Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-06-25, n. 201004107

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-06-25, n. 201004107
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201004107
Data del deposito : 25 giugno 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 03706/2004 REG.RIC.

N. 04107/2010 REG.DEC.

N. 03706/2004 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 3706 del 2004, proposto dalla s.r.l. Geoeco Italia., nella persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati G D P, G L, C M e C N, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato G L in Roma, via Costabella 23;

contro

Comune di Peschici, in persona del sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato F L, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale G. Mazzini, 6;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. PUGLIA - BARI: SEZIONE II n. 4488/2003, resa tra le parti;


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 aprile 2010 il Cons. Antonino Anastasi e udito l’avvocato Manzia;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Nell’anno 1978 il comune di Peschici ha stipulato con la s.p.a. I.A.G.A.R. una convenzione di lottizzazione concernente terreni dislocati in località “Manaccora”.

Nella convenzione la lottizzante si impegnò a cedere gratuitamente al comune le aree necessarie per la realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria e a realizzare a proprie spese le stesse nel termine massimo di cinque anni.

Nella convenzione era altresì previsto che la società avrebbe conseguito, dietro pagamento di un corrispettivo, la gestione delle dette opere per il decennio seguente alla consegna in mano pubblica.

La società non ha però realizzato alcune delle opere previste in concessione ( asilo nido e scuola materna) ed ha invece utilizzato di fatto le strutture destinate a scopi commerciali.

Su proposta della parte privata il Consiglio comunale, nel luglio del 1990, al fine di dirimere la relativa controversia, ha approvato un accordo nel quale si prevedeva l’ulteriore utilizzazione da parte della società delle strutture commerciali, per un decennio decorrente dalla cessione al comune delle stesse e comunque al più tardi dal 1 gennaio 1991.

Nel febbraio del 2000 la s.p.a. I.A.G.A.R. ha poi ceduto il villaggio turistico nel quale insistono le aree in controversia alla odierna appellante “

GEOECO

Italia S.R.L.” alla quale nel giugno del 2001 si è rivolto il comune per ottenerne il trasferimento in proprietà.

Per parte sua la società, con nota del luglio del 2001, ha richiesto al comune di poter continuare ad utilizzare dette opere a titolo oneroso per la stagione in corso.

Accolta l’istanza, il comune ha nuovamente insistito – senza alcun positivo esito - per la formalizzazione della consegna.

Dopo aver inutilmente adito il giudice ordinario, il quale ha declinato la giurisdizione, il comune ha quindi proposto ricorso al T.A.R. Bari, domandano l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 cod. civ. degli obblighi assunti dalla dante causa della odierna appellante.

In via incidentale il comune ha anche richiesto il sequestro giudiziario ante causam di taluni dei beni interessati, ottenendolo – dopo l’espletamento di una C.T.U. – in relazione a due edifici polifunzionali e alla struttura del teatro all’aperto.

Infine con la sentenza in epigrafe indicata il ricorso comunale è stato accolto, con trasferimento al patrimonio indisponibile dell’ente dei beni già sottoposti a sequestro e con condanna della società al pagamento di una somma correlata all’utilizzo a titolo oneroso delle stesse per la stagione estiva dell’anno 2001.

La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello all’esame dalla Geoeco Italia s.r.l., la quale ne ha chiesto l’annullamento previa sospensione dell’esecutività ai sensi dell’art. 33 della legge n. 1034 del 1971.

Si è costituito in resistenza il comune di Peschici.

Con ordinaza n. 2686 del 2004 la Sezione ha respinto l’istanza cautelare.

Le parti hanno presentato memorie, insistendo nelle già rappresentate conclusioni.

All’udienza del 9 aprile 2010 l’appello è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

L’appello non è fondato è va pertanto respinto, con integrale conferma della sentenza gravata.

Con il primo motivo di impugnazione la società appellante torna a sostenere che il diritto azionato in giudizio dal comune si era in realtà prescritto.

Evidenzia l’appellante in tal senso che la nota in data 30 giugno 1990, con la quale il comune richiese alla società dante causa il rilascio delle opere in controversia, non era idonea ad interrompere il decorso del termine di prescrizione, necessitando a tal fine uno specifico atto di costituzione in mora o in alternativa – come precisato in memoria- la proposizione di una domanda giudiziale ex art. 2943 cod. civ..

Sotto un diverso e dirimente profilo, l’appellante osserva poi che in realtà la normativa applicabile applicabile alla controversia è quella, di stampo prettamente pubblicistico, concernente l’attuazione dei piani particolareggiati, ai quali le convenzioni di lottizzazione sono assimilabili: ne consegue che la richiesta del comune si sarebbe dovuta avanzare, ai sensi delle prescrizioni della legge urbanistica fondamentale in tema di efficacia degli strumenti urbanistici attuativi, nel termine massimo di un decennio dalla stipula della convenzione.

Le deduzioni ora sinteticamente compendiate non sono atte ad infirmare la piena coerenza, l’oggettivo spessore e l’analitica completezza dell’iter logico motivazionale che sottende il decisum di primo grado.

Questo Collegio ritiene infatti del tutto condivisibili le ragioni giuridiche in base alle quali la sentenza impugnata perviene a fissare al 23 settembre 1983 la data di originaria decorrenza della prescrizione;
al 30 giugno 1990 la data di interruzione della stessa da parte del comune;
al 31 dicembre 2000 la data in cui è venuto meno il titolo gestorio attribuito in sede transattiva alla società dante causa dell’appellante e quindi l’inesigibilità della prestazione;
al 1° gennaio 2001 la data in cui ha definitivamente preso a decorrere un nuovo termine di prescrizione decennale del diritto di credito del comune alla cessione delle opere.

In via pregiudiziale, occorre peraltro rilevare che le opposte considerazioni svolte al riguardo dall’appellante sono comunque da respingere, in quanto risulta dagli atti del fascicolo di primo grado che la società, come evidenzia il comune appellato, con nota del suo legale rappresentante in data 9 luglio 2001, ebbe a richiedere all’amministrazione di poter utilizzare a titolo oneroso ( per la stagione allora in corso) le opere di urbanizzazione secondaria per le quali si controverte.

Anche a voler seguire l’impostazione dell’appellante (la quale individua in sostanza il mese di settembre del 1988 quale data di scadenza del termine di prescrizione ordinaria), con la suddetta domanda la società non può non avere rinunciato alla prescrizione stessa, asseritamente maturatasi.

Infatti, come insegna la giurisprudenza, la rinuncia tacita o implicita alla prescrizione (art. 2937, comma terzo, cod. civ.) si verifica allorché sussista, come indubbiamente nel caso all’esame, una incompatibilità assoluta tra il comportamento del debitore e la volontà dello stesso di avvalersi della causa estintiva del diritto altrui ( ex multis Cass. Civ., sez. III, n. 3371 del 2010).

In termini concreti, il comportamento della società che richiede di gestire un bene a titolo oneroso, e cioè dietro pagamento al comune di un canone all’epoca quantificato in lire quaranta milioni, è infatti del tutto incompatibile con la volontà di disconoscere la pretesa del soggetto attivo del rapporto obbligatorio.

Non può quindi in alcun modo seguirsi la difesa dell’appellante, quando afferma che il comportamento della lottizzante non ha in realtà denotato alcuna volontà di considerare come esistente un diritto altrui invece già estinto.

Per completezza, e per concludere sul punto, va ricordato che l'eccezione di rinuncia alla prescrizione non integra un'eccezione in senso proprio e, pertanto, può essere presa in esame dal giudice, anche d'ufficio, senza bisogno di un'apposita iniziativa della parte interessata, purché i fatti sui quali essa si fonda, anche se non allegati dalle parti, siano stati ritualmente acquisiti al processo

(Cass. Civ. , sez. III, n. 4804 del 2007): è quindi irrilevante il fatto che il comune appellato qualifichi nelle sue difese la richiesta di cui si discute come atto interruttivo della prescrizione e non come comportamento implicante una rinuncia tacita alla stessa.

L’eccezione di prescrizione versata con il mezzo in rassegna va quindi pianamente disattesa.

Restano invece inammissibili, come eccepito dal comune, le argomentazioni con le quali l’appellante contesta il contenuto motivazionale delle ordinanze n 394 del 2002 (con la quale fu disposta la C.T.U.) e n. 344 del 2003 poi confermata in appello (con la quale fu disposto il sequestro giudiziario dei beni in controversia), trattandosi di provvedimenti giudiziali afferenti alla fase cautelare e che non possono costituire oggetto del presente giudizio, per come introdotto dall’impugnazione della sentenza di merito.

Con il secondo motivo l’appellante deduce l’inammissibilità della domanda proposta in primo grado dal comune ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., in quanto gli obblighi derivanti per la parte privata dalla stipula della convenzione di lottizzazione non possono assimilarsi – per le finalità pubblicistiche cui sono preordinati - a quelli nascenti da un ordinario contratto di diritto privato.

Con il quarto e quinto motivo l’appellante deduce la assoluta genericità della domanda formulata dal comune, non essendovi corrispondenza tra i beni individuati in convenzione e quelli di cui si pretende la cessione.

I mezzi, che possono essere unitariamente scrutinati, non sono fondati.

Come da tempo evidenziato in giurisprudenza, le convenzioni di lottizzazione sono equiparabili agli accordi sostitutivi di provvedimento di cui all’art. 11 della legge n.241 del 1990.

Ciò chiarito, l’ammissibilità della azione esperita dal Comune discende dal fatto che – come ben precisato dal T.A.R. – l’atto d’obbligo sottoscritto dal privato in vista della autorizzazione a lottizzare non ha comportato di per sé effetti traslativi della proprietà dei beni la cui cessione è stata prevista, configurandosi in guisa di atto preliminare che deve essere seguito necessariamente, ai sensi dell’art. 28 comma quinto della legge n. 1150 del 1942, da un negozio di cessione gratuita.

Di talchè, nella ipotesi di inadempimento dell’obbligo di stipulazione da parte del lottizzante, l’ente locale creditore ben può chiedere al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva ai sensi del citato art. 11, l’emanazione di una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso.

Tanto evidenziato sul punto nodale, resta solo da ribadire che la domanda formulata nel giudizio di primo grado dal comune non risulta in alcun modo connotata da genericità, come pretenderebbe l’appellante.

In proposito va infatti osservato da un lato che il comune ha indicato con analitica precisione i riferimenti catastali identificativi delle aree di sedime e quindi dei beni che avrebbero dovuto essere ceduti, ai sensi della convenzione;
dall’altro che la parziale difformità tra le opere previste in convenzione e quelle effettivamente realizzate non può che essere imputata alla lottizzante originaria alla sua avente causa.

Tale colpevole difformità non può quindi oggi essere ragionevolmente invocata a giustificazione

del perdurante inadempimento all’obbligo di cessione.

Infondato è il terzo motivo (nonché il sesto motivo) mediante il quale si deduce il difetto di contraddittorio necessario, a causa della mancata evocazione in giudizio della società IN.TU.GA., anch’essa attuale proprietaria di aree in origine destinate ad ospitare opere di urbanizzazione.

In proposito, anche a prescindere da ogni approfondimento in ordine alla effettiva indivisibilità dell’obbligo di cessione assunto dalla originaria lottizzante IAGAR, basta osservare che oggetto del presente giudizio è l’obbligo assunto dall’appellante, in relazione ai beni da cedere al Comune, sicché non rilevano in questa sede (e non giustificano il litisconsorzio necessario) le vicende riguardanti i beni acquistati dalla società IN.TU.GA..

Con il quinto motivo l’appellante rileva che in luogo della lottizzazione originariamente prevista e autorizzata è stato in realtà nel tempo realizzato un villaggio turistico di vaste dimensioni, con la conseguenza che le opere di urbanizzazione secondaria funzionali ad un insediamento abitativo hanno ceduto il posto a strutture funzionali alla gestione del villaggio turistico.

Ne consegue secondo l’appellante la sostanziale inesigibilità dell’obbligo di cessione, trattandosi di beni i quali hanno ricevuto – con l’assenso della P.A.- una destinazione d’uso incompatibile con quella prevista in convenzione.

Il mezzo è infondato, in primo luogo perché - come evidenziato dal T.A.R. – non può dirsi che la trasformazione del complesso residenziale in villaggio turistico sia stata puntualmente assentita dall’amministrazione: ne consegue che il cambiamento di destinazione d’uso attuato sostanzialmente per vie di fatto dal lottizzante è inopponibile all’amministrazione.

In ogni caso, ed anche a voler prescindere da tale rilievo, resta che i beni di cui si discute sono vincolati alla destinazione che è stata loro impressa per finalità esclusivamente pubblicistiche, in relazione al necessario rispetto degli standard di piano: tali finalità, evidentemente, non possono essere pretermesse solo perché il privato si è sottratto agli obblighi convenzionali.

Infondato è poi il motivo mediante il quale l’appellante allega il suo diritto - ai sensi dell’art. 24 della convenzione di lottizzazione - ad utilizzare gli immobili in controversia per dieci anni dalla data di trasferimento della proprietà: infatti, come ben evidenziato dal T.A.R., la questione è del tutto estranea all’ambito del presente giudizio, nel quale si controverte in ordine al trasferimento della proprietà dei beni.

Da disattendere, per le considerazioni sopra svolte, è infine il nono motivo mediante il quale l’appellante torna a sostenere che l’obbligo di cessione sarebbe venuto meno perché le opere realizzate dalla sua dante causa sono in parte diverse da quelle previste in convenzione ed hanno ricevuto comunque una destinazione d’uso commerciale.

Infatti, il mutamento di destinazione d’uso può giustificare ulteriori pretese del Comune, ma non ha inciso sull’obbligo della società di trasferire la proprietà dei beni.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello risulta infondato e va come tale integralmente respinto.

Le spese di questo grado del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in via forfettaria nel dispositivo.

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