Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-01-10, n. 201200016

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2012-01-10, n. 201200016
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201200016
Data del deposito : 10 gennaio 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 04156/2010 REG.RIC.

N. 00016/2012REG.PROV.COLL.

N. 04156/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4156 del 2010, proposto da:
S I, rappresentato e difeso dall'avv. A A, con domicilio eletto presso A A in Roma, via degli Avignonesi, 5;

contro

Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dagli avv. A P, G T, con domicilio eletto presso Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;
Comune di Napoli in persona del Sindaco quale Ufficiale del Governo, Ministero dell'Interno, in persona dei rispettivi legali rappresentanti in carica, tutti rappresentati e difesi dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, sono ope legis domiciliati;

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. della CAMPANIA – Sede di NAPOLI- SEZIONE V n. 09557/2009;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Napoli e del Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 dicembre 2011 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati A A, G T e l’ Avvocato dello Stato Luca Ventrella;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado era stato chiesto dalla odierna appellante S I, proprietaria di alcuni immobili siti in Napoli alla Via Calata Capodichino, n. 203/G, l’annullamento dei provvedimenti resi dal Comune di Napoli, con i quali essa era stata diffidata ad eseguire ad horas verifiche sugli immobili, nonché le opere provvisionali di assicurazione strettamente necessarie ad eliminare il pericolo derivante dai rischi di ulteriore evoluzione di evento franoso interessante il costone in oggetto”, nonché “a non praticare i luoghi pericolanti” e per la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni cagionati al proprio immobile.

Si assumeva, in particolare, che l’evento franoso che aveva interessato i propri immobili e dato causa al provvedimento impugnato era in realtà ascrivibile all’amministrazione comunale, in considerazione del fatto che il distacco dal terrapieno naturale riguardava terreni - al confine nord tra la particella 740 e le particelle 148 e 150 del catasto terreni- che erano di esclusiva proprietà del Comune di Napoli cui pertanto sarebbe spettata l’esecuzione di ogni necessaria attività di messa in sicurezza dell’area.

Il Tribunale amministrativo regionale, in sede di delibazione sulla domanda cautelare di sospensione della esecutività del provvedimento impugnato ha definito la causa nel merito, dichiarando improcedibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Ciò perché era stata acquisita una nota proveniente dall’amministrazione comunale (prot. 1145 del 13 ottobre 2009 del Servizio Sicurezza Geologica e Sottosuolo)con la quale si dava atto che il costone pozzolanico interessato dall’evento franoso occorso in data 1 luglio 2009 rientrava tra i cespiti del patrimonio del Comune di Napoli (particelle 148 e 150) “cui spettava, pertanto, l’onere dei lavori di messa in sicurezza”.

Ne discendeva che il gravame doveva essere dichiarato improcedibile, mentre la domanda risarcitoria avrebbe dovuto essere proposta in un successivo e separato giudizio.

Avverso la sentenza in epigrafe l’ originaria ricorrente ha proposto un articolato appello evidenziando che la motivazione della impugnata decisione era apodittica ed errata.

In particolare essa ha sostenuto che erroneamente si era dichiarata la improcedibilità del mezzo di primo grado per sopravvenuta carenza di interesse valorizzando all’uopo una nota interna dell’amministrazione del 13 ottobre 2009 – diretta ad altro ufficio dell’amministrazione comunale-.

Senonchè, al più detta nota poteva assumere valenza confessoria della infondatezza del presupposto in base al quale si era ordinato all’odierna appellante di eseguire i lavori.

Essa non poteva essere considerata atto di autotutela, in quanto era ivi carente qualsivoglia espressa indicazione in ordine all’avvenuta revoca, ovvero ritiro od annullamento del comando impositivo contenuto nel provvedimento gravato.

Ne discendeva che l’appellante - in quanto destinataria dell’illegittimo ordine di esecuzione dei lavori mai revocato e gravato in primo grado - avrebbe potuto essere destinataria delle sanzioni (anche penali, ex art. 650 del codice penale) incombenti sui soggetti inottemperanti alle ordinanze comunali contingibili ed urgenti. Da ciò conseguiva che permaneva il proprio interesse a ricorrere e che la sentenza di primo grado era certamente errata.

