Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2015-03-24, n. 201501577

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2015-03-24, n. 201501577
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201501577
Data del deposito : 24 marzo 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 07457/2013 REG.RIC.

N. 01577/2015REG.PROV.COLL.

N. 07457/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7457 del 2013, proposto da:
-OMISSIS-,
rappresentato e difeso dagli avv.ti G A e S T, con domicilio eletto presso lo studio legale Titomanlio-Abbamonte, in Roma, Via Terenzio n. 7;

contro

Ministero dell'Interno,
costituitosi in giudizio, per legge rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. LAZIO – ROMA - SEZIONE I TER n. 04138/2013, resa tra le parti, concernente destituzione dal servizio.

Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'art. 52 del D. Lgs. 30.06.2003, n. 196, commi 1 e 2;

Relatore. nell'udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2015. il Cons. Angelica Dell'Utri;

Uditi per le parti, alla stessa udienza, gli avvocati Laudadio, su delega dichiarata di Abbamonte, e dello Stato Tito Varrone;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

A seguito di esecuzione nei suoi confronti di ordinanza di custodia cautelare, a carico dell’odierno appellante, agente scelto della Polizia di Stato all’epoca in servizio presso la Sottosezione della Polizia stradale di Caserta Nord, venne disposta la sospensione cautelare dal servizio a decorrere dal 9 luglio 2001, poi cessata a decorrere dal 9 luglio 2006.

Con sentenza n. 908/2007 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il medesimo veniva condannato alla pena di anni 5 e mesi 8 di reclusione per i reati di cui agli artt. 416 (associazione per delinquere), 110, 317 (concussione) e 319 (corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio) cod. pen., con interdizione perpetua dai pubblici uffici e pene accessorie ex artt. 31 quater e 32 quinquies cod. pen..

Con sentenza n. 5582/2009 della Corte di appello di Napoli, in riforma della predetta pronuncia, l’imputato era assolto dal reato di cui all’art. 416 c.p. e, riconosciute le attenuanti di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., la pena è stata rideterminata in anni 2 e mesi 10 di reclusione, con revoca dell’estinzione del rapporto di pubblico impiego, dichiarazione di interdizione temporanea dai pubblici uffici per anni 1 e sospensione condizionale della pena.

Con sentenza n. 493/2012 della Corte di cassazione, ricondotta la fattispecie di concussione a quella di corruzione, la sentenza di secondo grado è stata annullata senza rinvio per estinzione dei reati per prescrizione.

Promosso il procedimento disciplinare, con decreto in data 21 dicembre 2012 del Capo della Polizia, è stata disposta nei confronti del dipendente l’applicazione della sanzione disciplinare della destituzione a decorrere dal 9 luglio 2001 ed è stato dichiarato non utile ad ogni fine il periodo di sospensione cautelare ed utile il servizio espletato di fatto dal 10 luglio 2006 alla data di notifica dello stesso decreto.

Quest’ultimo è stato impugnato dall’interessato davanti al TAR per il Lazio, sede di Roma, che, con sentenza in forma semplificata 24 aprile 2013 n. 4138 della sezione prima ter, notificata il 16 luglio 2013, ha respinto il ricorso.

Con atto inoltrato per la notifica il 2 ottobre 2013 l’originario ricorrente ha appellato l’indicata sentenza, deducendo:

1.- Error in iudicando . Totale travisamento dei fatti e presupposto erroneo per falsa ed erronea applicazione degli artt. 13 e 20 d.P.R. 737/81.

2.- Error in iudicando . Violazione e falsa applicazione art. 13 d.P.R. 737/81. Totale travisamento dei fatti e presupposto erroneo.

Il Ministero dell’interno si è costituito in giudizio e, con memoria del 10 gennaio 2015, ha svolto controdeduzioni.

L’appello è stato introitato in decisione all’udienza pubblica dell’11 febbraio 2015.

