Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-04-21, n. 201002272

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-04-21, n. 201002272
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201002272
Data del deposito : 21 aprile 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08527/2008 REG.RIC.

N. 02272/2010 REG.DEC.

N. 08527/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 8527 del 2008, proposto dal signor B M, rappresentato e difeso dagli avvocati D C, C D M, R G O, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato C D M in Roma, via Nizza 92;

contro

Il Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza n.533 del 2008 pubblicata in data 8 marzo 2008 con la quale il TAR Puglia, sede di Bari, sezione II, ha respinto il ricorso all’esito del giudizio instaurato da M B per l’accertamento e la condanna da danno dovuto a mobbing nei suoi confronti tenuto dall’amministrazione della Difesa.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 aprile 2010 il Cons. Sergio De Felice e uditi per le parti gli avvocati Panzarola, su delega di Conticchio, e Mastrorosa;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Bari, l’attuale appellante, B M, agiva per il risarcimento dei danni che gli sarebbero derivati da comportamento illecito del Ministero della Difesa, datore di lavoro pubblico.

Al riguardo, in fatto esponeva di essere stato inquadrato nel ruolo di ufficiale farmacista dell’esercito a conclusione del 65° AUC a cui era stato ammesso nell’anno 1977, di essere stato assegnato in prima nomina all’Ospedale Militare di Chieti, di avere conseguito la promozione a Tenente in data 28.11.1979, di avere ricevuto il conferimento dell’incarico di ufficiale al vettovagliamento nell’anno 1981, di essere stato trasferito nell’anno 1984 all’Ospedale militare di Bari, dove avrebbe per circa quattro mesi svolto lavoro in farmacia in locali non adeguati, tali da cagionargli patologie già riconosciute dipendenti da causa di servizio.

Dal gennaio al maggio del 1985 egli era addetto nuovamente al servizio di vettovagliamento;
nel giugno del 1985 veniva adibito al gabinetto di analisi cliniche, svolgendo mansioni faticose e dequalificanti consistenti nella trascrizione manuale di 150 referti di analisi al giorno;
dopo tre anni veniva nuovamente assegnato in farmacia come Ufficiale collaboratore alle dipendenze del Direttore Ten. Col. R che lo investiva dell’incarico di acquisto e rotazione di farmaci e in tale lavoro, a causa delle temperature molto basse dei locali, insorgeva la patologia della sinusite cronica.

In seguito, sosteneva il ricorrente, gli venivano impedite possibilità di aggiornamento e crescita professionale (per esempio, gli veniva vietato l’accesso al laboratorio di analisi bromatologiche e quindi la pubblicazione di elaborati sul punto).

Nell’anno 1994 gli venivano attribuiti incarichi di vario tipo.

In data 5 dicembre 1996 era colto da infarto acuto del miocardio mentre era in servizio.

Dopo un anno di convalescenza rientrava in servizio e veniva incaricato di procedere al controllo dell’acquisto dei farmaci contattando le case fornitrici a telefono, ma tale telefono sarebbe stato occupato per buona parte del tempo dal suo superiore (Ten. Col. C).

In occasione dello svolgimento di tale lavoro, egli veniva invitato a lasciare la stanza in caso di conclusione di accordi per la fornitura e sarebbe stato fatto oggetto di commenti sarcastici sul proprio precedente impegno in farmacia.

In seguito, egli subiva ulteriore crisi ansioso-depressiva e nel dicembre 1999, dopo altri episodi infartuali, risultava non idoneo permanentemente al servizio militare con conseguente congedo assoluto in data 8.2.2000.

Sostenendo che le vessazioni e frustrazioni sul lavoro avevano minato il suo stato psichico, come comprovato da perizia legale, e lamentando il sistematico demansionamento tale da concretare il mobbing, l’interessato agiva per il risarcimento dei danni biologici, esistenziali, patrimoniali che riteneva di avere subito.

Il giudice di primo grado rigettava il ricorso, rilevando che valeva il principio della c.d. pregiudiziale amministrativa mentre nella specie nessun atto organizzatorio della pubblica amministrazione era stato mai impugnato;
l’inerzia del ricorrente doveva valere almeno ai sensi dell’art. 1227 c.c. (concorso del danneggiato nella causazione del danno per mancato tempestivo esercizio di azione o di iniziative a sua tutela).