L’architetto Improta ha poi riproposto tutti i motivi di censura già prospettati nel mezzo di primo grado e non esaminati dal primo giudice attingenti il contenuto del provvedimento impugnato evidenziando che lo stesso – a dispetto delle difese dell’amministrazione comunale che lo aveva qualificato qual semplice nota interna non impositiva di obblighi- rientrava nel genus delle ordinanze contingibili ed urgenti disciplinato dall’art. 54 del d.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267.

In quanto tale era illegittimo per carenza dei presupposti e doveva essere annullato.

Essa ha riproposto la domanda risarcitoria già contenuta nel ricorso di primo grado stigmatizzando la omessa pronuncia del primo giudice sul punto provvedendone a quantificare le voci sia con riferimento al danno emergente (riposante nelle lesioni arrecate al proprio immobile dall’evento franoso, ascrivibile alla responsabilità del comune di Napoli proprietario dell’area dal quale era scaturito) che al lucro cessante, relativo alla perdita della disponibilità del proprio immobile adibito ad uso commerciale rapportandolo alla redditività media degli immobili sull’area (richiedendo eventualmente che questo Collegio d’appello disponesse consulenza tecnica d’ufficio ove ritenuto necessario).

Essa ha puntualizzato e ribadito le proprie censure depositando due memorie di replica, sostenendo di avere anche chiesto i danni da inidonea manutenzione dell’area, e replicando alle difese del comune secondo cui non si era in presenza di una ordinanza

contingibile ed urgente.

L’amministrazione centrale del Ministero dell’Interno ha depositato una memoria chiedendo che venisse dichiarato il proprio difetto di legittimazione passiva in quanto il Sindaco non aveva agito nella qualità di ufficiale di governo.

In ogni caso ha evidenziato che la domanda risarcitoria era stata avanzata unicamente nei confronti dell’amministrazione comunale, di guisa che essa non poteva essere chiamata a risponderne.

L’appellata amministrazione comunale ha depositato una memoria chiedendo la reiezione dell’appello sostenendo che il ricorso di primo grado era stato proposto per errore in quanto l’odierna appellante aveva equivocato il contenuto della nota impugnata.

Essa, infatti, non poteva ascriversi al genus delle ordinanze

contingibili ed urgenti e – oltre a non essere diretta all’appellante- non aveva a questa imposto l’esecuzione di alcuna opera, essendo la diffida ivi contenuta limitata unicamente all’obbligo di non praticare le aree interessate al fenomeno franoso per evitare pericoli alle persone.

All’adunanza camerale del 18 maggio 2010 fissata per la trattazione dell’incidente cautelare la Sezione con ordinanza n. 2649/2010 ha accolto l’istanza di sospensione della esecutività dell’appellata decisione in considerazione della circostanza che “che l’appello appare “prima facie” fondato quanto alla erronea dichiarazione di improcedibilità del ricorso di primo grado e che, sussistendo tanto il “fumus” quanto il “periculum”, va sospesa l’efficacia del provvedimento oggetto del giudizio, limitatamente, peraltro, alla sola parte in cui esso impone alla ricorrente l’esecuzione ad horas di lavori di manutenzione, fermo restando l’ordine di sgombero dell’immobile di proprietà della stessa, ch’ella non ha alcun interesse a veder sospeso, attesa la perdurante “attuale pericolosità dello stato dei luoghi” ammessa nello stesso atto di appello;”.

Alla odierna pubblica udienza del 13 dicembre 2011 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.L’appello è infondato e va respinto nei termini di cui alla motivazione che segue.

1.1. In via preliminare deve essere disattesa la domanda di estromissione dal processo avanzata dall’amministrazione centrale del Ministero dell’Interno che ha sostenuto il proprio difetto di legittimazione passiva: a prescindere dalla circostanza che essa è fondata su circostanze non provate (è rimasto indimostrato che il Sindaco non avesse agito in qualità di Ufficiale di Governo) essa non ha alcun concreto interesse in proposito posto che la domanda risarcitoria non è stata avanzata nei suoi confronti, ma soltanto in pregiudizio dell’amministrazione comunale (si veda quanto espressamente affermato a pag. 13 del mezzo di primo grado laddove si era chiesta la condanna “del comune di Napoli”).

