Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2013-07-02, n. 201303551
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N. 03551/2013REG.PROV.COLL.
N. 07965/2005 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7965 del 2005, proposto da:
P T, rappresentata e difesa dagli avv. B B e L C, con domicilio eletto presso l’avv. L C in Roma, via G. Gioacchino Belli n. 60;
contro
ASUR - Azienda Sanitaria Unica Regionale – zona territoriale n. 1 Pesaro, rappresentata e difesa dagli avv. G T e L R, con domicilio eletto presso l’avv. G T in Roma, via Poma n. 2;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. MARCHE - ANCONA n. 00125/2005, resa tra le parti, concernente diniego riconoscimento causa di servizio
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di ASUR - Azienda Sanitaria Unica Regionale – zona territoriale n. 1 Pesaro;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 giugno 2013 il Cons. Angelica Dell'Utri e uditi per le parti gli avvocati Colantoni e Ruggeri;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
La dott. Teresa P, medico anestesista già in servizio dal 1977 al 1990 presso il reparto di anestesia e rianimazione dell’Ospedale “San Salvatore” di Pesaro, chiedeva il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio, con liquidazione dell’equo indennizzo, delle infermità conseguenti ad “adenocarcinoma tubarico di II grado infiltrato” e “litiasi biliare”. Con parere del 9 febbraio 1993 la Commissione medica ospedaliera (C.M.O.) presso l’Ospedale militare di Perugia giudicava dipendente da causa di servizio la prima infermità e non dipendente la seconda, ma in data 19 novembre 1993 il Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie (C.P.P.O.) negava il nesso di causalità. Con deliberazione 24 maggio 1996 n. 270 il Direttore generale l’ASL n. 1 di Pesaro, di appartenenza, recepiva il parere del C.P.P.O. e respingeva l’istanza di equo indennizzo. Detta deliberazione ed il sottostante parere erano impugnati dall’interessata davanti al TAR per le Marche, il quale, acquisita la disposta verificazione eseguita da sanitari operanti presso la cattedra di medicina legale della facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Ancona, con sentenza 4 febbraio 2005 n. 125, non notificata, ha respinto il ricorso.
Di qui l’appello in epigrafe, notificato i giorni 29 settembre e 3 ottobre 2005, depositato l’11 seguente, col quale la dott. P ha dedotto:
1.- Illegittima, insufficiente ed illogica motivazione dei provvedimenti impugnati. Violazione di legge rispetto ai precetti di cui al d.P.R. n. 394/94 (art. 8, co. 3) ed eccesso di potere per insufficiente ed incongrua motivazione nonché per illogicità del provvedimento finale rispetto ai presupposti endoprocedimentali.
2.- Esistenza del nesso di causalità/concausalità nell’insorgenza della malattia contratta dalla ricorrente.
L’appellante ha concluso per l’accoglimento del gravame o, in via istruttoria e subordinata, la riconvocazione della commissione medico legale affinché fornisca chiarimenti sull’interazione sinergica tra i tre diversi fattori (radiazioni ionizzanti, prive di controllo per almeno sei anni lavorativi;gas anestetici, di cui si chiede l’accertamento della valenza immunodepressiva;stress lavorativo, già individuato come agente potenzialmente idoneo ad agire come concausa nella neoplasia) della esposizione.
L’Azienda Sanitaria Unica Regionale (ASUR) - zona territoriale n. 1 Pesaro, subentrata all’ASL, si è costituita in giudizio ed ha svolto difese.
Con memorie del 20 novembre 2009 e 22 aprile 2013 la dott. P ha insistito nelle proprie tesi e richieste, in subordine istando anche per l’ammissione di CTU integrativa in ordine agli articolati quesiti.
DIRITTO
Com’è esposto nella narrativa che precede, si controverte del mancato riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di un’infermità derivante da una patologia neoplastica sofferta dall’attuale appellante dott. T P, già medico anestesista presso l’Ospedale San Salvatore di Pesaro dal 1977 al 1990, positivamente valutata dalla C.M.O. ma non dal C.P.P.O., al cui parere si è conformata l’Amministrazione di appartenenza che, pertanto, ha respinto la richiesta di equo indennizzo.
In linea generale, va ricordato che la giurisprudenza, pure della Sezione, è assolutamente pacifica nell’affermare come, nelle controversie aventi ad oggetto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle infermità sofferte da pubblici dipendenti, anche ai fini della liquidazione dell'equo indennizzo, il sindacato che il giudice della legittimità è autorizzato a compiere sulle determinazioni assunte dagli organi tecnici deve necessariamente intendersi limitato ai soli casi di travisamento dei fatti e di macroscopica illogicità, nonché alla verifica della regolarità del procedimento. Tanto in ragione del carattere delle valutazioni espresse dagli organi tecnici ai quali la normativa vigente attribuisce la competenza in materia, in relazione alle conoscenze specialistiche richieste.
Inoltre, si è ritenuto che in sede di liquidazione dell'equo indennizzo l'amministrazione è tenuta a recepire ed a far proprio il parere espresso dal C.P.P.O. (ora Comitato di verifica per le cause di servizio), il quale è l'organo consultivo a cui, nel procedimento preordinato alla verifica dei presupposti per la liquidazione del suddetto beneficio, l’ordinamento affida il compito di esprimere il giudizio conclusivo sull'eziologia professionale dell'infermità del pubblico dipendente con una valutazione che assorbe i giudizi espressi sulla questione da altri organi precedentemente intervenuti, quale la C.M.O.. Ciò tenuto conto della particolare competenza tecnica dei suoi componenti, tale da fornire ogni auspicabile garanzia circa l'attendibilità della determinazione assunta, nonché anche al fine di assicurare uniformità di trattamento e d'indirizzo. Pertanto, l’amministrazione ben può assumere tale parere come motivazione unica della propria determinazione finale, mentre uno specifico obbligo sussiste solo nel caso in cui ritenga di non potervi aderire (per l'evidente mancata valutazione di elementi diversi di cui dispone o per evidenti omissioni o violazioni delle regole procedimentali).
In particolare, anche recentemente è stato ribadito che, ove l'amministrazione intenda uniformarsi al giudizio medico-legale del C.P.P.O., non deve indicare le ragioni che l'hanno indotta a preferire il parere del Comitato anziché quello della C.M.O., dal momento che il giudizio dello stesso Comitato svolge una funzione di sintesi e di composizione dei diversi pareri resi dagli organi intervenuti nel procedimento, attraverso la riconduzione a principi comuni delle attività svolte dalle commissioni mediche intervenute nel procedimento, sicché non è configurabile alcuna contraddittorietà nel caso di contrasto fra le valutazioni espresse dal Comitato e quelle espresse in precedenza da altri organi (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. III, 18 aprile 2013 n. 2195 e 27 gennaio 2012;sez. VI, 24 febbraio 2011)
In applicazione dei principi ricordati appena sopra, l’appello in esame deve ritenersi infondato.
In primo luogo, per quanto innanzi è palese che, come ritenuto dal primo giudice, non sussiste la violazione da parte dell’Azienda dell’art. 8, co. 5, del d.P.R. 20 aprile 1994 n. 349 (applicabile ratione temporis ), il quale infatti, nel precisare che il parere del C.P.P.O. non è vincolante ai fini della decisione finale, dispone che l’amministrazione “è tenuta a motivare le ragioni per le quali, eventualmente, decide di discostarsene”, dunque non quando, come nella specie, vi aderisca.
Quanto, poi, al giudizio espresso nella fattispecie in esame dal C.P.P.O., stante le descritte caratteristiche dell’organo e le finalità di legge del suo intervento nel procedimento, non è configurabile in capo al medesimo la violazione di alcun obbligo di espressa motivazione rispetto al parere della C.M.O.. Del resto, il terzo comma del citato art. 8, richiamato dall’appellante, concerne non già il caso di divergenza da quest’ultimo, ma quello di difformità dalla determinazione dell’ufficio del personale, ossia un’ipotesi di cui qui non si discute.