DIRITTO

Com’è esposto nella narrativa che precede, si controverte della sanzione disciplinare irrogata a carico dell’odierno appellante, agente scelto della Polizia di Stato all’epoca in servizio presso la Sottosezione della Polizia stradale di Caserta Nord, già sottoposto a giudizio penale conclusosi con sentenza 14 settembre 2012 n. 493 della Corte di cassazione, con la quale la sentenza di secondo grado, parzialmente confermativa della condanna di primo grado quanto ai reati di concussione e corruzione in concorso, è stata annullata senza rinvio “perché i reati sono estinti per prescrizione”, previa riconduzione della fattispecie di concussione a quella di corruzione.

Col primo motivo, l’appellante si duole, sotto un iniziale profilo, del fatto che il TAR ha respinto la propria censura di violazione dell’art. 20 del d.P.R. 25 ottobre 1981 n. 737 ravvisando la legittimità dell’adozione della delibera del Consiglio di disciplina a maggioranza, mentre egli avrebbe inteso far valere con tale doglianza non un vizio non procedimentale, quanto piuttosto un vizio sostanziale, quanto alla formazione del processo volitivo di tale Collegio;
ciò nel senso che, sussistendo dubbi e posizioni differenziate all’interno dello stesso, il Consiglio di disciplina sarebbe dovuto pervenire a differenti valutazioni circa la valenza disciplinare dei fatti oggetto della pronuncia di prescrizione. A suo avviso, infatti, proprio la circostanza che le condanne in primo e secondo grado sono state annullate, sia pure per prescrizione, non sarebbe stata adeguatamente valorizzata in tale sede.

Rileva in proposito il Collegio che siffatta doglianza era ben diversamente articolata in primo grado, in cui il ricorrente si limitava a lamentare il mancato rispetto del diritto di voto dei membri di minoranza, che “sarebbe stato necessario e saggio ascoltare attentamente”;
e, di qui, il parimenti mancato rispetto del suo diritto ad un’equa decisione sul suo comportamento, in violazione del principio di proporzionalità e gradualità.

Non vi era, dunque, alcun cenno all’esigenza di una “valorizzazione” degli effetti della sentenza della Corte di cassazione, sicché per questo aspetto la censura deve ritenersi inammissibile ai sensi dell’art. 104, co. 1, cod. proc. amm.

Peraltro, da un lato non v’è dubbio sulla legittimità dell’assunzione della deliberazione a maggioranza assoluta (tuttavia solo con riguardo alla scelta della sanzione, per il resto il Consiglio essendosi espresso all’unanimità), le posizioni di minoranza risolvendosi nella normale dialettica collegiale;
e la volontà dell'organo deliberante, correttamente formatasi a maggioranza, risulta coerente con la costruzione logico-motivazionale posta a base del provvedimento così formatosi.

Dall’altro lato, per pacifica giurisprudenza, nei confronti di un dipendente che è stato assolto dal reato contestato solo per intervenuta prescrizione l’Amministrazione ben può procedere all'instaurazione di un procedimento disciplinare ed alla irrogazione di una (eventuale) sanzione, all'esito di una valutazione sulla gravità dei fatti che hanno determinato il giudizio penale (cfr., tra le più recenti, Cons. St., sez. III, 2 luglio 2014, n. 3324 e 7 luglio2014, n. 3445).

Nella specie, poi, la stessa sentenza della Corte di cassazione non ha mancato di definire “inconsistenti” le doglianze del signor -OMISSIS- in ordine alla sua non provata partecipazione ad uno dei due episodi contestati, rilevando però che, non avendo l’autotrasportatore subìto alcuna coercizione o pressione, il medesimo episodio andava ricondotto “nell’area della corruzione propria”, mentre per l’altro episodio ha osservato che “con logici argomenti dettati dalla lettura delle chiare captazioni foniche” la sentenza impugnata aveva evidenziato “elementi che non lasciano margini di dubbio sulla avvenuta consegna di denaro agli agenti da parte del camionista quale corrispettivo degli omessi controlli sul suo veicolo”.

Dunque, anche se di estinzione dei reati per prescrizione, la sentenza che non sarebbe stata valorizzata non elide, anzi evidenzia quanto accertato nei sottostanti gradi circa l’effettiva sussistenza dei fatti penalmente rilevanti, che essa stessa ha posto a base della derubricazione da concussione a corruzione propria antecedente, riconoscendone poi l’intervenuta prescrizione.