2. Quanto alla statuizione di improcedibilità resa in primo grado, essa appare al Collegio corretta. Si rammenta in proposito che per pacifica giurisprudenza il presupposto perché venga adita la tutela giurisdizionale riposa nell’interesse alla decisione, derivante da una lesione (né paventata né futura né inattuale) ad una posizione giuridica attiva tutelata dall’ordinamento.

Come è noto, in base ai principi generali in materia di condizioni dell’azione, desumibili dall’art. 24, co. 1°, della Costituzione (<<tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi) e dall’art. 100 c.p.c. (<<per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi un interesse>>), l’interesse processuale presuppone, nella prospettazione della parte istante, una lesione concreta ed attuale dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio e l’idoneità del provvedimento richiesto al giudice a tutelare e soddisfare il medesimo interesse sostanziale.

In mancanza dell’uno o dell’altro requisito, l’azione è inammissibile.

Sarebbe infatti del tutto inutile, ai fini giuridici, prendere in esame una domanda giudiziale se nella fattispecie prospettata non si rinvenga affermata una lesione della posizione giuridica vantata nei confronti della controparte, ovvero se il provvedimento chiesto al giudice sia inadeguato o inidoneo a rimuovere la lesione.

In definitiva, come chiarito dalla migliore dottrina processualcivilistica, <<l’interesse ad agire è dato dal rapporto tra la situazione antigiuridica che viene denunciata e il provvedimento che si domanda per porvi rimedio mediante l’applicazione del diritto, e questo rapporto deve consistere nella utilità del provvedimento, come mezzo per acquisire all’interesse leso la protezione accordata dal diritto>>
(cfr., altresì, Cass. Civ., Sez. III, n. 12241/98).

Nel processo amministrativo l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che qualificano l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., vale a dire dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 1210/97).

Anche nel sistema giurisdizionale amministrativo, infatti, sarebbe del tutto inutile eliminare un provvedimento o modificarlo nel senso richiesto dal ricorrente, se questi non possa trarne alcun beneficio concreto in relazione alla sua posizione legittimante.

Ai fini dell’ammissibilità del ricorso, occorre pertanto, che sussista piena corrispondenza tra interesse sostanziale dedotto in giudizio, lesione prospettata e provvedimento richiesto.

A contrario, il ricorso è inammissibile per carenza di interesse in tutte le ipotesi in cui l’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo non sia in grado di arrecare alcun vantaggio all’interesse sostanziale del ricorrente (che ne “legittima” l’instaurazione del giudizio).

Inoltre, l’interesse al ricorso, in quanto condizione dell’azione, deve sussistere sia al momento della proposizione del gravame, che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in relazione a ciascuno di tali momenti (cfr. C.d.S., Sez. VI, n. 475/92).

2.1.Nel caso di specie ritiene il Collegio che tale interesse non permanesse al momento della pronuncia di primo grado ancorchè l’amministrazione non avesse emesso alcun espresso provvedimento di ritiro dell’atto gravato.

E’ pur vero che la nota interna dell’amministrazione del 13 ottobre 2009 – diretta ad altro ufficio dell’amministrazione comunale - non può essere considerata atto di autotutela, in quanto era ivi carente qualsivoglia espressa indicazione in ordine all’avvenuta revoca, ovvero ritiro od annullamento del comando impositivo contenuto nel provvedimento gravato.

Va riscontrato però che -contrariamente a quanto sostenutosi nell’appello - non sussisteva alcuna situazione di incertezza circa gli obblighi di cui l’odierna appellante era destinataria.