Né in tale giudizio si ravvisano evidenti vizi logici o travisamento dei fatti, anzi esso ha trovato pieno conforto negli esiti esposti nella relazione della verificazione medico-legale disposta in primo grado.
A sua volta, la relazione esamina attentamente e pone in rapporto tra loro i tre possibili fattori di rischio, costituiti dall’esposizione ai gas anestetici, dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti e dallo stress lavorativo, per pervenire alla conclusione, pur alla luce delle più recenti conoscenze scientifiche ed epidemiologiche (di cui si citano ampiamente le fonti bibliografiche), che “non è possibile ricostruire la sussistenza di un rapporto di causalità, dal punto di vista naturalistico, fra la neoplasia (…) e l’attività di medico ospedaliero anestesista della Dott.ssa P”.
In altri termini, la relazione comprova l’assenza nel giudizio del C.P.P.O. di palesi illogicità o di manifesti errori tecnici o di fatto, il resto rientrando nell’alveo della insindacabilità delle espressioni di tipica discrezionalità tecnica, oltretutto caratterizzata da un certo grado di opinabilità laddove, come nel campo medico-legale, non si faccia applicazione di principi definitivamente acquisiti di scienze esatte.
Di qui l’irrilevanza, da un lato, delle affermazioni contenute nella perizia di parte e, dall’altro lato, di un’ulteriore approfondimento istruttorio mediante consulenza tecnica d’ufficio o, in subordine, la riconvocazione della commissione medico legale di prime cure, invocate dall’appellante.
Invero, quanto al fatto che dal 1977 al 1983 la dott. P non sia stata munita di dosimetro personale e, quindi, non sia stata considerata la sua esposizione a radiazioni ionizzanti in quel periodo, ciò non dimostra affatto l’implausibilità del ripetuto giudizio (e della relazione di verificazione), non essendo stato peraltro fornito alcun elemento circa una maggiore e più intensa esposizione rispetto agli anni successivi.
Circa, poi, i pretesi “probabili effetti immunodepressivi” dei gas anestetici allegati dall’appellante, che sostiene da apprezzarsi in sinergia con gli altri due fattori, compreso quello da stress lavorativo già riconosciuto dal verificatore (e dal primo giudice) come avente una qualche valenza (in quanto “indebolisce la risposta immunitaria”, ancorché “di entità non sufficiente a configurare il valore di concausa efficiente e determinante”), la stessa perizia di parte, pur concordando che non sia nota un’attività carcinogenetica delle sostanze, espone come ne sia stata “segnalata una attività di immunodepressione che potrebbe giocare un ruolo importante nel facilitare lo sviluppo di una neoplasia in presenza di fattori (Radiazioni ionizzanti) capaci di indurne l’insorgenza”: ciò, all’evidenza, del tutto genericamente ed ipoteticamente.
D’altra parte, e risolutivamente, nella relazione di verificazione si legge che per la rarissima patologia da cui l’interessata è stata colpita “non sono riportati in letteratura fattori di rischio specifici, se non quelli generici di tipo infiammatorio cronico associati ad una stimolazione estrogenica endogena o esogena” e, con specifico riferimento all’esposizione a radiazioni ionizzanti o di natura elettromagnetica, si precisa che detta patologia riguarda tessuto “che ha una radiosensibilità media”.
In conclusione, la sentenza appellata va integralmente condivisa e, pertanto, l’appello dev’essere respinto. Tuttavia, tenuto conto della materia trattata e della peculiarità dell’infermità suaccennata, nonché dell’annosità della vicenda, si ravvisano ragioni affinché possa essere disposta la compensazione tra le parti delle spese del grado.