Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-02-29, n. 201600840
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Testo completo
N. 00840/2016REG.PROV.COLL.
N. 06385/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello n. 6385/2015 RG, proposto dal Comune di Avetrana (TA), in persona del Sindaco
pro tempore
, rappresentato e difeso dagli avvocati F M e N C, con domicilio eletto in Roma, via Cosseria n. 2, presso l’avv. Placidi;
contro
i sigg. M, M, R e S P, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati F F ed A F, con domicilio eletto in Roma, c.so Vittorio Emanuele II, n. 326;
per la riforma
della sentenza del TAR Puglia – Lecce, sez. III, n. 1177/2015, resa tra le parti sul risarcimento dei danni derivanti dall’acquisizione dei terreni dei sigg. Panisi occupati dal Comune appellante;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio degli intimati sigg. Panisi;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore all'udienza pubblica del 14 gennaio 2016 il Cons. Silvestro M Russo e uditi altresì, per le parti, gli avvocati Morelli, Cavallo, Freni e Falzone;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. – I sigg. M M, R e S P assumono d’esser proprietari jure successionis di alcuni terreni siti in Avetrana (TA), loc. Mascolo, ricadenti in zona C1/d del vigente strumento urbanistico, aventi una superficie complessiva di mq 41.335,00.
I sigg. Panisi dichiarano altresì che tali immobili furono interessati da procedure, anche ablatorie, relative ai piani particolareggiati per le zone C1/c e C1/d in forza della deliberazione del Consiglio comunale n. 9 del 29 marzo 2001, per realizzarvi opere di urbanizzazione primaria e secondaria. I sigg. Panisi rendono noto pure che le relative opere furono colà realizzate, con delibere di Giunta comunale, a partire dallo stesso 2001 in poi, previa dichiarazione di p.u.i.u. e con trasformazione irreversibile dei fondi stessi.
Tuttavia, non è mai seguito alcun atto espropriativo espresso, anche perché, a detta del Comune di Avetrana, le aree dei sigg. Panisi già dalla fine degli anni ’70 sarebbero entrate nel suo possesso, senz’incontrare alcun’opposizione da parte del proprietario, dante causa di questi ultimi. Invero il Comune, avendo acquisito siffatte aree già destinate a viabilità interna dal proprietario nell’ambito d’una lottizzazione abusiva, asserisce di averle destinate al godimento della collettività come tratti viari, inserendole nel sistema di circolazione stradale pubblica e gestendole in tal modo. Sicché su tali aree, a suo avviso, il Comune avrebbe acquistato il diritto reale di uso pubblico già in epoca ben anteriore al 2001, mercé il loro uso uti cives , ininterrottamente esercitato per oltre venti anni.
2. – Nondimeno, i sigg. Panisi si son gravati innanzi al TAR Lecce, con il ricorso n. 1741/2013 RG, a seguito del silenzio serbato dal Comune sul loro atto di diffida e messa in mora del 7 agosto 2013. Essi hanno così chiesto d’accertare l’inerzia della P.A. e di condannarla ad acquisire i terreni in questione, illecitamente occupati. L’adito TAR, con sentenza n. 656 del 26 febbraio 2014, ha riconosciuto sì la natura discrezionale sull’ an del decreto d’acquisizione sanante ex art. 42-bis del DPR 8 giugno 2001 n. 327, accertando però l’obbligo del Comune a statuire espressamente sull’istanza attorea.
