Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2011-06-30, n. 201103883

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2011-06-30, n. 201103883
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201103883
Data del deposito : 30 giugno 2011
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05684/2006 REG.RIC.

N. 03883/2011REG.PROV.COLL.

N. 05684/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5684 del 2006, proposto dalla signora T I, rappresentata e difesa dall'avvocato G F, con domicilio eletto presso il signor S F in Roma, via S. Tommaso D'Aquino, n. 116;

contro

Il Ministero dell'interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA – MILANO, sezione prima, n. 934/2006, resa tra le parti, concernente una destituzione dal servizio


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 maggio 2011 il Cons. Rosanna De Nictolis e udito per il Ministero appellato l’avvocato dello Stato Nicoli;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. L’appellante, già vice sovrintendente della polizia di Stato, con sentenza del Tribunale di Sanremo del 9 ottobre 2001 veniva condannata per i reati di cui agli artt. 326 e 368 c.p. (rivelazione di segreto d’ufficio e calunnia).

La sentenza veniva confermata prima dalla Corte di appello e poi dalla Corte di Cassazione.

2. A seguito di comunicazione della sentenza della Cassazione, l’Amministrazione avviava il procedimento disciplinare, che si concludeva con la destituzione della dipendente.

3. L’interessata proponeva ricorso al Tar Lombardia – Milano,

contro

:

- il provvedimento 7 luglio 2005 recante la destituzione;

- l’atto di contestazione degli addebiti notificatole il 1° marzo 2005;

- la deliberazione del consiglio provinciale di disciplina del 15 giugno 2005.

3.1. Ella lamentava:

a) la tardività dell’inizio del procedimento disciplinare, poiché, essendo il dies a quo il 5 novembre 2004, data della comunicazione della sentenza della Cassazione, da esso decorreva il termine di 90 giorni di cui all’art. 5, co. 4, l. n. 97/2001, sicché sarebbe tardiva la contestazione degli addebiti intervenuta solo il 1° marzo 2005;

b) la violazione degli artt. 12 e 14 del d.P.R. n. 737/1981, in quanto l’atto di contestazione indicherebbe anche una proposta in ordine alla sanzione da infliggere;

c) la violazione del ne bis in idem , in quanto la rivelazione di segreto d’ufficio sarebbe già stata in precedenza sanzionata con la deplorazione;

d) il difetto di istruttoria e di motivazione, nonché la sproporzione della sanzione.

4. Il Tar adito, con la sentenza 4 aprile 2006, n. 934, ha respinto il ricorso, osservando che:

a) entro il termine per l’avvio del procedimento disciplinare, l’atto di contestazione degli addebiti andrebbe solo adottato, non anche notificato;

b) l’atto di contestazione degli addebiti descriverebbe le violazioni disciplinari, ma non conterrebbe alcuna proposta di sanzione;

c) non vi sarebbe la violazione del principio del bis in idem perché la sanzione della destituzione sarebbe stata inflitta solo per la calunnia;

d) il provvedimento sarebbe correttamente motivato e istruito, e la sanzione proporzionata alla gravità dell’infrazione.

5. Ha proposto appello l’originaria ricorrente, ritualmente e tempestivamente notificato e depositato.

6. Con il primo motivo, l’appellante contesta il primo capo di sentenza e osserva che non è in contestazione il dies a quo per l’avvio del procedimento disciplinare, vale a dire la data del 5 novembre 2004 in cui la sentenza della Cassazione è stata comunicata all’Amministrazione.

Partendo da tale dies a quo , tuttavia, entro 90 giorni l’atto di contestazione degli addebiti non poteva essere solo adottato, ma doveva essere anche comunicato all’interessata. L’atto, datato 31 gennaio 2005, è stato comunicato solo il 1° marzo 2005.

6.1. Il mezzo va respinto, ma con motivi diversi da quelli indicati dal Tar.

Va infatti condiviso che:

- il procedimento disciplinare inizia con l’atto di contestazione degli addebiti [Cons. St., ad. plen., 14 gennaio 2004 n,. 1];

- la contestazione degli addebiti è atto recettizio [Cass. civ., sez. lav., 21 luglio 2008 n. 20074;
Cons. St., sez. VI, 13 maggio 2002 n. 2550];

- per rispettare il termine massimo di inizio del procedimento disciplinare, l’atto di contestazione degli addebiti deve non solo essere adottato, ma anche comunicato al destinatario [Cons. St., sez. VI, 4 settembre 1998 n. 121], atteso che la ratio legis di un termine massimo di avvio del procedimento disciplinare è evitare che il dipendente sia sine die sottoposto al potere disciplinare, ratio che verrebbe facilmente elusa e vanificata se si ritenesse sufficiente l’adozione, e non anche la comunicazione, dell’atto di contestazione degli addebiti.

Tuttavia, erra la ricorrente nell’individuazione della norma applicabile, e in particolare nel ritenere che il termine massimo per iniziare il procedimento disciplinare sia di novanta giorni, ai sensi dell’art. 5, co. 4, l. n. 97/2001.

Invece, il termine massimo per iniziare il procedimento disciplinare è di 180 giorni ai sensi dell’art. 9, co. 1, l. n. 19/1990.