Va rammentato infatti che la nota comunale impugnata in primo grado prescriveva incombenti a carico dei proprietari di immobili insistenti su via Francesco Feo, Calata Capodichino 205 in relazione al costone pozzolanico interessato al crollo imponendo agli stessi di eseguire, ad horas, “verifiche ed opere provvisionali di assicurazione”.

Detta nota fu fatta visionare ai proprietari predetti (tra cui l’appellante) e quest’ultima fu invitata ad eseguire quanto ivi prescritto (vedasi verbale di diffida del 13 agosto 2009).

Non è rilevante indagare sulla natura giuridica della nota predetta, e verificare se essa potesse essere ascritta al genus delle ordinanze contingibili ed urgenti.

Quale che ne fosse la natura, infatti, la predetta nota n. 811 recava la indicazione che i detti incombenti sarebbero stati necessari (e di conseguenza sarebbero stati imposti ai privati destinatari) unicamente laddove si fosse accertato che il comune non era proprietario del costone.

E’ evidente pertanto che la predetta nota impugnata, unitamente alla diffida ivi contenuta, conteneva espressamente una condizione di subordinazione della sua operatività prescrittiva legata ad un requisito (la non titolarità dell’area da parte del comune) espressamente enunciato ed insussistente in punto di fatto.

Pertanto dalla stessa nessun onere poteva discendere in capo al destinatario in quanto il contenuto della diffida era subordinato ad un dato (inesistenza della titolarità dell’area in capo al comune) insussistente (e che la stessa appellata sapeva essere non esistente).

2.2. Il Collegio non ignora che per la costante giurisprudenza di legittimità penale la inottemperanza all’ordinanza sindacale impositiva di urgenti opere edili al fine di evitare pericolo di crollo integra certamente condotta omissiva penalmente rilevante, essendosi in proposito rilevato che “la contravvenzione prevista dall'art. 650 c.p. (inosservanza dei provvedimenti dell'autorità) e consistente nella mancata ottemperanza al provvedimento di urgenza del sindaco che imponga l'esecuzione delle opere necessarie ad evitare il pericolo di crollo di una costruzione, mentre è assorbita da quella di cui all'art. 677 comma 3 stesso codice (omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina), non lo è con riguardo alla violazione, già costituente reato e ora depenalizzata, contemplata dal comma 1 di quest'ultimo articolo.” (Cassazione penale , sez. I, 05 giugno 2002 , n. 25796, ma anche Cassazione penale , sez. I, 04 dicembre 2000 , n. 7008 e

Cassazione penale , sez. I, 19 giugno 1996 , n. 7764).

Senonchè, una piana lettura della nota in oggetto, consente di affermare che nessun obbligo fu imposto sic et simpliciter ai privati destinatari della diffida, ma che il presupposto dello stesso riposava, espressamente, nella non titolarità dell’area in capo al comune: e che detta situazione era insussistente in punto di fatto di guisa che dalla nota impugnata nessun obbligo poteva discendere e l’appellante non avrebbe avuto interesse a gravarla, neppure sotto il profilo della possibilità che potessero sulla stessa discendere responsabilità penali laddove non vi avesse ottemperato.

2.2. La statuizione del primo giudice si appalesa esatta ed immune da censure

3. Sotto altro profilo, e per mera aspirazione alla completezza espositiva in relazione a qunto dedottosi nell’appello, si evidenzia che neppure l’interesse a ricorrere poteva permanere quanto al petitum risarcitorio proposto (in termini assai generici e privo di quantificazione) in primo grado e più compiutamente reiterato in appello.

Esso infatti – nei termini in cui era ed è formulato- avrebbe comunque dovuto essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione anche laddove mai fosse stata ravvisata la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante a gravare la nota dell’amministrazione comunale (e la stessa fosse stata annullata in accoglimento del mezzo di primo grado).

3.1. L’appellante infatti non ha articolato un petitum risarcitorio che individuava quale causa del danno i provvedimenti impugnati in primo grado (comunque rimasti ineseguiti), ma aveva ascritto i danni asseritamente subiti ad un evento naturale (lo smottamento del costone, con conseguenti lesioni arrecate all’immobile di propria pertinenza) ed alla perdita di disponibilità del proprio immobile che era derivata dallo stato di pericolo creatosi (mai negando, si badi, la insussistenza dello stato di pericolo e la conseguente intrinseca illegittimità del provvedimento che inibiva la frequentazione dell’area, come peraltro lucidamente colto dalla Sezione in sede cautelare).