In esecuzione di questa sentenza, passata in giudicato, con determinazione dirigenziale n. 3770 del 29 maggio 2014, il Comune di Avetrana ha rigettato l’istanza d’acquisizione sanante di dette aree. Sul punto esso ha precisato che l’intervenuta «… acquisizione del diritto reale d'uso pubblico, perfezionatosi con la protrazione ininterrotta dall'uso stesso per oltre un ventennio…implica… l'esistenza di un titolo idoneo a giustificare l'utilizzazione del bene posseduto …». Ciò pone, a suo dire, «… la fattispecie in esame all'esterno del perimetro applicativo dall'art. 42 bis del DPR 327/2001, in quanto non è configurabile utilizzazione sine titulo in presenza di una posizione di diritto soggettivo formatasi già in epoca antecedente al 2001 …». Pertanto, «… la sussistenza del diritto quesito di uso pubblico delle strade… esclude, per un verso, la presenza delle attuali ed eccezionali esigenze di interesse pubblico da soddisfare che giustificano 1'adozione dell'atto di acquisizione e, per l'altro, l'assenza di valide alternative all'esercizio del potere ablatorio …».
Avverso tal statuizione e per l’integrale esecuzione del giudicato de quo , i sigg. Panisi hanno di nuovo adito il TAR Lecce, con il ricorso n. 1873/2014 RG, deducendo la violazione e l’elusione del giudicato stesso, la violazione dell’art. 42-bis del DPR 327/2001, l’eccesso di potere sotto svariati i profili e la violazione e falsa applicazione della normativa in tema d’usucapione. Il TAR, con la sentenza n. 1177 del 14 aprile 2015, ha respinto sì la domanda di nullità dell’impugnato rigetto per violazione del giudicato, ma l’ha annullato nel merito, poiché si configura nella specie un’illecita occupazione delle aree predette, tale da giustificare sia l'applicazione del citato art. 42-bis, sia la condanna del Comune al risarcimento dei danni.
3. – Appella quindi il Comune di Avetrana, col ricorso in epigrafe, deducendo: A) – la nullità della sentenza per difetto di procedura, poiché l'Adunanza plenaria consente sì al ricorrente, ove non sia soddisfatto dell’attività di riesame dopo l’annullamento, di proporre al Giudice dell'ottemperanza i giudizi paralleli di cognizione e d’esecuzione del giudicato, ma non per questo elide il principio di inderogabilità della competenza funzionale posto dal c.p.a., onde la conversione dell'azione ex art. 32, c. 2 non abilita il Giudice dell’ottemperanza a fissare d’ufficio, proprio a cagione della diversa sua competenza rispetto al Giudice della cognizione, la prosecuzione della causa in quest’ultima sede in assenza di quell'impulso di parte che regola il processo amministrativo e che l’Adunanza plenaria ha ribadito nel riservare al ricorrente il potere di proseguire il giudizio di cognizione avanti al suo Giudice naturale nel termine all’uopo assegnatogli;B) – l’erroneità della sentenza nel merito, vantando il Comune, già alla data della delibera consiliare n. 9/2001, un diritto reale di transito ex art. 825 c.c. (determinato dall’uso pubblico delle predette aree come strade a far tempo dalla fine degli anni ’70) che esclude ogni illecito del Comune e, al più ed ai sensi dell’art. 44 dello stesso decreto n. 327, pone l'obbligo di ristorare il sacrificio imposto al privato con l’apposita indennità là stabilita;C) – la lacunosità della motivazione della sentenza, non sussistendo la contraddittorietà, che il TAR ravvisa, tra l'impianto difensivo fin qui dedotto e l'inclusione delle aree in questione nel piano particellare di esproprio recato dalla delibera n. 9/2001, giacché, in disparte l’assenza d’ogni riferimento del Comune all'usucapione del diritto di proprietà dei beni stessi, l'erronea inclusione di essi nel piano particellare non ne fa certo venir meno il diritto demaniale e, anzi, proprio per questo il Comune non ha mai adottato il decreto di esproprio, sì da rendere inefficace siffatta inserzione nel piano stesso;D) – in via subordinata, la riproposizione espressa dell'eccezione di primo grado sul difetto di giurisdizione di questo Giudice sulla domanda risarcitoria (cfr. pag. 9 della memoria in data 23 gennaio 2015), poiché l’occupazione sine titulo dei beni stessi s’è verificata prima e non per effetto della delibera n. 9/2001 e dunque è una condotta materiale non preceduta dall'esercizio di una pubblica funzione, donde la giurisdizione dell’AGO sul punto.