Dal canto suo, il Consiglio di disciplina ha rivalutato il materiale probatorio (finanche le risultanze delle intercettazioni ambientali) sia sotto il profilo dell’esistenza “con ragionevole certezza che l’inquisito svolgesse un ruolo attivo” nei fatti addebitati, anche mediante comportamenti concludenti;
sia sotto quello della loro rilevanza ai fini disciplinari, evidenziando “l’uso distorto, da parte dell’inquisito, delle proprie attribuzioni”, pervenendo alla “opinione unanime di questo consesso che non esista dubbio sulla circostanza che l’inquisito abbia tratto dei profitti illeciti dalla strumentalizzazione dei propri doveri, utilizzando in modo ‘deviato’ gli strumenti posti a sua disposizione dall’Amministrazione di appartenenza” e traendo da tali fatti, nonché da quanto emerso in sede di trattazione orale, la conclusione che emergesse “un basso profilo morale dell’inquisito, con conseguente apprezzabile pregiudizio all’immagine dell’Amministrazione della P.S., in quanto la condotta da questi posta in essere è in stridente contrasto con le funzioni alto profilo demandate dall’ordinamento giuridico ad ogni operatore di Polizia;
sia, infine, in ordine alla qualificazione ai fini disciplinari del censurato comportamento come “gravissima mancanza del senso dell’onore e del senso morale”, in “contrasto con i doveri di fedeltà e legalità assunti con il giuramento”, con la “volontà di abusare della pubblica funzione per fini di illecito arricchimento personale” (laddove “a nulla rileva la modesta entità delle utilità acquisite in termine di diminuzione della gravità del comportamento posto in essere”) e con conseguente “considerevole e permanente pregiudizio per l’Amministrazione della P.S.”.

Per le considerazioni appena esposte non può essere condiviso neppure il profilo del primo motivo d’appello con cui, nell’imputare al primo giudice di non essersi avveduto di come l’Amministrazione abbia omesso ogni autonomo apprezzamento, si insiste sul dato che essa si sia limitata a recepire acriticamente le risultanze penali;
di contro, come risulta da quanto sopra, l'Autorità procedente, pur movendo dalla doverosa disamina degli atti del giudizio penale, ha assolto pienamente all'onere di operare una autonoma e completa ricostruzione dei fatti, mutuando le risultanze processuali acquisite nel giudizio penale, modulando sulle stesse l'istruttoria amministrativa e procedendo all'autonoma e discrezionale valutazione della loro rilevanza sotto il profilo disciplinare.

Con ulteriore profilo del primo motivo d’appello e col secondo ed ultimo motivo, l’appellante, nel contestare sia l’affermazione del TAR circa l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione nella materia disciplinare sia la statuizione di reiezione della proprie censure di violazione dell’art. 13 del d.P.R. n. 737 del 1981 e difetto di motivazione, ribadisce come, ai fini dell’applicazione dei principi di gradualità e proporzionalità della sanzione, non siano state valutate, secondo i parametri prescritti dal cit. art. 13, tutte le cc.dd. circostanze attenuanti, i precedenti disciplinari e di servizio, il carattere, l’età, l’anzianità di servizio, la condotta successiva, il recupero morale ed ogni altro elemento suscettibile di attenuare la responsabilità disciplinare, ivi compresi la speciale tenuità dei fatti in parola e dell’offesa, nonché il lungo tempo decorso dai medesimi fatti e la loro occasionalità, sicché l’affermazione dell’Amministrazione di non poterlo trattenere in servizio sarebbe aprioristica e stereotipata e si tradurrebbe in una sanzione sproporzionata.

Aggiunge, infine, che per reati non colposi ben può essere irrogata la mera sospensione dal servizio, come nel caso di altro agente coinvolto nello stesso processo penale, con conseguente ingiustificata disparità di trattamento.