Anche nella memoria di replica in ultimo depositata, l’appellante fa presente (pag. 9) di lamentare “l’intero pregiudizio derivante dagli smottamenti di terreno causati dalla cattiva manutenzione del fondo di proprietà comunale sia per i danni strutturali subiti dal proprio immobile sia per la impossibilità di potere locare lo stesso”.

Come è agevole riscontrare, non si è ipotizzata una responsabilità da provvedimento, o da omessa adozione di provvedimento, o da comportamento concludente rispetto ad attività provvedimentale, ma una causazione di danno ascrivibile all’amministrazione comunale in quanto proprietaria dell’area ove si originò lo smottamento (né più e ne meno di ciò che sarebbe accaduto laddove il proprietario di detta area fosse stato un privato).

Il petitum proposto, quindi, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, e ad analoghe conclusioni si deve pervenire anche laddove il titolo causale della asserita responsabilità dell’amministrazione proprietaria dell’area è stato ravvisato in una negligente condotta manutentiva ovvero nell’omesso apprestamento delle precauzioni necessarie ad evitare le conseguenze della frana.

Anche il danno derivante dalla perdita di disponibilità dell’immobile è ricollegabile al detto evento naturale e non è stato prospettato in via autonoma, posto che l’appellante non ha censurato i provvedimenti di inibizione all’area a fini cautelativi in quanto affetti da vizi propri (considerandoli, evidentemente, in parte qua quali atti dovuti a fronte del pericolo effettivamente creatosi né ha ipotizzato la insussistenza delle condizioni per disporre la detta “messa in sicurezza delle aree) ma si è lamentata unicamente della circostanza che gli oneri di ripristino e messa in sicurezza erano stati alla stessa direttamente imposti.

3.2. Rammenta il Collegio che la condivisibile giurisprudenza della Corte regolatrice della giurisdizione ha ritenuto in un caso analogo (Cassazione civile , sez. un., 20 ottobre 2006 , n. 22521) che “a seguito della sentenza della Corte cost. n. 204 del 2004 l'inosservanza da parte della p.a., nella sistemazione e manutenzione di una strada (così come di ogni suolo pubblico), delle regole tecniche, ovvero dei comuni canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato davanti al g.o., sia quando tenda a conseguire la condanna ad un "facere", sia quando abbia per oggetto la richiesta del risarcimento del danno patrimoniale, giacché una siffatta domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell'Amministrazione, bensì un'attività materiale soggetta al rispetto del principio generale del "neminem laedere": nella specie, alla stregua dell'enunciato principio, le S.U., risolvendo un conflitto reale negativo di giurisdizione, hanno affermato la sussistenza della giurisdizione del g.o. in relazione alla cognizione di una domanda di risarcimento danni proposta da privati in ordine agli effetti materiali negativi di cui aveva risentito la loro proprietà in dipendenza di una frana originantesi da un terrapieno posto a confine e realizzato, su suolo pubblico, per il deposito di rifiuti e materiali di riporto, così incentrando il loro "petitum" unicamente sulla condotta dell'ente pubblico, di cui si contestava la liceità, proprio in quanto si assumeva che il danno al loro patrimonio costituiva conseguenza del comportamento omissivo e colposamente inerte del Comune convenuto, che non aveva provveduto al risanamento statico di detto terrapieno (Cassazione civile , sez. un., 20 ottobre 2006 , n. 22521).

3.3. Il Collegio non ritiene di discostarsi da tale condivisibile approdo ermeneutico, il che comprova vieppiù la insussistenza di qualsiasi interesse dell’appellante alla coltivazione del ricorso di primo grado, che esattamente è stato dichiarato improcedibile.

3. Le spese sostenute dalle parti devono essere compensate sussistendo le condizioni di legge.

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