Resistono in giudizio il sig. Panisi e consorti, che concludono in modo articolato per l’integrale rigetto dell’appello.
Alla pubblica udienza del 14 gennaio 2016, il ricorso in epigrafe è stato trattenuto in decisione dal Collegio.
4. – L’appello non è fondato e va integralmente disatteso per le ragioni di cui appresso, anzitutto con riguardo agli aspetti di rito.
In primo luogo, si disamina il profilo della giurisdizione, che il Comune appellante reputa devoluta all’AGO a cagione del modo meramente materiale (dunque, sine titulo ed a non domino ) con cui apprese i beni dei sigg. Panisi. Il Comune oppone, a fronte della domanda risarcitoria di questi ultimi a causa della mancata legittima espropriazione ed argomentandolo a guisa d’espressa eccezione in primo grado ed in via principale adesso, l’acquisto di tali beni per possesso pacifico ultraventennale del diritto di transito ex art. 825 c.c. (si tratta di strade, a suo tempo abusivamente tracciate, all’interno d’un piano particolareggiato). Ora, già sarebbe dirimente di per sé solo il fatto che i beni dei sigg. Panisi furono inseriti, a torto o a ragione, giustamente o no qui rileva poco, in un piano particellare preordinato all’esproprio approvato con la delibera consiliare n. 9/2001, finora mai revocata o messa in dubbio dal Comune. In tal caso, sarebbe facile replicare ad esso che un tal dato, che non sfociò poi nel conseguente decreto d’esproprio, conferma e non esclude la cognizione di questo Giudice sulla vicenda risarcitoria e, a più forte ragione, sull’indebito rifiuto di provvedere alla definizione dell’acquisto dei beni stessi, se del caso mercé l’art. 42-bis del DPR 327/2001.
Ma il Collegio non sfugge alla questione, in quanto il Comune dice d’aver acquisito tali beni non in forza della delibera n. 9/2001, ma en voie de fait , ossia ben prima di essa (sul finire degli anni ’70 del secolo scorso), senza effusione di pubblico potere e iniziando a possederli pacificamente per più di venti anni prima di quando intervenne la delibera stessa.
Quantunque l’appellante rifugga dal vocabolo « usucapione », di ciò in realtà si tratta, ossia di un (preteso) acquisto, giacché anche i diritti demaniali in re aliena (nella specie, diritti di transito su strade non pubbliche, ma per ragioni di pubblica) possono esser acquisiti dall’ente locale attraverso l’usucapione. Infatti, dagli atti e da quanto dedotto dal Comune, tal servitù ex art. 825 c.c. sarebbe sorta non già per statuizione espressa, per contratto o per il mero fatto della dicatio ad patriam , ma per uso ultraventennale uti cives . Ed è al riguardo jus receptum (cfr., p. es., Cass., II, 17 giugno 2004 n. 11346) come non sia sufficiente al sorgere di una servitù d’uso pubblico su area privata il suo semplice uso di fatto da parte della collettività, occorrendo piuttosto che l'uso risponda alla necessità ed all’utilità d’un insieme di persone agenti come collettività e risulti protratto in modo continuativo e con l'intenzione di agire uti cives per il tempo necessario ad usucapirne il diritto.
Se è così, allora è facilmente opponibile alla tesi dell’appellante il principio, di recente chiarito dalla Sezione (arg. ex Cons. St., IV, 1° settembre 2015 n. 4096), per cui rientra nella giurisdizione di questo Giudice la definizione dell'eccezione d’intervenuta usucapione, avanzata dalla P.A. in una controversia (risarcitoria e/o annullatoria) proposta a causa di un’occupazione illegittima d’un bene di sua proprietà, al solo fine di paralizzarne la domanda ex adverso proposta. Infatti, com’è nel caso in esame ove il Comune afferma tal suo diritto solo per fermare ogni pretesa anche d’acquisizione sanante ex art. 42-bis del DPR 327/2001, non è implicato pure l’accertamento dell'acquisto a titolo originario dell'area ai sensi dell'art. 1158 c.c. Sicché si rende applicabile l’art. 8 c.p.a., onde questo Giudice conosce, pur se in via incidentale e senza efficacia di giudicato, ogni questione incidentale o pregiudiziale, relativa a diritti la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale (nella specie, in giurisdizione esclusiva).
5. – Manifestamente infondata è poi la questione di nullità della sentenza per difetto di procedura.
S’è accennato in premessa che, a favore i sigg. Panisi, il TAR ha dapprima accertato, con forza di giudicato, l’obbligo del Comune di pronunciarsi sull’acquisizione sanante dei loro beni ai sensi del citato art. 42-bis. Quindi, a fronte del rigetto comunale di tal loro istanza, essi hanno ricorso uno actu per l’ottemperanza e per l’annullamento di tal provvedimento. L’adito TAR, chiamata la causa all’udienza camerale del 26 novembre 2014 e nei suoi poteri di Giudice dell'ottemperanza, ha preso atto del concorso di azioni innanzi a sé, una delle quali da decidere con il rito ordinario ed in sede di cognizione e, quindi, ha ritenuto applicabile nella specie l’art. 32 c.p.a. Pertanto, non ha definito il ricorso nella parte relativa alla domanda d’ottemperanza, ma ha disposto d’ufficio la prosecuzione del giudizio all'udienza pubblica del 25 febbraio 2015, in esito alla quale ha reso la sentenza oggidì gravata d’appello.
Si duole allora l’appellante che, quantunque in presenza di azioni soggette a riti diversi si debba applicare il rito ordinario (donde la cancellazione della causa dal ruolo dell’udienza camerale del 26 novembre 2014), il TAR si sarebbe discostato da quanto statuito sul punto dall’Adunanza plenaria (cfr. Cons. St., ad. plen., 15 gennaio 2013 n. 2). A suo dire, il TAR avrebbe «… dispo (sto) erroneamente d'ufficio nella C.C. del 26.11.2014 il cambio di rito ai sensi del primo comma dell'art.32 del c.p.a. …». E ciò nonostante «… tale disposizione non fosse applicabile, in quanto disciplina la diversa ipotesi del cumulo originario o sopravvenuto (motivi aggiunti) di domande o di azioni tutte appartenenti alla competenza funzionale del Giudice della cognizione, con conseguente esclusione dell'interruzione del giudizio fino alla eventuale riassunzione del rapporto processuale spettante esclusivamente alla parte …».
Ora, precisa l’Adunanza plenaria che l’instaurazione di due distinti giudizi, quand’anche derivino da un giudizio d’ottemperanza e, rispettivamente, da uno di cognizione, non elimina la sostanziale unicità di una domanda che presuppone implicitamente la richiesta a questo Giudice non solo di esaminare la natura della patologia dell'atto, ma anche di qualificare correttamente il tipo di azione proposta. È allora ammesso che, affinché vi sia l'unitaria trattazione di tutte le censure a fronte della riedizione del potere conseguente al giudicato, le relative doglianze siano dedotte avanti al Giudice dell'ottemperanza, poiché egli è il Giudice naturale dell'esecuzione della sentenza ed è competente altresì a conoscere della più grave forma di patologia dell'atto, ossia la nullità. In presenza d’una tal opzione processuale, deve anzitutto qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all'ottemperanza da quelle che riguardano il prosieguo dell'azione amministrativa che non è coinvolta dal giudicato, traendone le necessarie conseguenze circa il rito ed i poteri decisori. Sicché, ove il Giudice dell'ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dalla P.A. sia in violazione o in elusione del giudicato, lo dichiara nullo e la domanda di annullamento sarà così dichiarata improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse. Se invece respinge la domanda di nullità, il Giudice deve disporre la conversione dell'azione affinché sia riassunto il giudizio innanzi al competente Giudice della cognizione, a seconda della competenza di questi in base al contenuto della domanda azionata.
