuni di essi per i quali meno forte è la valenza probatoria – contraddistinti da sufficiente valore indiziante, tali da consentire di sussumere la fattispecie qui in rilievo nelle esemplificazioni qualificate ricadenti nel nucleo di tassatività sostanziale elaborato dalla giurisprudenza sì da riscontrare, nell’ambito di una necessaria visione di insieme, il principio della probabilità cruciale in virtù del quale il ritenuto rischio di infiltrazione mafiosa si rivela “più probabile che non”.

Gli elementi esaminati dal Collegio e confermati nella loro essenza sono sufficienti ad evidenziare il pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).

9. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.

10. Per i suesposti motivi, l’appello va dunque respinto e va confermata la sentenza del Tar per la Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- che ha respinto il ricorso di primo grado.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

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