Come correttamente ricordato dal primo giudice, nel procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti l'Amministrazione è titolare di un'ampia discrezionalità in ordine alla valutazione dei fatti addebitati al dipendente, circa il convincimento sulla gravità delle infrazioni addebitate e sulla conseguente sanzione da infliggere, in considerazione degli interessi pubblici che devono essere tutelati attraverso tale procedimento.

In tale quadro, il provvedimento disciplinare sfugge ad un pieno sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, non potendo in nessun caso quest'ultimo sostituire le proprie valutazioni a quelle operate dall'Amministrazione, salvo che le valutazioni siano inficiate da travisamento dei fatti ovvero il convincimento non risulti formato sulla base di un processo logico e coerente (cfr. Cons. St., sez. III, cit. n. 3324 del 2014, nonché, ex multis , sez. VI, 21 maggio 2009 n. 3125 e sez. IV, 14 febbraio 2008 n. 512).

Nella specie, le ampie ed esaustive argomentazioni del Consiglio di disciplina in ordine alla specifica gravità nel caso concreto degli accennati episodi di corruzione commessi in servizio anche in rapporto alle lesione dell’immagine e del decoro dell’Amministrazione, richiamate nel provvedimento di destituzione che a sua volta ne espone di concordanti, non solo non consentono di configurare un difetto di motivazione, ma risultano scevre da ogni vizio di irrazionalità ed incoerenza, con conseguente piena giustificazione della sanzione espulsiva applicata.

La sanzione deve, pertanto, ritenersi non manifestamente sproporzionata.

Tanto anche in considerazione degli elementi a favore valutabili a norma dell’invocato art. 13, essendo perfettamente logica la loro recessività a fronte della particolare antigiuridicità ed antiteticità della condotta di cui trattasi ( che del tutto logicamente il provvedimento espulsivo definisce come “indicativa di totale distacco dai principi deontologici condivisi” ) e delle circostanze in cui si è manifestata, rispetto non semplicemente alle regole disciplinari, ma alla stessa essenza dei valori dell’ordine e della sicurezza pubblica sociale affidati alla tutela dell’appartenente alla Polizia di Stato.

Del resto il Consiglio di disciplina, come si è visto, e poi l’Autorità decidente si sono fatti carico della valutazione di tali elementi, ivi compresa la tenuità dei profitti ricavati dagli illeciti.

In particolare, nel decreto espressamente si considera che le circostanze valutabili a favore enunciate dall’art. 13, “dopo attenta disamina di ciascuna di esse”, non siano in grado di “sminuire la gravità della condotta addebitata al soggetto, conclamata dagli elementi accertati nell’istruttoria disciplinare ed in sede penale, ponderata alla luce dei precedenti disciplinari ed indicativa di totale distacco dai principi deontologici condivisi dall’Amministrazione”;
conclusione, questa, in perfetta coerenza col ridetto art. 13, il quale richiede di tener conto (senza imporne, ovviamente, la testuale indicazione una per una) di “tutte le circostanze attenuanti, dei precedenti disciplinari e di servizio del trasgressore, del carattere, dell'età, della qualifica e dell'anzianità di servizio”, ma prescrive di “sanzionare con maggior rigore le mancanze commesse in servizio o (…) indicanti scarso senso morale”.

Né risulta manifestamente irragionevole l'irrogazione della sanzione in relazione al tempo trascorso dagli episodi che avevano originato l’azione penale, considerato che il procedimento disciplinare ha avuto luogo solo dopo la conclusione della lunga vicenda processuale proprio a tutela del dipendente, al fine di porre a base dello stesso accertamenti in fatto dotati del rigore e della in equivocità tipici della vicenda penale.

Opinare diversamente equivarrebbe a privare l’Amministrazione dello stesso potere disciplinare ogni volta che sia esercitato all’esito di un giudizio penale, il quale solitamente si protrae notevolmente nel tempo.

Infine, quanto alla censura di disparità di trattamento rispetto al collega, basta rilevare che essa è, come l’altra di cui si è detto, inammissibile perché avanzata per la prima volta in questa sede.

In conclusione, l’appello non può che essere respinto.

Come di regola, le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

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