Ebbene, è appunto ciò che è accaduto in primo grado, laddove il TAR, nella sua funzione di Giudice dell’ottemperanza, all’udienza camerale fissata a tal ultimo fine ha dapprima esaminato il concorso di azioni contenute nel ricorso. Quindi, deducendo che ciascun’azione apparteneva a riti diversi, ha reputato la prevalenza di quello ordinario ai sensi dell’art. 32, c. 1, c.p.a., che concerne ogni tipo di azione e di rito e non si limita ai soli casi asseriti dall’appellante. Per l’effetto ha fissato l’udienza pubblica di discussione della causa innanzi a se stesso, stante la perfetta coincidenza in quell’unico organo giudiziario delle distinte funzioni di Giudice dell’ottemperanza e di Giudice dell’ordinaria cognizione. Non è punto scorretta tal vicenda, giacché il 30 luglio 2014 era stata depositata, a cura dei patroni degli appellati, la rituale istanza di fissazione d’udienza per il ricorso n. 1873/2014 RG, «… da valere occorrendo quale ricorso per l’annullamento del provvedimento Prot. n. 3770 del 29 maggio 2014 adottato dal Comune di Avetrana …». Scolorano così gli argomenti di quest’ultimo in ordine sia alla necessaria distinzione tra le due competenze funzionali e di rito, sia ad un preteso impedimento della fissazione d’ufficio di siffatta udienza pubblica.
Per un verso, infatti, s’appalesa macchinosa e non congruente alle esigenze di concentrazione del giudizio, sottese al decisum dell’Adunanza plenaria, la necessità d’una scissione tra i due momenti processuali, all’uopo bastando il rispetto del contraddittorio, della prevalenza del rito ordinario e dell’impulso di parte (racchiuso, questo, nell’istanza dei sigg. Panisi del 30 luglio 2014, in atti).
Per altro verso, nemmeno è corretto il richiamo al citato decisum , laddove, secondo il Comune, il Giudice dell’ottemperanza, se rigetta la domanda di nullità, dispone la conversione dell'azione (da esecutiva ad ordinaria) e fissa un termine perentorio entro cui la parte potrà proseguire il giudizio di cognizione. Certo, l’Adunanza plenaria fonda la sua statuizione sull'art. 32, c. 2, I per., c.p.a. , in base al quale «… il giudice qualifica l'azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali …» e la conversione dell'azione in tanto sarà possibile ai sensi del successivo II per., in quanto ne sussistano i presupposti. Ciò serve essenzialmente ad impedire, ai fini della devoluzione della causa alla sede della cognizione, che la relativa azione sia stata proposta non già entro il termine proprio dell' actio iudicati " (dieci anni: art. 114, c. 1, c.p.a., cui rinvia il precedente art. 31, c. 4), bensì entro quello di decadenza ex art. 41. Sennonché tutto questo nella specie è stato rispettato, poiché il TAR ha fatto presente «… che il ricorso di ottemperanza è stato ritualmente notificato al Comune di Avetrana e depositato presso la Segreteria di questo T.A.R. (il 30 Luglio 2014) entro il termine perentorio (dimidiato ex art. 87 terzo comma…) di quindici giorni …», ritenendo pure «… fondate le principali censure prospettate a sostegno della domanda di annullamento… proposta (tempestivamente e in via subordinata) dai ricorrenti …». Tali statuizioni del TAR non paiono seriamente smentite dal Comune stesso, sicché, non essendovi stata alcuna decadenza o violazione del contraddittorio, non v’era e non v’è necessità di trattare separatamente le due citate domande, soprattutto se si tien conto che, in virtù dell’art. 87, c. 4, c.p.a., la loro contestuale trattazione nella pubblica udienza non è motivo di nullità della sentenza.
6. – Psando ora alle questioni di merito, reputa opportuno il Collegio premettere che, con la citata delibera consiliare n. 9/2001, il Comune approvò i piani particolareggiati anche per la zona C1/d, in cui ricadono i beni dei sigg. Panisi.
A tal riguardo, la delibera previde anche: «… di stabilire che l'approvazione del presente piano equivale a dichiarazione di pubblica utilità delle opere previste dallo stesso…;… di fissare in anni 10 (dieci) il tempo massimo entro il quale il piano dovrà essere attuato…;… di stabilire altresì che i lavori e le espropriazioni dovranno avvenire entro 3 (tre) anni dalla data di esecutività della presente deliberazione e termine entro il periodo di validità del piano …». Rettamente, quindi, il TAR inferisce da tal precisa, non smentita, né mai revocata statuizione un dato contrario all’assunto del Comune per cui i beni predetti fossero posseduti da più di venti anni alla data della delibera e, come tali, gravati dalla servitù di transito ex art. 825 c.c.
Infatti, da un lato, tal usucapione non trova conferma, ma è contraddetta dal contenuto della delibera citata, la quale non può esser legittimamente disapplicata neppure dall’Autorità emanante, ma al più riformata in esito ad un formale procedimento di secondo grado in autotutela. Il Comune, com’è noto, può annullare o revocare la delibera stessa, ma non è in grado di travolgere i comportamenti illeciti ad effetti permanenti, né tampoco i fatti compiuti ed ormai irreversibili provocati dalla P.A. appellante per non aver concluso l’espropriazione. Al Collegio s’appalesa allora evidente che il Comune non abbia ben compreso la ragione profonda della statuizione del TAR, laddove riconosce nell'inclusione dei beni dei sigg. Panisi nel citato piano particellare «… l’esplicito riconoscimento del diritto dominicale altrui logicamente incompatibile con l'eccepito perfezionamento dell'acquisto del diritto di proprietà per usucapionem…». A tal riguardo la Sezione, nella sua fondamentale sentenza del 2014 (cfr. Cons. St., IV, 3 luglio 2014 n. 3346), s’è occupata funditus della ragione per cui non è applicabile l'istituto dell'usucapione alla procedura espropriativa, come nella specie, nata o divenuta illegittima. A tutto concedere, potendosi facilmente argomentare alla stregua dell'art. 2935 c.c. —in virtù del quale la prescrizione decorre «... dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere …»—, il dies a quo di un possibile possesso utile a fini di usucapione non potrebbe esser individuato se non a partire dall'entrata in vigore dell’art. 43 del DPR 327/2001 che, com’è noto, a suo tempo aveva determinato il superamento normativo dell'istituto dell'occupazione acquisitiva, di talché nel caso in esame il termine ventennale non sarebbe neppure ad oggi maturato.
In altre parole, i beni occupati dalla P.A. non sono dalla stessa usucapibili, poiché l’apprensione materiale di beni altrui, al di fuori di una legittima procedura espropriativa o di un procedimento sanante (ex art. 42-bis del DPR 327/2001, che è poi quello che hanno chiesto i sigg. Panisi) ed al fine d’integrare il requisito del possesso utile ai fini dell’usucapione, rischierebbe di reintrodurre nell’ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata, peraltro non onerose per la P.A. stessa, visto che la cd. “retroattività reale” dell’usucapione estinguerebbe in pratica anche ogni pretesa risarcitoria.
Dall’altro lato, l’efficacia di detta delibera contraddice l’assunto dell’avvenuta usucapione, giacché il contenuto di essa, riguardando un piano d’espansione urbana semintensiva, con ogni evidenza volle costituire in capo al Comune la proprietà piena delle aree da destinare alla viabilità di zona. Da ciò discese la necessità della loro ablazione in capo ai proprietari, ossia i sigg. Panisi, per cui, anche ad accedere alla tesi attorea in ordine all’intervenuta usucapione (che non è), la predetta contraddizione sussiste, eccome, perché la delibera n. 9/2001, con la dichiarazione di p.u.i.u., intese mutare il titolo da usucapione a proprietà a titolo originario. È appena da osservare che la P.A., ai sensi dell’art. 42 Cost., ben può liberamente godere, come ogni altro soggetto di diritti, di tutti i modi d’acquisto della proprietà, e può divenire proprietaria di un bene al pari del privato e con le regole di diritto comune (cioè, titolare di beni a titolo di dominio privatistico). Ma non s’avvede il Comune, che invece tenta di sminuirne il significato, che con la delibera ha voluto, erroneamente a suo dire (ma è un errore non riconoscibile e finora mai riconosciuto), espropriare un bene tuttora in mano ai privati, esercitando una potestà d’imperio pubblicistica.
Errore c’è stato e c’è tuttora ed è quello del Comune che, una volta iniziata la procedura ablatoria connessa al piano d’espansione, non intese completarla per tempo, né a provvedervi in base all’art. 42-bis del DPR 327/2001, al fine d’acquisire definitivamente anche le aree dei sigg. Panisi. Esse sono indebitamente occupate, al di là del diritto di transito ex art. 825 c.c., in base al nuovo titolo posto dalla citata delibera. Dal che l’inopponibilità di quanto accaduto prima di essa e la manifesta irrilevanza, ai fini dell’applicabilità o meno dell’art. 42-bis del DPR 327/2001 ai beni de quibus , della pretesa usucapione (o, per dirla con l’appellante, dell’acquisito diritto di transito). Scolorano quindi le questioni sulla prova del dies a quo dell’occupazione en voie de fait dei beni ai tempi del dante causa dei sigg. Panisi. E ciò stante l’irrilevanza di tal evento che pure il TAR giustamente sottolinea, affermando che «… l'asserito acquisto per usucapione del (mero) diritto reale di uso pubblico ex art. 825 c.c. sui predetti immobili (altrui)… non sarebbe titolo idoneo ad incidere sull'obbligo della P.A. di acquisire la proprietà dei terreni de quibus (illecitamente sottoposti a procedimento ablatorio, iniziato con la dichiarazione di pubblica utilità, ma mai perfezionato con l'emanazione del decreto finale di esproprio) …».
Al più, l’usucapito diritto di transito, poiché si invera in una servitù imposta, può rilevare ai soli fini indennitari sì, ma del tipo di quello ex art. 44, c. 1 del DPR 327/2001, per cui «… È dovuta una indennità al proprietario del fondo che dalla esecuzione dell'opera pubblica o di pubblica utilità sia gravato da una servitù o subisca una permanente diminuzione di valore per la perdita o la ridotta possibilità di esercizio del diritto di proprietà …». Ma ciò non elide il fatto che il comportamento della P.A., che occupi beni altrui pure in base ad una valida dichiarazione di p.u.i.u. senza adottare il definitivo decreto d’esproprio nei termini di legge, è e resta un illecito permanente che cessa o con la restituzione dei beni, o mediante l’acquisto negoziale o acquisitivo ex art. 42-bis. Ed a tal riguardo, la giurisprudenza di legittimità (cfr., p. es., Cass., sez. un., 19 gennaio 2015 n. 735) ancora da ultimo ha chiarito che è illegittimo l'illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un'opera pubblica non dà luogo all'acquisto dell'area da parte sua, pur quando vi sia stata dichiarazione di p.u.i.u.
È appena da osservare che siffatta acquisizione non estingue alcuna servitù pubblica, stante l’illiceità permanente dell’occupazione sine titulo , mentre nel caso contrario la restituzione dei beni, ove richiesta, non necessariamente comporta la permanenza di tal servitù, in quanto al più la relativa usucapione è iniziata solo dall’entrata in vigore del DPR 327/2001.
2) – Il privato ha allora diritto a chiedere la restituzione del terreno, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno;3) – egli ha diritto pure al risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall'eventuale occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno, almeno fino alla restituzione o fino a quando non chieda il risarcimento del danno per equivalente.
7. – In definitiva, l’appello va rigettato. Le spese del presente giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.