In ordine all’asserito mobbing, il primo giudice osservava che dalle argomentazioni e dai fatti prospettati – mansioni non adeguate, condizioni inidonee delle strutture, mancanza di una linea telefonica autonoma, commenti sarcastici o invito a lasciare la stanza – a parte la loro riconducibilità, almeno in parte agli atti organizzatori (con validità del principio della necessità della previa impugnazione, mai avvenuta e comunque con la constatazione che mai uno di essi è stato nelle dovute sedi contestato), in realtà si trattava in buona parte di condotte in sé non offensive né mobbizzanti (come l’invito a lasciare la stanza, visto che egli non era il funzionario addetto alla conclusione del contratto di fornitura o come i commenti sarcastici riferiti al servizio di gestione della farmacia e non alla persona).

Il primo giudice osservava come il mobbing venga definito in giurisprudenza come una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta nelle sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità e della personalità morale del lavoratore, in violazione dell’art. 2087 c.c..

Inoltre, in contraddizione con l’illecito lamentato, la carriera del ricorrente è stata costellata di ampie valutazioni positive e in generale gratificanti e determinanti notevoli avanzamenti di carriera.

Avverso la sentenza di rigetto sopra menzionata propone appello il medesimo Ten. Con. M B il quale nell’atto di appello descrive nuovamente la serie di fatti già esposta in primo grado, deducendo in sostanza che:

1) solo a lui, tra tanti colleghi, venivano assegnate mansioni poco adeguate;
2) egli veniva assegnato in locali che avevano basse temperature;
3) in altro incarico mancavano completamente i mezzi e il personale di collaborazione;
4) veniva colto da infarto nell’espletamento del servizio;
5) dalla perizia medico-legale risulta la sua sofferenza di crisi ansioso-depressive (il 70% della depressione massima).

In ordine al ragionamento svolto dal primo giudice, l’appello deduce la erroneità della tesi della c.d. pregiudiziale amministrativa, trattandosi di diritti soggettivi inviolabili e la erroneità del richiamo al secondo comma dell’art. 1227 c.c..

A pagina 14 l’appello deduce un vizio del procedimento, in quanto le allegazioni difensive e la produzione documentale prodotte dalla Avvocatura dello Stato sono avvenute fuori termine e cioè soltanto due giorni prima della udienza di discussione del merito della controversia fissata al 24.1.2008 e il primo giudice non avrebbe dovuto tenerne conto.

Per il resto, l’appello ribadisce la assegnazione di mansioni e compiti inappropriati alla sua qualifica (come le analisi cliniche), il suo disturbo cronico, il danno biologico per mancanza di gratificazioni.

Sulla quantificazione, l’appellante chiede disporsi istruttoria e consulenza tecnica di ufficio.

Si è costituito il Ministero appellato, deducendo la infondatezza dell’appello e eccependo la prescrizione quinquennale del diritto azionato (in realtà ribadendo la eccezione già proposta in primo grado), risalendo i fatti ad almeno venti anni prima rispetto alla domanda giudiziale.

Alla udienza pubblica del 9 aprile 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Va in primo luogo esaminato il motivo di appello con il quale si lamenta la violazione delle regole del giudizio, per avere il primo giudice tenuto conto delle memorie e documentazioni difensive prodotte dall’amministrazione fuori dei termini di legge.

Il Collegio osserva che il rilievo, fondato in astratto, non rileva in fatto ai fini della decisione.

Se è vero che la memoria difensiva depositata oltre il termine perentorio di dieci giorni liberi fissati dall’art. 23 l.6 dicembre 1034 del 1971, è tardiva e di essa, conseguentemente, il Collegio giudicante non può tenere conto al fine della decisione che è chiamato ad assumere (Consiglio Stato, IV, 11 maggio 2007, n. 2267), tuttavia, nella specie, il ricorso è stato ritenuto infondato a prescindere dalle prospettazioni difensive prodotte dalla amministrazione, che peraltro si limitano alle mere allegazioni difensive, in disparte la eccezione di prescrizione, dalla quale anche in questa sede di può prescindere.

Nella specie, il ricorso per mobbing è stato respinto dalla sentenza gravata del TAR per la Puglia innanzitutto per infondatezza della domanda, né parte appellante richiama punti della depositata memoria (per esempio, come detto, in tema di eccezione in senso stretto, quale la prescrizione), dei quali avrebbe tenuto conto il primo giudice ai fini della reiezione del ricorso.

2.Con l’atto di appello si reitera la richiesta di diritto al risarcimento dei danni per la malattia consistente nella sindrome ansioso-depressivo, rigettata dal primo giudice.

Ritiene la Sezione che l’appello è del tutto infondato sulla base delle seguenti considerazioni, relative alla mancata deduzione di fatti illeciti specificamente imputabili all’Amministrazione e comunque al mancato assolvimento dell’onere della prova e alla contestazione degli atti organizzativi e presupposti, la cui illegittimità viene dedotta come parte del comportamento illecito del datore di lavoro.

Le situazioni definite e riportate come pregiudizievoli da parte appellante attengono:

a) alla assegnazione di mansioni dequalificanti;

b) alla assegnazione in locali a bassa temperatura;

c) alla mancanza di gratificazioni professionali;

d) al fatto di essere stato allontanato dalla stanza nella quale si concludevano i contratti, nonostante egli facesse parte della commissioni di gara (pagina 14 dell’atto di appello).

In disparte la azionabilità della domanda di equo indennizzo in presenza dei presupposti di legge, in relazione a tutte tali circostanze ritenute dall’appellante comprovanti del disegno persecutorio, il Collegio rileva la genericità delle prospettazioni, con riferimento alla ‘mancanza di situazioni gratificanti ‘ o alla ‘inappropriatezza’ dei compiti assegnatigli.

Inoltre, dalla documentazione acquisita, anche a voler prescindere dalla assenza di specifiche considerazioni sul punto dell’interessato, non risulta assolutamente alcun elemento soggettivo del dedotto illecito dell’Amministrazione, ovvero del prospettato disegno persecutorio.

Anzi, neppure sono precisati o indicati comportamenti o atti che avrebbero il carattere lesivo, lamentato nell’atto d’appello, né sono forniti elementi sufficienti in base ai quali questo collegio avrebbe potuto valutare se fosse il caso di disporre incombenti istruttori.

La condotta di mobbing del datore di lavoro, ravvisabile in ipotesi di comportamenti materiali o provvedimentali contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali, deve essere quanto meno esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi in sede giurisdizionale a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito (cfr. Sez. VI, 23 marzo 2009, n. 1716).

L’interessato deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo, anche con i suoi poteri ufficiosi, possa verificare se siano stati commessi illeciti nei suoi confronti.

Nella specie, l’appellante si è limitato a elencare situazioni del tutto eterogenee e l’illegittimità di atti di cui neppure ha posto in discussione l’illegittimità, evidenziandone la mancanza dei relativi presupposti.

In relazione alle condotte di per sè qualificabili come mobbing, questo Consiglio ha evidenziato che la ricorrenza di una condotta mobbizzante va esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte e accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi e episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (Sez. VI, 1° ottobre 2008, n.4738).

Nella specie, non è risultato sussistente in punto di fatto nessuno degli elementi dedotti dall’appellante.

Se anche è accaduto che qualche dipendente lo abbia fatto oggetto di commenti “sarcastici”, come lamenta l’appello, questo non è stato comprovato, in quanto non risulta da alcun esposto, da alcuna denuncia e neppure da alcuna segnalazione, che pure l’appellante avrebbe potuto tempestivamente e formalmente proporre, al fine di evitare la ripetizione di simili ipotizzati comportamenti, certamente sconvenienti nei rapporti tra colleghi.

L’infondatezza delle deduzioni dell’appellante e l’assenza di specifici profili di lesione e di illegittimità emessi dall’Amministrazione nel corso del rapporto di lavoro comportano dunque l’irrilevanza della questione di diritto sul “se” la loro mancata impugnazione ne precluda l’esame.

Peraltro, per una valutazione di complessiva inattendibilità delle deduzioni dell’appellante si può in questa sede rilevare come egli neppure abbia indicato, con nome e cognome, i funzionari o i dipendenti che in ipotesi abbiano violato i doveri del loro ufficio.

Egli si è limitato a fare il nome di un superiore che, a suo avviso, avrebbe utilizzato eccessivamente il telefono, non consentendo analogo uso, ma tale circostanza assume un rilievo del tutto marginale ed è comunque insignificante, non sussistendo alcun elemento tale da far sostenere che tale utilizzazione sia stata fatta in odio dell’appellante o con finalità emulative nei suoi confronti.

3. Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto, con conseguente conferma della impugnata sentenza.

Valutate le circostanze, sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.

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