Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-07-22, n. 202206479

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-07-22, n. 202206479
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202206479
Data del deposito : 22 luglio 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

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Pubblicato il 22/07/2022

N. 06479/2022REG.PROV.COLL.

N. 06076/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6076 del 2016, proposto dal Ministero della difesa, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ope legis -OMISSIS-, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

il signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato A T, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato B C -OMISSIS-, via Antonio Corseto, n. 29;

per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo Regionale per il -OMISSIS- n. -OMISSIS-, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio del signor -OMISSIS-;

visti tutti gli atti della causa;

relatore, nell’udienza pubblica del giorno 18 gennaio 2022, svoltasi con modalità telematica, il consigliere Francesco Frigida e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Marina Russo e l’avvocato A T;

ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il signor -OMISSIS-, ufficiale dell’Arma dei carabinieri, ha proposto il ricorso di primo grado n. -OMISSIS-, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il -OMISSIS-, per l’accertamento di comportamenti mobbizzanti e comunque vessatori da egli subiti all’interno dell’ambiente lavorativo e per la condanna del Ministero della difesa al risarcimento dei consequenziali danni patiti.

Successivamente l’interessato ha proposto motivi aggiunti con cui ha dedotto che le condotte mobbizzanti nei propri confronti erano proseguite con la proposizione di esposti anonimi da cui erano gemmati procedimenti penali suo carico, poi conclusisi con l’archiviazione.

1.1. Il Ministero della difesa si è costituito nel giudizio di primo grado, resistendo al ricorso.

2. Con l’impugnata sentenza n. -OMISSIS-, il T.a.r. per il -OMISSIS- ha accolto in gran parte il ricorso e ha condannato l’amministrazione statale al pagamento, in favore della parte privata, delle spese di lite, liquidate in euro 2.500, oltre agli accessori di legge.

2.1. Segnatamente il collegio di primo grado ha puntualmente sintetizzato i fatti di causa come segue: « Con ricorso notificato in data 29 settembre 2010 al Ministero della Difesa e depositato il successivo 4 ottobre, il maggiore -OMISSIS- ha premesso di essere stato trasferito nell’ottobre del 2002 “per servizio” al comando della Compagnia Carabinieri di -OMISSIS-, con il compito di “risanare un ambiente gravemente deteriorato da comportamenti disdicevoli, dall’acquiescenza colpevole del Comando e dal crescente discredito che ne deriva per l’Istituzione”. Secondo quanto esposto dall’ufficiale, nelle fasi iniziali della propria attività di comando, egli riceveva numerosi encomi e riconoscimenti per l’efficace contrasto ai sodalizi criminali operanti nell’area di competenza, instaurando ottimi rapporti con i propri superiori, in particolare con il Generale -OMISSIS- e con il Procuratore della Repubblica di -OMISSIS-, dott. -OMISSIS-, che difesero ripetutamente l’operato dell’allora maggiore -OMISSIS-, allorché le sue indagini giudiziarie toccarono esponenti politici di rilievo e membri di primo piano delle istituzioni. I numerosi encomi e riconoscimenti, accompagnati da positivi giudizi valutativi, venivano confermati in occasione delle temporanee missioni all’estero dell’ufficiale ricorrente, anche in zone di guerra. Il clima nell’ambiente di lavoro cambiò - prosegue il ricorrente - quando nel 2007 fu incaricato dal Procuratore Capo di -OMISSIS- di investigare sulle coperture istituzionali della criminalità negli ambienti delle forze di polizia;
le indagini asseritamente mostrarono uno scenario in cui ampi settori anche delle forze dell’ordine e apparati delle istituzioni cooperavano con sodalizi criminali operanti sul territorio -OMISSIS-. In particolare, emergevano responsabilità a carico del Comandante Provinciale dei Carabinieri di -OMISSIS-, Cnnello -OMISSIS-, diretto superiore del ricorrente il quale - prosegue il maggiore -OMISSIS- - dopo aver compreso che l’ufficiale stava svolgendo indagini nei propri confronti, iniziava a impartire ordini e direttive gravemente dannose per le indagini. In particolare, secondo quanto rilevato nel provvedimento restrittivo adottato nei confronti del predetto Comandante dal GIP del Tribunale di -OMISSIS-, l’atteggiamento dell’Ufficiale superiore nei confronti del ricorrente e dei suoi uomini, finiva per assumere i connotati di un tentativo di neutralizzazione dell’azione di indagine e di mortificazione della figura professionale del ricorrente. In questo contesto - prosegue il ricorrente - il Comandante Regionale, Generale -OMISSIS-, succeduto al precedente Generale -OMISSIS- al Comando della Compagnia Regionale CC. nel corso del 2006, non prestava attenzione alle richieste di tutela provenienti dal -OMISSIS-, ma supportava le iniziative del colonnello -OMISSIS- - poi destinatario di una misura giudiziaria restrittiva della libertà personale - e del suo successore, colonnello -OMISSIS-. Per ciò che rileva in questa sede, il ricorrente asserisce di aver subito reiterate condotte mobbizzanti di cui chiede la riparazione, in particolare: 1) l’annullamento da parte del colonnello -OMISSIS-, ritenuto dal ricorrente immotivato e illegittimo, di una sanzione disciplinare inflitta dal maggiore -OMISSIS- a un proprio subordinato;
2) frequenti e illegittimi rilievi ai danni del -OMISSIS-, tra i quali l’irrogazione di sanzioni disciplinari connotate da svariati elementi di illegittimità;
3) l’esclusione del ricorrente dalle riunioni operative da parte del comandante -OMISSIS-;
4) il ritardo di oltre un anno per la trasmissione, sempre da parte del -OMISSIS-, delle istanze di rimborso per le spese legali proposte dal -OMISSIS-;
5) l’avvio da parte di altri superiori di azioni d’impulso di procedimenti penali a carico del maggiore -OMISSIS-, ritenute di tipo ritorsivo rispetto all’attività di indagine svolta dal medesimo nei confronti del col. -OMISSIS-;
6) violazioni del segreto d’ufficio da parte di militari dell’Arma, su fatti oggetto dell’attività del -OMISSIS-. Ulteriori elementi delle condotte - asseritamente mobbizzanti - subite dall’esponente consisterebbero nel tentativo di farlo trasferire per incompatibilità ambientale, con un provvedimento poi annullato da questo Tribunale amministrativo, con sentenza n. -OMISSIS-, confermata dal Consiglio di Stato (con decisione n. -OMISSIS-). Un ulteriore procedimento disciplinare per asserito carente controllo in una procedura di appalto veniva instaurato ai danni del maggiore -OMISSIS-, ma, a seguito delle contestazioni proposte dal ricorrente, veniva ritirato in autotutela, in quanto la stessa Amministrazione rilevava l’assenza di profili di antigiuridicità della condotta dell’Ufficiale. Ulteriori manifestazioni dell’atteggiamento persecutorio dell’Amministrazione sarebbero poi rintracciabili nei seguenti fatti: 1) i reiterati dinieghi di accesso documentale;
2) l’archiviazione dell’istanza per l’anticipazione delle spese legali nell’ambito di un procedimento penale, da parte dello stesso Generale che aveva promosso nei confronti dell’esponente il procedimento medesimo;
3) la propalazione di elementi riservati pertinenti l’attività di indagine;
4) le denunce proposte avverso il ricorrente innanzi all’Autorità giudiziaria da parte del Generale -OMISSIS- che accusava, a sua volta, il -OMISSIS- di aver propalato notizie riservate utilizzate, poi, nel provvedimento restrittivo adottato nei confronti del col. -OMISSIS-. Anche le informative inoltrate dallo stesso -OMISSIS- alle gerarchie dell’Arma per rappresentare l’atteggiamento persecutorio dei superiori nei propri confronti erano utilizzate per avviare un ulteriore procedimento disciplinare nei suoi confronti, poi abbandonato dalla stessa Amministrazione. Così come oggetto di ritiro in autotutela era l’ulteriore sanzione del Rimprovero irrogata nei confronti dell’esponente. Dopo l’arresto del colonnello -OMISSIS-, le istanze di accesso documentale proposte dal ricorrente venivano declinate e rigettate, con eccezioni di ogni genere, mentre quelle proposte dal predetto ufficiale superiore venivano accolte – e la documentazione ostesa - anche quando riguardavano il ricorrente senza che gli venisse fornita informativa;
lo stesso atteggiamento di sistematica opposizione veniva rilevato dal ricorrente con riguardo all’istanza di anticipo delle spese legali per i giudizi nei quali era stato coinvolto in relazione all’esercizio delle sue funzioni, che non veniva nemmeno evasa. A tali fatti si aggiungano le c.d. “valutazioni caratteristiche” (giudizi annuali su operato e rendimento dell’ufficiale), che subivano un repentino peggioramento, rispetto a quelle riconosciute al ricorrente prima dell’arresto del colonnello -OMISSIS- e nonostante le note del Procuratore Capo di -OMISSIS-, per il quale il ricorrente svolgeva le indagini giudiziarie, note recanti apprezzamenti che continuavano ad essere chiaramente lusinghieri per il ricorrente. Tutto ciò premesso, il ricorrente concludeva chiedendo all’intestato Tribunale: 1) di accertare e dichiarare che il maggiore -OMISSIS- ha subito con continuità all’interno dell’ambiente di lavoro comportamenti mobbizzanti e, comunque, vessatori da parte dei suoi colleghi di lavoro superiori gerarchici;
2) ritenere e dichiarare il Ministero della Difesa responsabile di tale comportamento illegittimo e del sue conseguenze, in quanto direttamente incidenti ex art. 2087 c.c. sull’integrità psico-fisica e quindi sulla salute del lavoratore;
3) di conseguenza, condannare il Ministero della Difesa al risarcimento di tutti i danni provocati da tali comportamenti mobbizzanti determinanti un danno biologico, morale, professionale, alla vita di relazione familiare e sociale, per perdita di chance ed esistenziale da liquidarsi anche in via equitativa, oltre alla liquidazione delle spese processuali. Con atto depositato in data 14 gennaio 2014, si costituiva in giudizio il Ministero della Difesa chiedendo che il ricorso fosse respinto, in quanto i trasferimenti asseritamente punitivi, rientrerebbero in una normale vicenda amministrativa che, seppure connotati dai profili di illegittimità che hanno condotto all’annullamento in autotutela e giurisdizionale dei provvedimenti in questione, non rivelerebbero alcun intento persecutorio nei confronti del ricorrente, semmai semplici irregolarità amministrative. Con ricorso per motivi aggiunti, notificato in data 14 maggio 2014 e depositato il successivo 19 maggio, il ricorrente ribadiva tutte le doglianze e le domande proposte, aggiungendo che dalla data del deposito del ricorso introduttivo le condotte mobbizzanti nei propri confronti erano proseguite con la proposizione di esposti anonimi che davano luogo all’instaurazione di procedimenti penali a proprio carico, poi conclusisi con l’archiviazione. Sotto questo profilo, il ricorrente lamenta la lesione anche del proprio diritto all’immagine, leso per effetto di esposti e procedimenti disciplinari infondati, insistendo quindi per l’accoglimento della domanda proposta con il ricorso introduttivo, fissando i criteri ex art. 34 c.p.a. per la quantificazione dei danni. Con memoria depositata in data 19 maggio 2014, l’Amministrazione resistente ha rilevato che solo il ricorso avverso la scheda valutativa impugnata dal ricorrente innanzi al TAR del -OMISSIS- era stato definito con una sentenza di accoglimento, mentre erano ancora pendenti i giudizi innanzi all’intestato Tribunale, con riguardo le ulteriori schede valutative pure impugnate dal ricorrente. L’Amministrazione informava poi che, dal 2 ottobre 2010, il ricorrente era stato trasferito presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale del Ministero dell’Interno -OMISSIS-. Con ulteriore memoria depositata in data 23 maggio 2014, il ricorrente ribadiva le doglianze e le conclusioni proposte con ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti. Anche con la memoria depositata in vista dell’udienza di merito il ricorrente insisteva nelle conclusioni proposte con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti. All’udienza pubblica del 29 gennaio 2015 il ricorso veniva introitato per la decisione
».

Tale ricostruzione in fatto non risulta specificamente contestata dalle parti costituite, sicché, in ossequio al principio di non contestazione recato all’art. 64, comma 2, del codice del processo amministrativo, deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.

2.2. Il T.a.r. ha poi così motivato la propria statuizione: « Premette il Collegio che il c.d. mobbing consiste “… in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o da parte del suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo” (cfr.: sentenza n. 359/2003 della Corte Costituzionale).

Come precisato anche dal Consiglio di Stato, “per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l’ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
b) dall’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore;
d) dalla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio” (cfr.: Cons. Stato, III, 1 agosto 2014, n. 4105;
IV, 6 agosto 2013, n.4135;
VI, 12 marzo 2012, n.1388). Sotto il profilo oggettivo è stato puntualizzato che nel lavoro pubblico, per configurarsi una condotta di mobbing sia necessario “un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell’amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all’interesse generale a cui sono normalmente diretti’ (cfr.: Cons. Stato, IV, 19 marzo 2013, n. 1609;
VI, 15 giugno 2011, n. 3648). Sotto il profilo soggettivo è stato chiarito che la “sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini dell’enucleazione del mobbing’ (Cons. Stato, IV, n. 4105 del 2014;
16 febbraio 2012, n.815). Sotto il profilo probatorio si è chiarito che il lavoratore ‘non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l’esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione’ (cfr.: Cons. Stato, IV, 6 agosto 2013, n. 4135;
idem VI, 12 marzo 2012, n. 1388). La giurisprudenza ha aggiunto che ‘la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall’Amministrazione nell’ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l’asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo’ (cfr.: Cons. Stato, VI, 4 novembre 2014, n. 5419;
idem V, 27 maggio 2008, n. 2515)” (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 marzo 2015, n. 1282;
nello stesso senso, idem Sez. III, 5 febbraio 2015, n. 576). IV - Ciò premesso sul piano dei principi, il Collegio ravvisa nel caso di specie tutti gli elementi per ritenere sussistente la fattispecie del mobbing, atteso che la documentazione versata in atti fornisce un quadro fattuale – che l’Amministrazione resistente non ha saputo confutare – di una reiterazione non casuale di episodi, nei quali il maggiore -OMISSIS- è stato destinatario di comportamenti plausibilmente unificati dal vessatorio intento di mortificarne la persona e screditarne la figura, isolando l’ufficiale ricorrente nell’ambiente militare. In tale ambiente, a causa dello stretto vincolo- gerarchico, che connota le relazioni tra superiori e inferiori, il pericolo di comportamenti vessatori risulta più elevato tenuto conto dell’ampio potere a cui i dipendenti sono sottoposti che, per altro verso, rende anche più sfuggente la distinzione tra il legittimo esercizio delle prerogative di sovraordinazione rispetto al patologico abuso di esse. A questo scopo, al fine cioè di consentire una chiara demarcazione tra l’una e l’altra categoria di comportamenti e individuare le condotte effettivamente mobbizzanti, occorre una rigorosa prova della sussistenza di comportamenti vessatori unificabili dall’intento di perseguitare, isolare, screditare il soggetto passivo del comportamento. Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, tale prova sia stata ampiamente raggiunta, tenuto anche conto che l’Amministrazione convenuta si è limitata a contestare l’effettiva sussistenza di un intento persecutorio con riguardo alla vicenda dei trasferimenti d’ufficio cui il ricorrente è stato sottoposto, poi annullati sia in autotutela che in via giurisdizionale, mentre non ha contestato la sussistenza delle ulteriori, numerose, condotte poste in essere nei confronti del ricorrente dai suoi diretti superiori. In primo luogo, è incontestato che il maggiore -OMISSIS- fino all’anno 2006 abbia beneficiato di valutazioni caratteristiche ampiamente positive e goduto della stima dei propri superiori, ricevendo riconoscimenti ed encomi per le missioni svolte all’estero e per le sue attività di polizia giudiziaria. Risulta altresì incontestato che tale stato di cose sia mutato radicalmente e repentinamente nel corso dell’anno 2006, soprattutto a patire dall’anno 2007, quando il maggiore -OMISSIS- fu incaricato dal Procuratore Capo di -OMISSIS- di svolgere indagini nei confronti di politici e appartenenti alle istituzioni, tra cui anche alcuni ufficiali dell’Arma;
indagini da cui scaturì, purtroppo, l’adozione di un provvedimento restrittivo nei confronti del Comandante Provinciale dei Carabinieri cli -OMISSIS-, diretto superiore del ricorrente. La natura pretestuosa e vessatoria delle iniziative assunte dall’Amministrazione convenuta nei confronti del ricorrente trova conferma nei provvedimenti giurisdizionali che ne hanno accertato l’illegittimità, si allude in particolare alla sentenza di questo Tribunale amministrativo datata -OMISSIS- nella quale si legge che “L’incompatibilità ambientale dedotta dall’Amministrazione nel primo procedimento di trasferimento per il contrasto del ricorrente con il suo superiore gerarchico, a seguito della rimozione dalla carica del detto superiore e della archiviazione del procedimento, si è tramutata, nel successivo procedimento di trasferimento, in generiche ragioni di carattere organizzativo, nonché in nuove ragioni di incompatibilità ambientale, questa volta riconducibili alla condotta interlocutoria - condotta che, a dire dell’Amministrazione, sembrerebbe quasi emulativa e molesta - tenuta dall’ufficiale ricorrente nel presentare istanze e quesiti ai superiori gerarchici. Sennonché, è proprio la descritta sequenza procedimentale a rendere intrinsecamente deboli e persino surrettizie le ragioni poste a sostegno del nuovo atto di trasferimento dell’ufficiale”. Vero è che, come rilevato dalla difesa erariale, tale pronuncia è stata confermata dal Giudice di appello che ha ravvisato un vizio di motivazione del provvedimento, ma tale difetto non può essere considerato quale normale espressione di una carenza procedimentale, perché il Consiglio di Stato ha espressamente rilevato che “né la proposta né il provvedimento di trasferimento spiegano per quali ragioni i comportamenti del militare, pur strettamente attinenti a questioni d’ufficio, siano stati ritenuti lesivi dell’efficienza e del prestigio delle istituzioni e pertanto idonei a disporre il movimento dell’ufficiale”. Il trasferimento d’ufficio non è l’unica manifestazione di atteggiamenti vessatori posti in essere dall’Amministrazione convenuta nei confronti del maggiore -OMISSIS-, il quale si è, ad un certo punto, trovato di fronte alla chiusura totale da parte dell’ambiente di lavoro e al reiterato diniego frapposto a qualunque sua richiesta, anche solo d’accesso ai documenti, sicché il -OMISSIS- era costretto a rivolgersi con frequenza agli organi di tutela, anche per ottenere il riconoscimento del proprio diritto di accedere agli atti di procedimenti, pur avendo rispetto ad essi, come ritenuto dalla Commissione per l’Accesso ai documenti amministrativi, un interesse giuridicamente tutelato all’ostensione (cfr.: decisione Commissione Accesso 6 aprile 2011, sub doc. 20). Un’ulteriore istanza di accesso relativa allo smarrimento della propria documentazione caratteristica, veniva rigettata dall’Amministrazione, costringendo ancora una volta il ricorrente a rivolgersi alla Commissione per l’Accesso che, anche in questa occasione, stabiliva l’obbligo di ostensione dei documenti in favore del ricorrente, trattandosi di documenti riferiti alla sua persona. Rilevano altresì i provvedimenti sanzionatori adottati dall’Amministrazione nei confronti del ricorrente e annullati in via giurisdizionale (cfr.: TAR -OMISSIS-, sentenze 16 dicembre 2013, sez. I-bis, n. 10842 e 10 febbraio 2014, n. 1568;
nonché TAR -OMISSIS-, sentenza 24 ottobre 2014, n. 575), nonché i rapporti valutativi relativi agli anni 2007, 2008 e 2010 contenenti giudizi non favorevoli al ricorrente annullati anch’essi da questo Tribunale, rilevando, tra l’altro, che “in un contesto obiettivamente connotato da accesa conflittualità che superava la fisiologica dialettica tra differenti gradi gerarchici e le eventuali diversità caratteriali delle persone, costituendo, semmai, espressione di una logica di contrapposizione in cui emergeva un atteggiamento, da parte degli ufficiali valutatori, pregiudizialmente negativo nei confronti del ricorrente e che verosimilmente era presente anche al momento in cui sono stati elaborati gli impugnati giudizi valutativi” (cfr.: TAR -OMISSIS- 10 ottobre 2014, n. 522 e 24 ottobre 2014, n. 575 cit.). Da tutto quanto sopra emerge con evidenza il dato di un clima ostile, nel quale l’operato del maggiore -OMISSIS- era fatto oggetto di continui rilievi da parte dei propri superiori, i quali ne sollecitavano a più riprese anche il trasferimento d’ufficio e ne limitavano le possibilità di difesa, negandogli l’accesso agli atti, penalizzandolo nella progressione in carriera e attribuendogli valutazioni caratteristiche non favorevoli. Non rientrano in questo quadro di condotte illecite le denunce penali, oltre quelle anonime, anche quelle proposte dai propri superiori, le quali non costituiscono esercizio di un potere di sovraordinazione, ma rappresentano un illecito autonomo che deve essere ricondotto nell’alveo delle ordinarie condotte lesive che non costituiscono espressione del rapporto di servizio. Alla luce degli elementi documentali forniti e in applicazione dell’articolo 64, comma 2°, del c.p.a. tenuto conto della dettagliata indicazione dei fatti puntualmente descritti in ricorso e non contestati, è da ritenere superflua l’attività di acquisizione istruttoria su cui insiste la difesa della ricorrente, potendosi ritenere provata, alla luce della copiosa documentazione prodotta e delle deduzioni delle parti in causa, la sussistenza di un comportamento illecito dell’Amministrazione, lesivo della personalità morale del ricorrente. V - Ulteriore questione da affrontare è quella concernente la sussistenza del nesso di causalità tra i comportamenti posti in essere dall’Amministrazione (mediante i provvedimenti sanzionatori, di trasferimento, di diniego di accesso e le note caratteristiche) e i danni lamentati dal ricorrente. Nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve alla duplice funzione di criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile. Essa va pertanto scomposta (secondo l’opinione largamente prevalente) nelle due fasi corrispondenti al giudizio sull’illecito (nesso condotta/evento) e al giudizio sul danno da risarcire (nesso evento/danno) (cfr.: Cassazione civile, sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619). Ed è opinione altrettanto prevalente, in dottrina come in giurisprudenza, quella secondo la quale, nel macrosistema della responsabilità, l’unico profilo dedicato espressamente dal codice civile al nesso eziologico sia quello ricavabile dall’art. 2043 c.c., che costituisce la norma sulla struttura dell’illecito anche nei casi dei danni risarcibili ai sensi dell’articolo 2059 c. c., dove l’imputazione del “fatto doloso o –colposo” è addebitata a chi “cagiona” ad altri un danno ingiusto. Il quadro normativo del sistema di valutazione e determinazione dei danni (anche extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c.c.) appare, nel suo complesso, composto, quindi, dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.. Sul piano della operatività concreta la disposizione dell’art. 1223 c.c. si pone, rispetto alle altre, in termini di vero e proprio ius singulare, poiché con essa l’ordinamento limita il risarcimento alla perdita subita e al mancato guadagno, in quanto conseguenze immediata e diretta di un fatto dannoso, così allocando presso il danneggiante non una qualsiasi ripercussione patrimoniale, ma ciò che costituisce il danno vero e proprio (ossia il “danno ingiusto”) in riferimento al quale è determinante il giudizio ipotetico/differenziale tra condizione (dannosa) attuale e condizione del danneggiato quale sarebbe risultata in assenza del fatto dannoso. Al riguardo rileva anche il comportamento del danneggiato secondo la regola di cui all’art. 1227, co. 2, c.c., per cui l’osservanza, da parte di quest’ultimo, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa, limita, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., che deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose. In ordine al tipo di comportamento che il danneggiato deve adottare, il massimo Consesso della giustizia amministrativa ha stabilito che costituiscono espressione del canone di diligenza richiamato dal predetto articolo 1227, co. 2, c.c., anche le iniziative giudiziali intraprese dal danneggiato per limitare la portata lesiva dei provvedimenti e comportamenti adottati dall’Amministrazione (cfr.: Cons. Stato, Ad. Plen. 23 marzo 2011, n. 3). Nel caso di specie non può dubitarsi che il ricorrente abbia effettivamente esercitato tutte le azioni necessarie a limitare la produzione del danno conseguente ai comportamenti sopra menzionati, contestando puntualmente ciascuno degli atti vessatori posti in essere nel tempo dall’Amministrazione, proponendo ricorsi giustiziali interni e azioni innanzi al Giudice ordinario e amministrativo, senza quindi subire supinamente la condotta vessatoria e operandosi, come di più non poteva, per limitare i danni subiti, esperendo tempestivamente i rimedi necessari. Parimenti, la ravvisata sussistenza dei predetti comportamenti vessatori unitamente all’univoca direzione di essi contro il ricorrente, costituisce chiaro indice del doloso intento soggettivo che unifica i comportamenti stessi, dando luogo alla fattispecie del mobbing caratterizzato da un intento persecutorio nei confronti del soggetto passivo della condotta. L’Amministrazione, poi, come correttamente rilevato dal ricorrente, è chiamata a rispondere dei danni prodotti per effetto delle descritte condotte mobbizzanti, per non aver adottato ai sensi dell’art. 2087 c.c. tutte le cautele necessarie a impedire l’illecito, ma anzi per avervi dato causa. Nella fattispecie non vi è dubbio che le plurime vessazioni poste in essere da numerosi superiori gerarchici nei confronti del ricorrente siano riconducibili all’Amministrazione nel suo complesso, atteso che gli ufficiali superiori che hanno posto in essere tali comportamenti hanno esercitato le prerogative connesse alla posizione gerarchica da essi rivestita all’interno dell’Arma, di modo che le loro condotte sono perfettamente riferibili all’ente presso il quale gli stessi erano incardinati. Peraltro, l’imputabilità dell’illecito in questione all’Amministrazione risulta viepiù inevitabile per la circostanza che parte ricorrente ha più volte richiesto, anche attraverso ricorsi gerarchici, l’intervento in funzione protettiva dei propri superiori, ma l’Amministrazione non è intervenuta, almeno per accertare la reale consistenza delle situazioni ripetutamente denunciate, con ciò consentendo ai superiori del ricorrente di proseguire nella propria azione vessatoria, anche avviando procedimenti disciplinari per l’insubordinazione artificiosamente ravvisata nelle richieste di spiegazioni e di accesso proposte dal ricorrente. VI - In definitiva, devono ritenersi sussistenti tutti gli elementi oggettivi e soggettivi per la configurabilità dell’illecito civile, rimanendo da chiarire se e quali pregiudizi siano stati prodotti ed, eventualmente, entro che limiti essi possano essere ammessi a riparazione. Al riguardo, va in primis chiarito che la domanda risarcitoria è stata formulata, invocando il danno biologico, nonché il danno morale ed esistenziale, (figure queste ultime non configurabili come categorie autonome di danno, secondo quanto affermato da Cass. civ., SS.UU., n. 26973 dell’11.11.2008), da intendersi pertanto nel loro complesso come pregiudizio non patrimoniale tout court inteso, mentre il danno patrimoniale è riferito alla perdita delle prospettive di carriera (intese quali chances di progressione), pure invocato da parte ricorrente. Ora, con riferimento al profilo di danno c.d. biologico (definibile quale “lesione alla integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale… risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato”, alla luce del disposto di cui agli artt. 138 e 139 d.lgs. 209/2005, nonché di quelli di cui all’art. 5 D.P.R.

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