La giurisprudenza ha infatti chiarito che il termine di 90 giorni di cui all'art. 5, co. 4, l. n. 97/2001, trova applicazione solo per le condanne relative ai reati indicati nell'art. 3, l. n. 97/2001, dovendosi in tal senso intendere la dizione "sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell'art. 3" contenuta nell'art 5, co. 4 della suddetta legge (si tratta dei delitti previsti dagli artt. 314, co. 1 , 317, 318, 319, 319-ter e 320 c.p. e dall'art, 3, l. 9 dicembre 1941 n. 1383). Negli altri casi di condanna per ogni diversa fattispecie di reato, non rientrante tra quelle espressamente nominate dalla norma suddetta, trova applicazione l'art. 9, co. 2, l. n. 19/1990, che prevede, per la prosecuzione del procedimento disciplinare sospeso o per la sua promozione, il diverso termine di 180 giorni, decorrente dalla data in cui l'Amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna (Cons. St., sez. VI, sent. 16 ottobre 2006 n. 6126).

Dovendosi applicare il termine di 180 giorni, decorrente dal 5 novembre 2004, l’avvio del procedimento disciplinare con contestazione degli addebiti notificata il 1° marzo 2005 è tempestivo.

7. Con il secondo motivo di appello si ripropone la censura di violazione degli artt. 12 e 14, d.P.R. n. 737/1981.

Si assume che l’atto di contestazione degli addebiti conterrebbe anche una proposta di sanzione.

7.1. La censura è infondata.

L’art. 12, ult. co., d.P.R. n. 737/1981, nel prevedere che “il rapporto deve indicare chiaramente, e concisamente tutti gli elementi utili a configurare l'infrazione e non deve contenere alcuna proposta relativa alla specie e all'entità della sanzione”, si riferisce non già all’atto di contestazione degli addebiti, bensì al rapporto che l’organo competente a rilevare le infrazioni disciplinari fa all’organo competente ad infliggere la sanzione.

Per converso, ai sensi dell’art. 14, co. 1, d.P.R. n. 737/1981, la contestazione degli addebiti “deve indicare succintamente e con chiarezza i fatti e la specifica trasgressione di cui l'incolpato è chiamato a rispondere”.

A tale prescrizione l’atto di contestazione degli addebiti si è in concreto attenuto, in quanto descrive i fatti e afferma che essi appaiono configurare la mancanza di cui all’art. 7, nn. 1, 2, 3, 4, d.P.R. n. 737/1981.

E’ insito nel sistema normativo che le trasgressioni siano descritte in uno con la previsione delle pertinenti sanzioni.

8. Con il terzo motivo di appello si ripropone la censura di violazione del divieto di bis in idem .

8.1. Essa è infondata.

Per i fatti consistenti nella rivelazione di segreto d’ufficio la ricorrente era già stata in precedenza sanzionata in sede disciplinare con la deplorazione (provvedimento del 23 ottobre 1998).

Successivamente è stata emessa la sentenza di condanna penale passata in giudicato per i reati di rivelazione di segreto d’ufficio e di calunnia.

Dall’esame degli atti del procedimento disciplinare si desume con chiarezza che l’Amministrazione, nell’esercitare il potere disciplinare dopo la condanna penale, ha inteso agire disciplinarmente solo per la calunnia e non anche per la rivelazione di segreto d’ufficio, già sanzionata con la deplorazione.

L’illecito contestato, come si evince dal provvedimento di destituzione, è infatti il seguente “nel tentativo di sottrarsi a responsabilità penali e disciplinari per aver rivelato un segreto d’ufficio, denunciava i propri superiori accusandoli falsamente di azioni che non avevano commesso”.

E’ evidente che non viene sanzionata la rivelazione di segreto d’ufficio, che costituisce mero fatto storico presupposto, per nascondere il quale l’interessata commetteva un ulteriore reato, quello di calunnia.

Negli stessi termini sono le conclusioni dell’istruttoria (atto del 22 marzo 2005), in cui si legge: “ chiara e precisa è la contestazione, non per la rivelazione di atti d’ufficio, ma unicamente per quanto accaduto in seguito, e cioè il tentativo di calunniare i superiori, al fine di sottrarsi alle proprie responsabilità”.

9. Con il quarto motivo di appello si lamenta violazione dell’art. 21, d.P.R. n. 737/1981, per difetto di istruttoria e di motivazione, perché il provvedimento non terrebbe in debito conto la condizione psico - fisica dell’interessata, ovvero la capacità di intendere e di volere.

9.1. La censura è infondata.

Il provvedimento impugnato e la presupposta proposta del consiglio di disciplina sono ampiamente motivati e istruiti.

Dovendosi avere riguardo alla data di commissione dell’illecito disciplinare e non alla data di irrogazione della sanzione disciplinare, era del tutto irrilevante la attuale condizione psico - fisica della ricorrente, peraltro neppure adeguatamente comprovata (atteso che nel corso del procedimento disciplinare l’interessata ha solo sollevato questioni di ordine formale, ma non ha fornito alcuna giustificazione sostanziale della propria condotta).

10. In conclusione l’appello va respinto.

Le spese del secondo grado di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate in euro millecinquecento, avuto riguardo alla natura della controversia.


Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi